domenica 20 luglio 2025

Contro il falso mito del popolo eletto: perché Israele non è la Germania nazista

 


Un vizio sempre più diffuso e pericoloso nel discorso pubblico contemporaneo è la grossolana equiparazione tra Israele e la Germania nazista, tra Netanyahu e Hitler, e tra ebraismo, sionismo e nazionalsocialismo.

A commettere questa forzatura ideologica non sono solo gli antisemiti di vecchia data, ma anche certe frange della sinistra radicale e della destra neofascista. 

A destra abbiamo ad esempio “National Action” nel Regno Unito, un gruppo neonazista dichiarato, sciolto dalle autorità nel 2016 ma che ha continuato a influenzare l’estrema destra europea con posizioni apertamente antisemite e revisioniste; “Alba Dorata” in Grecia, noto per il suo razzismo virulento e le violenze contro le minoranze, inclusi gli ebrei; “Vlaams Belang” in Belgio, partito di estrema destra con un passato di retoriche esclusive e critiche verso Israele che spesso sfociano in antisemitismo. In Italia, sebbene con meno evidenza, alcune accuse sono state mosse anche a “CasaPound”, a causa di dichiarazioni e atteggiamenti che hanno suscitato preoccupazioni su posizioni potenzialmente revisioniste o strumentalizzazioni del discorso sull’ebraismo. Anche in Spagna si segnala il caso di Isabel Peralta, giovane figura dell’estrema destra, che si autodefinisce nazionalsocialista ed esprime apertamente posizioni antisemite, guadagnandosi un certo seguito tra i neofascisti europei.

Quanto alla sinistra si pensi, come esempi ricorrenti ed eclatanti, a slogan come “Gaza = Auschwitz” in alcune manifestazioni europee, o ai paragoni di personaggi pubblici come Roger Waters – ex componente dei Pink Floyd, noto per le sue posizioni filopalestinesi – o di attivisti del movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), i quali parlano di “genocidio” in riferimento alla risposta militare israeliana a Gaza. Il pretesto? Il cosiddetto “mito del popolo eletto”.

Eppure, un’analisi appena più attenta – anche solo di base teologica – smonta in pochi istanti questa equazione infame.

Il concetto di “popolo eletto” nasce dalla rivelazione biblica e appartiene alla sfera spirituale, non politica. È un patto, non un programma. Un vincolo tra il popolo e Dio, non tra un partito e la nazione. Israele, nella tradizione ebraica, è chiamato a portare sulle spalle una responsabilità morale, non un destino imperiale. Essere “eletti” non significa essere “superiori”, ma “chiamati” a servire, a testimoniare, a soffrire per un ideale di giustizia. Tutto l’opposto di un’ideologia del dominio.

Il filosofo Emmanuel Lévinas in Totalità e Infinito (1961), pur non affrontando direttamente il tema, ci aiuta a capire come questa elezione sia anzitutto un’esigenza etica, una chiamata a riconoscere l’altro e a farsi responsabile della sua dignità, lontana da qualsiasi logica di supremazia o potere.

Quanto al sionismo, va collocato all’interno dei movimenti nazionali ottocenteschi, nati nel contesto delle lotte per l’autodeterminazione e il riscatto delle minoranze. Il sionismo, in questo senso, rappresenta una risposta legittima e pacifica all’emarginazione e alle persecuzioni subite dagli ebrei in Europa, mirando a creare uno Stato-nazione, presidiato dallo sviluppo di istituzioni liberali, per garantire sicurezza e dignità, senza alcuna pretesa imperialista o espansionistica.

Il nazismo, al contrario, come si può leggere in primis nel Mein Kampf, è fin dall’inizio una costruzione ideologica totalitaria, materialista, razziale, nemica assoluta del liberalismo, che fa dell’uomo-dio un principio assoluto e autodivinizzante. Il nazismo non si fonda su un patto con Dio, ma sull’idolatria del sangue e della terra. L’ebreo, proprio perché simbolo di un popolo spirituale, è stato per Hitler il nemico da annientare. E questo basterebbe a chiudere il discorso.

Va però detto, per chiarezza e onestà, che anche in seno allo Stato d’Israele esistono forze politiche – in particolare una destra ultrareligiosa e ultranazionalista, imbevuta di tradizionalismo ebraico – che rischiano di strumentalizzare il concetto di popolo eletto in chiave politico-identitaria.

Pensiamo ai partiti religiosi, da tempo  ago della bilancia alla Knesset, come Shas (sefardita, ultraortodosso) e Haredi Judaism (ashkenazita, altrettanto ultraortodosso). Entrambi si oppongono fermamente a ogni separazione tra religione e Stato, sostenendo una visione teocratica della sfera pubblica: dalla gestione del matrimonio e del divorzio, alla kasherut, al sabato e all’istruzione. Pur non essendo ideologicamente impegnati nel progetto sionista, e non avendo storicamente promosso in prima linea la colonizzazione dei territori occupati, questi partiti hanno spesso appoggiato governi favorevoli all’espansione degli insediamenti, in cambio di garanzie sui propri interessi religiosi e istituzionali.

