martedì 30 settembre 2025

Pasqualina marajà e l’Internazionale dei nazionalismi

 


Il problema non è rappresentato dalla vittoria della destra nelle Marche. Le elezioni vanno e vengono. In realtà è molto più ampio.

Per quale ragione? Perché i tempi tornano a parlare la truce lingua del nazionalismo. Le varie destre, oggi denominate sovraniste, comunicano tra di loro, si collegano, fanno rete. Stanno cambiando il mondo, in particolare l’Occidente, e in peggio.

Il che emerge da dettagli che a prima vista possono apparire insignificanti. Per esempio, ieri Adnkronos, con il consueto tono semiufficioso e “in esclusiva” – che scoop… – ci ha informati che il primo ministro indiano Narendra Modi ha firmato la prefazione dell’edizione indiana di Io sono Giorgia (1). Una piccola curiosità: l’edizione americana si vanta già, con non poca spavalderia, della prefazione del figlio di Trump (2).

Quindi notizia vera, non satira. Ma la satira si scrive da sola. A quando l’edizione cinese, con prefazione di Xi Jinping? Oppure quella russa, quando cadrà la maschera anti-Cremlino (perché cadrà, cadrà…), con dedica di Putin: Io sono Giorgia, ma lui è Vladimiro?

Sembra quasi un festival folcloristico globale: dal Gange (per ora) al Cremlino, passando per i tropici. Domenico Modugno aveva visto lungo. Ricordate il suo “Pasqualino marajà”? La favola canora agrodolce del povero pescatore napoletano che sposa una principessa indiana. Una specie di sogno di Pulcinella.

Pasqualino la guardò/ E Kalì s’innamorò/Ed in India lo portò/ Pasqualino marajà/ A cavallo all’elefante/ Con in testa un gran turbante/ Per la jungla se ne va/ Pasqualino marajà/ Non lavora e non fa niente/ Fra i misteri dell’oriente/ Fa il nababbo fra gli indù/ Ulla, ulla, là, Ulla, ulla, là” (3).

Immaginiamole, queste versioni internazionali: Brasile, con Bolsonaro che allega un manuale di sopravvivenza nella giungla e una predica sulla famiglia tradizionale. Oppure Ungheria, con Orbán e la sua appendice su come trasformare la Costituzione in un depliant turistico.

A questo punto, l’edizione indiana rischia di sembrare la meno interessante. Una tappa verso la serata mondiale fascista degli Oscar.

Sorridiamo pure di “Pasqualina marajà”. Ma si rifletta un momento. Perché non è solo folclore esotico. È politica.

Che Pasqualina, pardon Giorgia Meloni, si faccia prefare il libro da Modi non è un fatto politicamente inoffensivo. Modi non è Churchill, non è Adenauer, non è Reagan, non è De Gaulle, tutti antifascisti a prova di bomba.

Modi è il volto di un’India nazionalista e autoritaria. Gioca la partita mondiale non come “alleato”, ma come polo autonomo. Guarda di traverso l’Occidente.


 

Proprio come i fascisti, che in India ebbero il loro campione Subhas Chandra Bose, finito a fare la marionetta del militarismo giapponese. Celebrato da Modi (4). Come dire? Modi e Meloni, dio li fa poi li accoppia.

Il messaggio simbolico è chiaro. L’Italia di Meloni non cerca legittimazione nel pantheon occidentale tradizionale, ma in quello dei nazionalismi globali. Non più Bruxelles o la Washington liberal-democratica,  come cornici naturali, ma un Maga mondiale a Delhi, Ankara, Budapest e così via.

Altro che vittoria nelle Marche, come soffietta la stampa organica. Qui si costruisce l’Anti-Occidente. Capezzone e Porro,  liberali per dire, riflettano sulle cazzate (pardon) che scrivono quotidianamente. Evidentemente non bastava il collabò Marcello Veneziani.

Il futuro rischia di essere quello di leader che si scambiano prefazioni, benedizioni e simboli per costruire un immaginario alternativo.

Una sorta di internazionale dei nazionalismi, che paradossalmente si presenta come globale proprio mentre rifiuta l’idea di globalismo.

Insomma, possiamo anche sorridere dell’edizione indiana di Io sono Giorgia. Possiamo divertirci a immaginare la versione cinese o quella saudita.

 


Ma sotto c’è una dinamica seria: il tentativo di legittimarsi in un club politico che non ha l’Occidente come centro, ma come bersaglio.

Alla fine, l’unica prefazione che resta a Giorgia Meloni è quella che scrive ogni giorno: non ai libri, ma all’Anti-Occidente che costruisce con atti e simboli.

Carlo Gambescia

(1) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/modi-scrive-la-prefazione-di-io-sono-giorgia-meloni-alladnkronos-onorata-nel-profondo_69Xx4xMW2Dfg28wGUcNZOu .

(2) Ne parliamo qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=Skyhorse+ .

(3) Qui il testo completo: https://lyricstranslate.com/it/domenico-modugno-pasqualino-maraj%C3%A0-lyrics.html .

(4) Ad esempio qui: https://ddnews.gov.in/en/pm-modi-pays-tribute-to-netaji-subhas-chandra-bose-on-parakram-diwas/?utm_source=chatgpt.com. E qui: https://www.ndtv.com/india-news/kartavya-path-pm-modi-unveils-netaji-subhash-chandra-boses-28-feet-tall-statue-3327771?utm_source=chatgpt.com . Sulla figura di Bose e il suo rapporto con i fascismi si veda – con cautela – il saggio di Claudio Usai (2019). Qui: https://journals.openedition.org/diacronie/11363

lunedì 29 settembre 2025

Quando il silenzio vale più di mille parole: Venezi alla Fenice e il declino dell’antifascismo

 


La nomina di Beatrice Venezi a direttrice musicale della Fenice di Venezia ha scatenato una rivolta di orchestrali, sindacati e abbonati. Tipo il famoso film di Fellini.

