I fatti. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2025, la lapide è stata oggetto di un grave atto vandalico: due targhe in marmo, tra cui quella del 1999 con l’epigrafe 'Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai', sono state spezzate e abbandonate sul ciglio della strada, ritrovate attorno alle 7 del mattino. La polizia ha avviato le indagini per risalire agli autori. Al momento non ci sono prove dirette che colleghino l’episodio a gruppi dell’area di destra, ma la matrice ideologica resta un’ipotesi concreta, anche alla luce della simbologia e del significato della lapide presa di mira.
In un Paese liberale, democratico e dotato di memoria, una simile profanazione sarebbe bastata ad aprire ogni prima pagina, a scatenare indignazione diffusa, a richiedere parole solenni, atti ufficiali, prese di posizione bipartisan. Invece: nulla. O quasi.
Il Ministro della Cultura, Giuli, si è recato sul posto, pare in modo riservato. Gesto apprezzabile. Ma come se l’è cavata? “Un atto di viltà che inorridisce la nostra coscienza repubblicana e che non deve rimanere impunito.” Notare: “coscienza repubblicana” — non antifascista.
E Palazzo Chigi? Assente. Giorgia Meloni, che tanto si è spesa nel tentativo di presentare un volto istituzionale, europeista e – seppure in modo rapsodico – antifascista, ha perso un’occasione unica per dimostrarlo coi fatti. Bastava una dichiarazione. Un fiore. Un tweet. Nei quali è bravissima.Invece, silenzio.
Così come da parte dei vertici di Fratelli d’Italia, partito che mai come in questo caso avrebbe avuto il dovere morale – e simbolico – di dissociarsi con forza. E invece, nulla.
A parte Giuli, come detto, nessun atto di presenza, nessuna condanna netta, nessuna vera presa di distanza pubblica.
E se da destra il silenzio pesa come una colpa, da sinistra si è levato qualche sussurro, qualche reazione stanca e di maniera.
I quotidiani nazionali, come accennato, anche quelli di centrosinistra e addirittura di sinistra, non hanno aperto in prima pagina con la notizia. Il “Corriere”, “Repubblica”, “La Stampa”, “Il Fatto” — tutti incentrati su gossip politici, dossieraggi, campagne a favore o contro la magistratura, cronaca estiva e facezie varie. Matteotti? Relegato nelle pagine interne o nelle cronache locali, quando c’è (*).
Nulla che somigli a una vera mobilitazione morale. Come si diceva un tempo, delle grandi risposte dalle “colonne” di questo o quel grande quotidiano.
Valga per tutti, l’esempio di Capezzone, che tuttora si dice liberale e democratico, che su “Libero” se la prende non tanto con i vandali, ma con la sinistra pronta a speculare, dimenticando che quelle reazioni, in realtà, sono state flebili e quasi imbarazzate. Si chiama anche riflesso pavloviano antisinistra.
Anche sui social, che spesso anticipano o amplificano le tendenze dell’opinione pubblica, le reazioni sono state scarse, quasi assenti. Qualche post indignato, qualche commento isolato. Nessun moto collettivo, nessuna eco virale. Come se anche la memoria antifascista, un tempo radicata nella cultura civile, fosse diventata un peso da gestire in silenzio.
Perché questo mutismo? Questo silenzio che grida conformismo? Giacomo Matteotti è un pilastro della Repubblica. Se oggi possiamo parlare, scrivere, votare, è anche per quella sua voce solitaria che, in Parlamento, denunciò la violenza fascista quando ancora molti preferivano voltarsi dall’altra parte.
Un brutto segnale. Grave.
Se Matteotti non fa più notizia, allora vuol dire che l’Italia, a cominciare dai giornali, lo ha rimosso. Non solo la destra. Ma anche quella sinistra che si proclama erede dei suoi valori, che dovrebbe difendere la memoria della Resistenza, e invece oggi appare assuefatta, stanca, impigrita nel sonno del politicamente conveniente.
Non è questione di retorica. È questione di cultura politica liberale. Di identità democratica. Di simboli.
Perché in democrazia i simboli contano. E quando si lasciano decadere, quando si permettono atti vandalici senza reazione, quando non si ha il coraggio di aprire i giornali con un “vergogna”, si finisce per normalizzare. Si finisce per abituarsi.
E si spalanca la porta a un nuovo conformismo, più sottile, ma non meno pericoloso: quello che accetta, con fastidio, la memoria antifascista come un’anticaglia, un reperto, una “cosa da vecchi”. Che tristezza.
La lapide spezzata è un fatto.
Ma il fatto vero, più profondo, più inquietante, è questo: è l’Italia ad essersi incrinata.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://www.giornalone.it/ .

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