Invece sul versante nazional-religioso, spicca  la coalizione di estrema destra  all'insegna del Sionismo  Religioso che riunisce formazioni come Tziyonut Datit, Otzma Yehudit e Noam. A differenza dei partiti ultraortodossi, questi gruppi uniscono il fondamentalismo religioso a un progetto politico esplicitamente sionista e territoriale, respingendo qualunque compromesso con i palestinesi. Tra i suoi esponenti, Itamar Ben-Gvir, attuale ministro della Sicurezza nazionale, è noto per le sue posizioni ultranazionaliste e anti-arabe. In passato ha espresso ammirazione per Baruch Goldstein, autore del massacro di Hebron del 1994, e ha militato in movimenti eredi dell’ideologia di Meir Kahane, bandita in Israele per razzismo.

Queste forze, oggi determinanti nei fragili equilibri parlamentari israeliani, forniscono a Netanyahu l’appoggio necessario per reggere un governo complesso e profondamente polarizzante. E proprio in questo contesto si avverte talvolta la tentazione – forse anche la deriva – di piegare l’idea di elezione divina a una logica di esclusione, privilegio etnico, dominio spirituale. Una torsione antiliberale di un concetto che nasce altrove, e che con la contingenza politica ha poco a che vedere. Un fatto che però va segnalato, perché la verità, anche quando scomoda, non si seleziona a piacimento.

Tutto ciò, però, non giustifica in alcun modo l’odiosa equiparazione tra Israele e la Germania nazista. Netanyahu, pur contestato, resta il leader di un governo eletto democraticamente. Sebbene, anche questo va detto, la sua coalizione sia la più a destra della storia d’Israele, promotrice di riforme giudiziarie contestate dai settori laici e liberali, con proteste di massa nel 2023, proprio per il timore di un’erosione dello Stato di diritto.

Le politiche di Netanyahu possono (e devono) essere criticate, come avviene in ogni sistema liberale, ma non è un dittatore. Non ha costruito forni crematori, non ha promulgato leggi razziali, non ha teorizzato uno sterminio etnico.

Va tuttavia ricordato che l’azione militare israeliana su Gaza ha sollevato interrogativi e accuse a livello internazionale, tra cui l’apertura di un’indagine da parte della Corte Penale Internazionale per presunti crimini di guerra, su entrambi i fronti.

Ciò però non significa che ogni critica a Israele sia antisemitica: è essenziale distinguere tra l’opposizione alle politiche governative e l’odio verso l’identità ebraica.La comparazione con Hitler è semplicemente un insulto alla verità e alla memoria. E chi la ripete, consapevolmente o meno, partecipa a un processo di banalizzazione del male e di demonizzazione dell’unico Stato ebraico del mondo. Processo che trova sponde tanto a destra quanto a sinistra, nell’alleanza impura degli estremismi.

Le estreme, come spesso accade, finiscono per incontrarsi nel disprezzo. Oggi lo fanno in quella che potremmo definire una teologia rovesciata dell’odio, dove il nemico non è solo Israele, ma l’ebraismo stesso come principio spirituale. I neofascisti disprezzano Israele perché non lo considerano abbastanza “etnico”, troppo legato a valori universali e liberali.

La sinistra radicale lo condanna perché, al contrario, sarebbe troppo identitario, troppo ebraico, troppo legato a una visione nazionale. Addirittura razzista e colonialista. In realtà ciò che davvero dà loro fastidio è l’idea che l’ebraismo incarni una chiamata morale, una vocazione trascendente, qualcosa che rifiuta la fusione indistinta dell’ideologia o del nichilismo. È questo – l’eredità spirituale dell’ebraismo nell’Occidente – il vero bersaglio comune delle estreme.

Qui sta il nodo della questione. L’attacco al concetto di “popolo eletto” è in fondo un attacco all’idea che possa esistere una vocazione morale universale, fondata su una verità non negoziabile. Perché l’ebreo, eletto non da se stesso ma da Dio, sfugge a ogni classificazione ideologica. È “altro” rispetto alle logiche mondane, e proprio per questo disturba.

Occorre tornare a distinguere tra spiritualità e ideologia, tra elezione divina e delirio di onnipotenza. L’ebraismo non ha mai preteso di imporre se stesso agli altri: ha piuttosto portato sulle proprie spalle il peso dell’incomprensione, dell’esilio, della persecuzione. Chi confonde l’elezione con la supremazia, non ha capito nulla. E chi accosta Israele al nazismo, non solo mente: tradisce la memoria.

In un’epoca di analfabetismo storico e spirituale, il compito dei pochi che ancora sanno leggere i segni dei tempi, per usare un linguaggio biblico, è resistere al pensiero semplificato, al cinismo ideologico, alla mistificazione della memoria.

Difendere la verità oggi non è solo un dovere intellettuale: è un atto morale. Il popolo eletto non è un popolo superiore, ma un popolo chiamato. E questa chiamata – radicata nella giustizia, nella responsabilità e nella sofferenza – è ciò che l’odio ideologico non può sopportare. Per questo, oggi più che mai, merita rispetto. E va difesa, anche a costo di essere impopolari.

Carlo Gambescia

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