I comunicati si sprecano: “curriculum insufficiente”, “mancanza di trasparenza nella scelta”, “nomina calata dall’alto”. Tutto vero, certo. Ma manca il punto fondamentale, quello che nessuno osa dire: Beatrice Venezi non si è mai dichiarata antifascista.

In Italia, oggi, ci si vergogna a esserlo. Ecco la vera tragedia collettiva.

Un passo alla volta. Venezi ha sempre rivendicato la sua identità politica così:

“Non sono fascista, sono di destra, conservatrice e credo in Dio.” , dichiarazione alla “Stampa”. E ancora, in occasione di una polemica con Monica Cirinnà, la Venezi ha difeso senza imbarazzo il motto che più di ogni altro evoca il Ventennio: “Dio, patria e famiglia sono i miei valori.” (*).

Ora, è vero: non ha mai detto “sono fascista”. Ma è altrettanto vero che non ha mai detto il contrario, cioè “sono antifascista”. Non ha mai preso le distanze dal regime che ha trascinato l’Italia nella guerra, né da quella stagione in cui essere liberali significava essere perseguitati. In Italia, dove la democrazia si fonda sull’antifascismo, il silenzio vale più di mille dichiarazioni. Parliamo di un vero e proprio patto costituzionale. Un prius, per parlare difficile. La causa primaria della nostra liberal-democrazia. Se viene meno quella cade questa.

Inoltre, cosa non secondaria dal punto di vista probatorio (pardon per il piglio avvocatesco), Venezi proviene da una famiglia con chiari legami neofascisti: suo padre, Gabriele Venezi, è stato dirigente nazionale di Forza Nuova. Ed è noto che le posizioni politiche dei genitori non sono solo un dato di biografia, ma spesso un fattore decisivo nella formazione dei figli.

Studi di scienza politica mostrano che la partecipazione politica, l’orientamento ideologico e l’affiliazione partitica si trasmettono intergenerazionalmente in misura significativa (**). Non si tratta di determinismo: molti figli divergono, ma la probabilità che condividano il retaggio politico dei genitori è elevata quando ci sono “famiglia politicizzata”, tradizioni, dialogo interno. Questo rende l’ambiguità di Venezi — che non condanna né il fascismo né si definisce antifascista — non solo un fatto personale, ma simbolico di una più larga crisi civica e civile.


 

I lavoratori della Fenice l’hanno contestata. Gli abbonati hanno disdetto i posti. Tutti hanno trovato mille buoni motivi: l’età, il curriculum, il fatto che non abbia mai diretto un titolo d’opera in cartellone. Ma nessuno ha sottolineato il punto fondamentale: un’istituzione culturale di prestigio non può essere guidata da chi non ha mai preso posizione antifascista.

Questo silenzio non è casuale. È la fotografia del nostro Paese: l’Italia dove dichiararsi antifascisti è diventato imbarazzante, scomodo, “divisivo”. Si sorvola sul vero nodo, rifugiandosi in scuse banali: è giovane, poco nota, persino donna. Tutti argomenti che i sostenitori della Venezi ribaltano facilmente, spostando il dibattito su un terreno neutro e uscendo così con la coscienza a posto. E magari facendo pure bella figura.

Vale la pena ricordarlo: l’Italia il fascismo non l’ha subito, lo ha inventato. E la maggioranza degli italiani si è scoperta antifascista solo quando non voleva più andare in guerra. Se non fosse stato per la disfatta militare, il regime sarebbe durato chissà quanto. Mussolini sarebbe morto, nel suo letto, con il pannolone.

 


Proprio per questo l’antifascismo non è un optional: è il requisito minimo della convivenza civile, soprattutto per chi ricopre ruoli pubblici e culturali. Non può esserci “memoria condivisa” tra fascisti e liberali, tra chi sogna società chiuse e chi difende società aperte.
 
Molti – soprattutto a destra – sostengono che l’antifascismo debba essere inglobato nella categoria più ampia dell’antitotalitarismo. È una formula comoda: equipara il fascismo ad altri regimi, ne diluisce la specificità storica e culturale. Ma il punto è un altro: l’antifascismo è il primo passo di un percorso antitotalitario.

Proprio perché è il primo passo, è irrinunciabile. Non si può difendere la democrazia se si sorvola sull’unico totalitarismo che l’Italia abbia generato e che ancora oggi ispira nostalgie e ambiguità. Antifascismo significa: mai più dittature, mai più culto del capo, mai più società chiuse. È la base da cui ogni altro antitotalitarismo deve partire.

 


Beatrice Venezi non è un caso isolato, ma un sintomo. La sua nomina al Teatro La Fenice è stata decisa dall’alto, all’interno di una Fondazione i cui molti membri hanno legami con la destra: il Ministro Giuli, che vi esercita un’influenza significativa, e il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, esponente di Fratelli d’Italia. Giuli stesso è stato nominato da Giorgia Meloni, la quale non ha mai chiarito esplicitamente la propria posizione antifascista, rendendola di fatto invisibile o diluita. Così oggi, nella retorica dominante, si può parlare di Dio, patria e famiglia senza arrossire, ma guai a pronunciare la parola “antifascista”: non fa curriculum, non porta voti, non suona bene nei salotti televisivi.

Ironia della sorte: in un Paese che ha fatto della Resistenza il proprio mito fondativo, nel 2025 essere antifascisti sembra una macchia di provincialismo.

Non è vero che dobbiamo dimenticare. L’Italia ha pagato il fascismo con le leggi razziali, con la guerra, con la repressione di chiunque pensasse diversamente. Ha pagato l’antifascismo con sangue, nelle prigioni del regime e poi nelle montagne della Resistenza.

Chi desideri documentarsi si legga la tuttora bellissima biografia di Carlo Rosselli, trucidato in Francia nel 1937 con il fratello  Nello, su ordine come sembra di Mussolini. Opera scritta da Aldo Garosci, eccellente storico liberale. E vi troverà un autentico spaccato di cosa fu la repressione fascista. Un livre de chevet. Detto altrimenti, da tenere sul comodino (***).

 Per questo oggi non basta dire “non sono fascista”. In una democrazia liberale, bisogna dirsi antifascisti. È la linea di confine, netta e irriducibile, tra società aperta e società chiusa.

L’Italia che nomina Beatrice Venezi alla Fenice senza chiedere questa chiarezza, e che protesta senza avere il coraggio di dirlo, è un’Italia nostalgica, smemorata, e conformista. Un Paese che ha dimenticato che fascismo e liberalismo sono opposti inconciliabili.

E che senza antifascismo non resta nulla da difendere.

Carlo Gambescia

 

(*) Le citazioni, così come altre facilmente reperibili online, sono ampiamente disponibili cliccando sui rispettivi nomi.

(**) Come ad esempio il recente studio di M.M. Van Ditmars, Political socialization, political gender gaps and the intergenerational transmission of left-right ideology, "European Journal of Political Research" (2022). Qui: https://ejpr.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/1475-6765.12517?utm_source=chatgpt.com .

(***) Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze 1973, 2 voll.

domenica 28 settembre 2025

Non solo flotilla. Kiev, Gaza e le ambiguità dell’Occidente sulla difesa dell’individuo

 


Nessuna flotilla per Kiev. E questo già dice molto. Nonostante le minacce russe, che toccano direttamente l’Europa, l’attenzione politica e mediatica si è ormai da tempo spostata su Gaza. Perché? Perché in Medio Oriente le ferite sono più vicine, più visibili e, soprattutto, più cariche di simboli. Due pesi, due misure, appunto.

La guerra in Ucraina resta “importante ma lontana”. All’inizio c’è stata una mobilitazione straordinaria: armi, sanzioni, fondi. Poi, lentamente, la stanchezza. Il conflitto si è trasformato in un logoramento senza fine, con il rischio di escalation nucleare. Troppo costoso, troppo rischioso: e così l’attenzione dell’opinione pubblica cala, come se la guerra fosse diventata parte del paesaggio.

Gaza invece è “vicina e infiammabile”. Qui non si tratta solo di geopolitica: c’entrano la religione, i flussi migratori, il petrolio, e soprattutto l’alleanza indissolubile tra Israele e Stati Uniti. Ogni bomba, ogni immagine di distruzione ha un impatto immediato sulle nostre società. Israele non minaccia di invadere l’Europa: la sua forza è indiretta, passa dai legami politici, economici e culturali che ci legano a Washington.

E la sinistra? La sua posizione è altrettanto ambigua. In Ucraina una parte sostiene Kiev in nome dell’autodeterminazione, un’altra denuncia l’escalation militare e sospetta che l’Occidente usi il paese come pedina anti-russa. In Palestina la sinistra mantiene la storica simpatia per i palestinesi, ma con mille cautele: il rischio di apparire antisemiti, l’obbligo diplomatico di non rompere con Israele, l’eco delle tragedie passate. Così, tra richiami al “cessate il fuoco” e appelli alla “pace giusta”, il discorso resta vago, esitante. Una contraddizione che riflette l’incapacità di scegliere quale bandiera sollevare senza bruciarsi le mani

Sul fronte opposto, la destra sembra meno divisa. Nel caso ucraino sostiene l’invio di armi e la linea dura contro Mosca, spesso con argomenti di ordine e sicurezza. In Medio Oriente, invece, prevale una solidarietà senza riserve verso Israele, letta come baluardo contro l’islamismo e il terrorismo. Questa compattezza, però, è solo relativa: nasconde tensioni latenti tra sovranisti filo-russi e atlantisti filo-americani. Attenzione non classici, quindi liberali ma trumpiani. Ma all’esterno l’immagine è quella di un fronte compatto, capace di parlare con una voce sola,  e perciò più incisiva.

Tutto questo rivela un fatto fondamentale: la fragilità della difesa dei valori liberali. Se davvero l’individuo, con i suoi diritti inalienabili, viene prima della società, allora la sua tutela dovrebbe essere assoluta. Niente bombe sulla testa, in Ucraina come in Palestina. E invece non è così: i diritti vengono invocati a geometria variabile, a seconda delle convenienze geopolitiche, degli interessi economici e delle alleanze strategiche. Insomma un aperitivo (anche analcolico e futuribile, pensiamo al palestinese), senza bombe che piovono  sulla testa, no?

Qui emerge il nodo: non sono i diritti in sé a essere “astratti”, ma gli uomini che li manipolano, piegandoli alle proprie priorità: il fascista privilegerà lo Stato sull’individuo; il comunista la meta finale della storia, sacrificando il presente; il fondamentalista religioso la legge di Dio, che trascende ogni libertà terrena; L’ecologista il bene del pianeta, che può richiedere restrizioni alla libertà dei singoli. E giù bombe, materiali e immateriali.

E il liberale? In teoria dovrebbe mettere l’individuo al centro, senza deroghe. Ma in pratica anche i liberali, quando si confrontano con la realpolitik, finiscono per bilanciare, derogare, chiudere un occhio. Così i diritti diventano strumento retorico, usati per difendere Kiev e ignorati per Gaza, o viceversa.

Il doppio standard che vediamo nella gestione delle due guerre non è dunque un semplice problema di comunicazione o di strategia diplomatica: è un problema strutturale della modernità politica. Perché i diritti, nati come assoluti, sono finiti in una specie di terra di nessuno dove prevale di volta in volta chi grida più forte o chi ha più potere. Forza delle cose? Natura pericolosa dell’uomo? Riflesso egoista (o altruista)? Ci si interroga da cinquemila anni.

Sembrava che la modernità avesse messo a posto le cose. Però non tutti sono d’accordo. Il liberalismo ad alcuni non piace, ad altri non convince, e così via in cerca di un regime politico perfetto: la famosa isola che non c’è. Senza capire che rileggendo qualche pagina di Guizot, Tocqueville, Cavour,  De Gasperi, Churchill una via d'uscita si troverebbe. E non certo in quelle di  Marx, Lenin, Mussolini, Hitler e di qualche teorico mezzo scemo dell'ecologia profonda... 

In questo quadro si inserisce la nuova flotilla, che cerca la sua isola dalle parti di Gaza. Qui è inevitabile ricordare la Mavi Marmara del 2010: l’abbordaggio israeliano in acque internazionali, dieci morti, condanne internazionali. Ma il blocco restò intatto. Israele imparò che poteva reggere l’urto della critica pur di mantenere la sua linea di sicurezza. E infatti oggi, con la flotilla “Global Sumud” salpata da porti europei, il copione si ripete: avvisi, droni, sabotaggi, la prospettiva di un abbordaggio armato. Non per “affondare la flotilla”, ma per riaffermare l’intangibilità del blocco.

Che cosa può accadere? Intercettazioni in mare, arresti, sequestri di merci. Forse incidenti più gravi, se gli attivisti opporranno resistenza. Ma soprattutto una nuova crisi diplomatica: perché stavolta ci sono cittadini europei a bordo, e persino navi militari di Italia e Spagna inviate in scorta. Israele si trova quindi stretto fra la logica della sicurezza assoluta e il rischio di rompere con partner occidentali che non può permettersi di perdere.

Così il quadro si chiude. Da un lato Kiev, popolo aggredito che non riesce più a occupare le prime pagine. Dall’altro Gaza, dove ogni gesto diventa immediatamente globale. L’Occidente applica due pesi e due misure, oscillando tra Est e Sud a seconda delle crisi. La sinistra si attorciglia in formule ambigue, mentre la destra offre un’immagine più compatta e per questo più udibile.

Il risultato è un’ambiguità che diventa sistema. Kiev resta sola a combattere una guerra infinita; Gaza resta un campo di battaglia simbolico, dove ogni nave che salpa diventa un atto politico, ogni abbordaggio un dramma che risuona nel mondo. E soprattutto, resta irrisolta la questione più profonda: i diritti dell’individuo sono davvero universali, o sono solo un’arma che ciascuno piega alla propria visione del mondo?

Insomma, etica dei principi o etica della responsabilità? Probabilmente non c’è risposta. E in ogni caso impareremo vivendo. Forse.

Carlo Gambescia

sabato 27 settembre 2025

Il Cigno Nero dell’odio: Trump e la trasformazione della politica americana

 


Ieri sera, parlando di Trump con un giovane amico, serio e colto, che non sentivo da tempo, ho messo in luce quanto Trump si discosti dal modello tradizionale dei presidenti americani. Da qui nasce la difficoltà non solo di inquadrarlo secondo i criteri consolidati della politica USA, ma anche di spiegare le ragioni del suo straordinario successo. È proprio da questa riflessione che nasce l’articolo di oggi.

Esistono personaggi storici vocati al male (cioè guerra, morte, distruzione), si pensi a un Hitler, convinti però di fare il bene delle persone, e qui, per quel che riguarda la modernità si potrebbe risalire a figure storiche come Ferdinando II d’Asburgo, ultracattolico, educato dai Gesuiti, che scatenò la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) assalendo la Boemia protestante. Veramente un furore di dio, per dirla con Herzog.

Personaggi che innescano, processi di azione e reazione, come all’epoca, quello rappresentato da Gustavo II, re di Svezia, campione del protestantesimo, che scese in campo, aprendo, dopo quello boemo il cosiddetto periodo svedese della guerra dei Trent’anni. 

Inutile ricordare che catastrofe fu tale conflitto per la Germania e l’Europa. 

In queste figure spiccava, come portato di certo fanatismo religioso, secondo la logica a spirale degli estremi, l’odio assoluto per il nemico. E qui veniamo a Trump.

Si legga qui, cosa ha dichiarato nel suo discorso al funerale di Charlie Kirk.

“Ma poi, dimostrando di non riuscire neppure a lasciare che il defunto fosse al centro della sua stessa cerimonia funebre, Trump è intervenuto: «Ecco dove non ero d’accordo con Charlie. Io odio il mio avversario e non voglio il meglio per lui. Mi dispiace. Mi dispiace, Erika», disse guardando verso la vedova di Kirk, che in quello stesso servizio aveva dichiarato di aver perdonato l’assassino di suo marito” (“But then, demonstrating that he can’t even allow the deceased to be the focus at his own memorial service, Trump interjected: “That’s where I disagreed with Charlie. I hate my opponent, and I don’t want the best for them. I’m sorry. I am sorry, Erika,” he said looking toward Kirk’s widow, who at that same service said that she had forgiven her husband’s killer “) (*) .

Quest’uomo odia, e se ne fa un vanto, come la cosa più normale del mondo. Qui, la sua differenza con la tradizione politica americana. Che dalla Guerra d'Indipendenza, passando per la Guerra di Secessione, per giungere a due Guerre mondiali, pur nei momento più bui, per bocca dei Padri fondatori, Lincoln, Wilson, Roosevelt, mai era giunta fino a tanto. Cioè a teorizzare e giustificare l’odio verso un avversario tramutato in nemico assoluto. Qui siamo totalmente fuori dalla fisiologica ciclicità storica  pubblico-privato (semplificando) studiata da Arthur M. Schlesinger Jr. (**).

È vero, come scrisse lo storico Richard Hofstadter, che esiste nella politica americana uno stile paranoide (populista, mezzo fascista, reazionario, fondamentalista), ma è sempre rimasto ai margini dei meccanismi istituzionali (***). Della ciclicità di cui sopra.

Con Trump, per la prima volta, la paranoia politica ha agguantato il potere. Qui l’originalità (si fa per dire) di un leader che si circonda di complottisti, frustrati politici, odiatori di professione, razzisti, fanatici religiosi. Si pensi a un Steve Bannon, regista ideologico del trumpismo, a Robert F. Kennedy Jr., portabandiera di un complottismo pseudo-sanitario, allo stesso defunto Charlie Kirk, agitatore instancabile, ma anche a figure come Marjorie Taylor Greene, campionessa del QAnon in Congresso, o Michael Flynn, ex generale caduto in delirio cospirazionista. Un caravanserraglio politico che fino a pochi anni fa sarebbe stato confinato ai margini, e che invece oggi siede accanto al leader repubblicano.

Di qui anche la difficoltà di spiegare le misteriose ragioni del suo successo. Storici, politologi, sociologi si sono cimentati nella più diverse spiegazioni: dissoluzione del ceto medio, tradimento delle élite, isolazionismo diffuso, declino americano. Sono risposte che non possono essere scartate a priori. Però Trump è Trump: un concentrato d’odio che evidentemente piace all’elettore americano. Perché piace?

In definitiva, il nodo centrale del “mistero Trump” – ciò che lo rende un vero Cigno Nero della politica americana – sta proprio nell’odio. Un evento raro e imprevedibile nel panorama politico statunitense: non un odio privato o timido, ma un odio esibito, normalizzato e reso legittima categoria della politica. È questo che rompe con la tradizione americana, e insieme spiega la sua presa sugli elettori.

Perché l’odio funziona? Per almeno tre ragioni. Primo: perché semplifica. In un mondo complesso, con problemi globali intrecciati (clima, migrazioni, crisi economiche), l’odio offre un bersaglio concreto, immediato: un nemico riconoscibile. Secondo: perché mobilita. L’odio scalda più della speranza, muove le viscere più che la ragione, fa scendere in piazza e soprattutto fa andare alle urne. Terzo: perché legittima. Molti americani frustrati, arrabbiati, insicuri, trovano in Trump un leader che dice apertamente ciò che loro pensano o sentono in privato: “sì, è giusto odiare chi ti ha rovinato la vita”.

Trump è, in questo senso, il primo presidente della storia americana a trasformare l’odio in programma politico esplicito. Non è un effetto collaterale, ma la sostanza stessa della sua proposta. L’odio come carburante identitario, come linguaggio comune, come promessa di riscatto.

Ed è qui che il suo fascino si rivela: Trump non si limita a “rappresentare” i suoi elettori, ma dà loro il diritto di odiare, senza vergogna. Li solleva dal peso della complessità, dalle ambiguità morali, dalla fatica del compromesso. In cambio chiede fedeltà.

Ecco perché piace. In una democrazia percepita come in affanno — attenzione: percepita, perché il tenore di vita negli Stati Uniti e in Occidente, storicamente, non è mai stato così alto — l’odio non solo divide, ma unisce. Forma una comunità di “noi” contro “loro”, cementata non da un progetto politico, ma da un’emozione primaria. Quando questa emozione diventa politica, può generare voti, consolidare il potere e, come insegna la storia, talvolta sfociare in vere catastrofi.

E qui torniamo a una possibile nuova Guerra dei Trent’anni.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.msnbc.com/opinion/msnbc-opinion/trump-speech-charlie-kirk-memorial-service-rcna233000 . Autore dell’articolo: Jarvis DeBerry (MSNBC Opinion Editor).

(**) Si veda in particolare A. M. Schlesinger Jr., The Cycles of American History, Houghton and Mifflin, Boston 1986.

(***) R. Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021.

venerdì 26 settembre 2025

La "cocchiera" del Paese dei Balocchi

 


Stop. Bisogna riflettere. Viviamo nel tempo della massima confusione nella politica internazionale: non si distinguono più i buoni dai cattivi.

La Flotilla viene dipinta come “cattiva”, la Russia — che provoca nei cieli e minaccia la guerra — come “buona”. Dipinta da chi? Da una destra che ormai predomina nei vecchi come nei nuovi media.

La gente comune vorrebbe fregarsene di russi e palestinesi, ma non può. E così trionfa una disinformazione di marca destrorsa: la Flotilla come pugno di terroristi manovrati da Hamas, la Russia come Santa (mai come oggi).

Il principio è: non disturbare gli italiani (e vale per francesi, tedeschi, britannici…). L’Europa si scalda, al massimo, per il diritto alla pensione. Il tempo dei grandi ideali umanitari e della libertà di pensiero, parola e manifestazione sembra finito.

E su questo gioca la destra, che — a differenza della sinistra — sa come blandire un’opinione pubblica che vuole vivere tranquilla e vede la politica come un fastidio. Un italiano su due non vota, e tra quelli che votano, uno su due sceglie la destra “law and order”. In Europa il quadro è lo stesso, o sta per diventarlo.

La guerra come diceva un tale gallonato, non è forse la continuazione della politica con altri mezzi?  Allora quando un uomo politicizzato, per dirla con Sergio Leone, quindi armato di fucile, incontra un uomo non politicizzato, cioè con la pistola, quest’ultimo è un uomo morto. E gli europei rifiutano perfino di impugnare la pistola. I tre anni e mezzo di resistenza ucraina agli aggressori russi sono un miracolo militare, ma in Europa c’è chi storce la bocca, sminuisce o dissimula. Così come la storce davanti alla Flotilla, che può piacere o meno, ma raccoglie uomini e donne pronti a rischiare la vita per un’idea. Merce rarissima oggi.

I cattivi lo sanno, a cominciare da Putin. E giocano sulla depoliticizzazione europea, favorita dalle destre — a cominciare da quella italiana, guidata dalla “cocchiera” Giorgia Meloni — e benedetta da quel lupo che ama travestirsi da agnello, che si chiama Donald Trump. E che troppi americani prendono per buono.

Come distinguere allora i buoni dai cattivi? Basta rileggere Collodi. Chi ricorda l’omino di burro? Dai modi suadenti e falsi, tutto risatine, mezze risposte e silenzi. Cocchiere del viaggio verso la Città dei Balocchi, dove Pinocchio e Lucignolo si trasformano in asini.

Oggi in Italia abbiamo la donnina di burro. Lì è il male. In una politica ipocrita che favorisce il sonno della ragione, il tramonto dell’impegno umanitario, la fine della libertà, la resa dinanzi al male.

E in cambio di cosa? Di un silenzio comprato a buon prezzo, che però costa carissimo: la resa senza combattere. È la gita verso la Città dei Balocchi, dove a ridere non saranno gli ingenui italiani ed europei trasformati in asini, ma i cattivi che li hanno guidati fin lì.

Carlo Gambescia

giovedì 25 settembre 2025

Il discorso di Giorgia Meloni all’ONU. Tornano gli antichi fantasmi

 


Giorgia Meloni ha scelto il palcoscenico dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per un discorso che, a ben vedere, più che un intervento da leader globale, è sembrato un comizio domestico travestito da alta diplomazia (*).

Bersaglio principale: l’ONU, eternamente incapace, così fa intuire, di garantire la pace. Non un’esplosione plateale alla Trump, ma un siluro sottile e avvolgente: dire senza dire, alludere senza affermare, la firma della furba ambiguità che caratterizza il suo stile politico (**) .

In realtà una forma di vendetta verso la grande lezione impartita al nazifascismo nel 1945. È un refrain tipico della retorica sovranista: delegittimare le istituzioni multilaterali per legittimare il ritorno al primato della nazione. Non è un caso che lo stesso argomento fosse già stato agitato negli anni Trenta da Mussolini, che bollava la Società delle Nazioni come impotente e intrappolata tra politici parolai. Poi, come sappiamo, passò ai fatti…

Meloni ha condannato l’aggressione russa all’Ucraina, definendola una violazione flagrante del diritto internazionale. Ma la fermezza con Mosca si accompagna a un silenzio imbarazzato quando il discorso tocca gli alleati “scomodi”. L’ Israele di Netanyahu viene solo sfiorato, mai realmente chiamato a rispondere - soprattutto la destra ultranazionalista israeliana -  delle vittime civili a Gaza. Così la difesa del diritto appare parziale, piegata agli equilibri geopolitici, al calcolo di convenienza, alle distorte e brigantesche empatie nazionaliste.


 

È una logica che non è nuova. Anche il fascismo proclamava di difendere la pace e l’ordine, ma solo contro i nemici esterni al proprio disegno di potenza: Londra e Parigi venivano dipinte come “plutocrazie ipocrite”, mentre l’Asse giustificava ogni aggressione come “reazione” o “legittima necessità”. Oggi Meloni non adotta quell’enfasi guerresca, ma il meccanismo resta simile: condanna netta dei nemici, indulgenza verso gli amici. In entrambi i casi, il diritto internazionale si riduce a un’arma retorica, non a un principio universale. A Kant si preferisce Schmitt (anche se probabilmente Giorgia Meloni non ha letto una riga di nessuno dei due...).

Altro bersaglio polemico del discorso è stata la globalizzazione, definita fallimentare e colpevole di avere impoverito le classi medie. Anche qui, nulla di nuovo: la retorica del declino e dell’assedio esterno è un tratto ricorrente dei nazionalismi. Mussolini parlava di “plutocrazie mondiali” che sfruttavano i popoli; Meloni preferisce prendersela con i “piani verdi” e le corrotte élite occidentali accusate di condurre l’Europa alla deindustrializzazione. Cambiano i termini, non la logica: la colpa viene sempre da fuori, la soluzione è sempre la chiusura dentro i confini nazionali

Non poteva mancare il passaggio sul controllo delle frontiere. La Premier ha chiesto di rivedere le convenzioni internazionali su asilo e migrazioni, giudicate obsolete. Anche qui, la diagnosi è costruita per parlare al pubblico di casa: migranti e trafficanti come minaccia alla sovranità. È la riedizione aggiornata del mito dell’“assedio esterno” caro al fascismo, che vedeva nei movimenti di popoli e nei “nemici interni” una minaccia alla purezza e alla forza della nazione. Oggi si parla di teoria della sostituzione, se non è zuppa è pan bagnato.



Il discorso di Giorgia Meloni all’ONU non è stato solo vago o contraddittorio. È stato soprattutto rivelatore: dietro la patina della modernità comunicativa – i social, le immagini, gli slogan – si intravede una feroce grammatica antica. L’elogio della sovranità assoluta, la denuncia delle istituzioni internazionali come inconcludenti, la critica alla globalizzazione come decadenza, l’ossessione per i confini e la forza: tutti motivi che hanno avuto nel fascismo il loro laboratorio originario. Insomma, tornano gli antichi fantasmi.

Non si tratta, ovviamente, di dire che oggi l’Italia voglia rifare l’Impero. Ma di riconoscere che un certo lessico – quello del declino, della paura, della nazione come unico orizzonte – non è mai innocente. Ogni volta che riaffiora, ridisegna i limiti del possibile: restringe lo spazio dei diritti, svaluta il dialogo internazionale, normalizza l’idea che la forza conti più delle regole.

Ecco perché, più che un discorso all’ONU, quello di Meloni somiglia a un ritorno di fiamma – fiamma, quando si dice il caso – del Novecento autoritario. 

Un secolo che fino a qualche decennio fa si riteneva chiuso, ma che, a quanto pare, è tornato a bussare alla porta del presente.

Carlo Gambescia

(*) Qui il discorso integrale: https://www.governo.it/it/articolo/lintervento-del-presidente-meloni-all80-assemblea-generale-delle-nazioni-unite/29842 .

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/09/meloni-e-lo-stato-palestinese-ambiguita.html .

mercoledì 24 settembre 2025

Meloni e lo stato palestinese: ambiguità come metodo al potere

 




Oggi i giornali si occupano del delirio di Trump all’ONU. In realtà, sono esplosioni di ira e minacce, alle quali siamo purtroppo abituati. 

Noi, però, vogliamo occuparci di un’altra questione, che può favorire una migliore messa a fuoco della psicologia politica di Giorgia Meloni.

Dal riconoscimento della Palestina alla psicologia politica di  Giorgia Meloni

Prima i fatti. Alla Ottantesima Assemblea Generale dell’ONU, molti Paesi occidentali hanno annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina. L’Italia, invece, ha scelto la prudenza. Pur mostrando favore per la soluzione dei due Stati, non si dice d’accordo sul riconoscimento immediato. Un sì, ma senza Hamas e con la riconsegna degli ostaggi.

Si tratta palesemente di un prendere tempo. Ancora qualche mese, forse un anno, e Gaza sarà ripulita dai palestinesi. Questo non significa, però, che sia giusta la tesi di chi vuole imporre il riconoscimento di uno Stato palestinese che al momento non ha alcun requisito, né formale né sostanziale. Diciamo che questa è la direzione presa dai fatti, piaccia o meno.

La psicologia carrierista della premier

Giorgia Meloni, per dirla alla buona, si rimette al presupposto del carrierista tipo. Gioca astutamente sulla stupidità umana, sapendo che il nemico prima o poi si farà male da solo: sinistra italiana, palestinesi, israeliani, ucraini, russi, eccetera. Questo potrebbe valere anche per l’alleato Trump. 

Definiamo meglio il concetto di carrierismo. Il carrierismo è l’atteggiamento di chi punta tutto sull’avanzamento professionale come scopo principale della vita. Indica un’ossessiva ricerca di promozioni, potere e prestigio, spesso a scapito di valori personali o etici. Ha in genere una connotazione negativa, sinonimo di opportunismo e ambizione spinta. Non porta sempre lontano.
 

Cosa vogliono dire questi concetti? Che la principale preoccupazione di Giorgia Meloni, molto diversa da quella di Churchill, vero conservatore che sfidò Hitler, è di tenersi stretto il potere a spese di amici, nemici, italiani, stranieri, migranti, eccetera. Quella donna, come contenuti, non crede in nulla. O meglio, crede solo in se stessa.

Ambiguità come metodo

Qui si apre il capitolo dell’ambiguità come metodo. Che cos’è l’ambiguità? L’arte di non farsi capire in modo univoco.
 

Nel caso di Giorgia Meloni, rinvia a una forma mentis di tipo fascista, o, se si preferisce, di natura autoritaria. Più che a governare, aspira a comandare. E chi comanda impone obbedienza. Si guardi come tiene in pugno il partito ( prossime tappe in Italia ed Europa).
 

Per comandare il più a lungo possibile, l’ambiguità è di grande aiuto. La doppiezza fa guadagnare tempo. Certo, qui la differenza tra il dire le cose in modo sfumato e l’inganno è sottile. Alla lunga, l’ambiguità come metodo potrebbe tramutarsi in una debolezza, che non è sicuramente da grande statista.
 

Quando però  ci si trova, come Churchill, davanti a una Dunkerque, si deve decidere in fretta e furia. Altro che ambiguità…Pertanto, se un giorno Dunkerque sarà, quanti danni avrà provocato Giorgia Meloni fino al momento della verità?

Il doppio registro politico

In Giorgia Meloni c’è sempre uno scarto, ovviamente voluto, tra simbolo e azione. Vediamolo meglio. La sua strategia mostra un filo-atlantismo e filo-israelismo forti nella retorica (simbolo), ma calibrati nella pratica, anche sul dossier palestinese (azione).

Meloni si presenta come garante della fedeltà all’alleanza atlantica e come convinta sostenitrice di Israele. Tuttavia, il suo approccio mostra una netta differenza tra retorica e fatti. La premier ha visitato Israele il 21 ottobre 2023, subito dopo il Vertice per la Pace al Cairo. La visita, circoscritta a poche ore, includeva un incontro con il premier Netanyahu e gesti simbolici di solidarietà, senza impatti internazionali forti.

Fini, al contrario, nel novembre 2003, compì una visita ufficiale di tre giorni, con incontri significativi a Gerusalemme, Tel Aviv e Yad Vashem, pronunciando parole forti sul fascismo come “male assoluto”. La differenza non è nei tempi cronologici, ma nel peso simbolico e nella capacità di creare fratture o segnali chiari: Fini spingeva un cambiamento di rotta, Meloni calibra la percezione esterna senza alterare la base interna.

Inciso sul viaggio di Fini

Il viaggio di Fini fu simbolicamente e diplomaticamente rilevante. Suscitò malumori all’interno di Alleanza Nazionale e dei gruppi extraparlamentari, consolidando la rottura tra il passato neofascista e una nuova linea di responsabilità internazionale.
 

La frase pronunciata da Fini segnò uno spartiacque. Molti “colonnelli” e militanti ex-MSI non lo perdonarono, accusandolo di essersi piegato all’establishment e di aver “rinnegato” il passato. Nacquero battute feroci sulla kippah che indossò al memoriale, simbolo di “umiliazione” della tradizione neofascista.

Filo-israelismo e filo-atlantismo tattici

Il filo-israelismo di Meloni appare come strumento tattico. Serve a garantire credibilità internazionale e a consolidare legami con le destre globali (MAGA negli USA, Likud in Israele), senza rinnegare le radici identitarie del suo partito. L’Italia mantiene quindi una posizione prudente anche sul dossier palestinese: voti a favore della soluzione dei due Stati, ma nessun riconoscimento immediato.
 

In patria, Meloni evita confronti traumatici con il passato neofascista e i residui nostalgici, come emerso dalle indagini su antisemitismo e nostalgismo tra i giovani militanti di Fratelli d’Italia. In sintesi: nessuna dichiarazione sul "male assoluto".

Ambiguità come strategia di sopravvivenza politica

La strategia di Meloni è chiara: all’estero, l’Italia appare affidabile, filo-atlantica e filo-israeliana; all’interno, la premier non rompe con le sensibilità identitarie del partito, evitando fratture. Questo doppio registro, che si manifesta anche nella prudenza sulla Palestina, è il cuore del suo esercizio politico. Una maschera di affidabilità esterna convive con cautela interna mirata.
 

Ora la domanda: Giorgia Meloni crede in questa identità? Da brava carrierista, vi crederà fino a quando le farà comodo. 

L’elemento predominante è semplice da individuare: del fascismo apprezza il decisionismo, la forma mentis autoritaria, gli ordini secchi e il rumore dei tacchetti. Oltre all’odio sistematico verso la sinistra e la modernità culturale, universi che non capisce e non vuole capire. 

Giorgia Meloni difficilmente rappresenta un modello per una società aperta, moderna e liberale.

Una maschera perfetta, ma fragile

Pertanto, sul piano politico, l’apparente coerenza filo-atlantista e filo-israeliana nasconde una gestione calibrata della base interna. Sul dossier palestinese e sulle dinamiche internazionali mantiene margini di prudenza e opportunismo. Non è una conversione di convinzione, ma un esercizio di equilibrismo tra simboli, retorica e politica concreta.
 

Giorgia Meloni gioca con l’ambiguità come metodo politico: un equilibrismo che tiene tutti sospesi tra retorica e realtà, tra simboli e pratiche. La posta in gioco resta il consenso, ottenuto democraticamente per ora, dopo di che, come carrierista, potrebbe essere capace di tutto. Anche perché resta grande ammiratrice della forma mentis fascista.
 

Per ora, però, la maschera sembra perfetta. Ovviamente, il trucco, se osservato da vicino, risulta evidente. Ma bisogna saper guardare.

Carlo Gambescia

martedì 23 settembre 2025

Quando la libertà diventa una caricatura (vedi “La Verità”): il caso Kirk e il suicidio liberale

 


Chi ha tempo e pazienza si guardi la “Maratona della ‘Verità’ sulle idee di  Kirk” sull’omonimo sito del giornale di Belpietro (*). Altrimenti si può andare in edicola e, con un euro e cinquanta, ci si può fare un’idea dell’ operazione politico-culturale in corso.

Si tratta di agganciare, da parte della destra reazionaria italiana (Dio, patria e famiglia), le idee ancora più arcaiche e semplicistiche di un fondamentalista cristiano made in USA.

Si scusi la citazione “manualistica”, ma il primo a capire, all’inizio del Novecento, che la destra controrivoluzionaria aveva imparato la lezione – nel senso di usare gli strumenti della democrazia contro la democrazia – fu Roberto Michels. Egli individuò, nell’opera politica di Napoleone III, quegli elementi di cesarismo pseudo-democratico che, riducendo il momento democratico a quello del voto, di regola plebiscitario, spazzarono via, o comunque ridussero ai minimi termini, la democrazia liberale (**).

L’idea era questa: usare la democrazia diretta per fare fuori la democrazia rappresentativa. In pratica, per agguantare il potere. Mussolini, Hitler, Lenin furono fedeli esecutori.

Come del resto lo sono oggi i leader dei movimenti populisti, neofascisti, neocomunisti e di vario colore politico, comunque sempre accesamente antiliberali.
Il fondamentalista cristiano Charlie Kirk, tenace sostenitore di Trump (un politico amico dei dittatori e ideologicamente più vicino a Mussolini di qualsiasi altro presidente americano), non è che un epigono di questa metodologia.

La sua strategia consiste nel distruggere la democrazia liberale approfittando di tutti gli spazi lasciati liberi o vuoti. C’è una significativa frase di Lenin a proposito dell’uso delle libertà “borghesi”, a cominciare da quelle politiche, che recitava più o meno così: “Dobbiamo impiccare la borghesia usando le sue stesse budella”.

Infatti, per tornare al forum della “ Verità”, cosa rivendicano in coro i suoi partecipanti (un pittoresco mondo di affamati nemici del liberalismo)? La libertà di parola. Che però, una volta preso il potere, come sta accadendo negli Stati Uniti, ma anche in Italia e in altri paesi europei, i nostri “paladini” della libertà sopprimerebbero subito.

Ora, non è vero che il liberalismo ne limita la libertà. La destra reazionaria sta vincendo su tutti i fronti proprio grazie al libero voto dei cittadini.
 

Diciamo invece che il liberalismo si sta suicidando, come nel secolo scorso, tra le due guerre mondiali. La debolezza dell’idea liberale verso questa gente, politicamente poco raccomandabile, risiede nel senso di colpa che nasce in molti liberali di fronte alla negazione della libertà: troppe esitazioni, lagne, distinguo…

Sicché – semplificando – Trump, Meloni, Kirk, Belpietro, eccetera, ne approfittano per diffondere idee antiliberali con successo. Ma questa è un’altra storia. Rinvia all’infantilismo politico di masse oggi stressate anche dall’intenso uso dei social network.


 

In realtà, l’alternativa è tra il suicidio e la resurrezione. Cioè tra il cedimento verso i suoi nemici e la rinascita di un liberalismo forte, che non abbia alcuna paura di essere intollerante con gli intolleranti.

Storicamente parlando, il liberalismo, cosa purtroppo poco interiorizzata, è l’unico ordine politico che si fonda sull’idea di sostituire la scheda elettorale alle pallottole.

Idea e pratica che hanno meno di tre secoli. Il liberalismo è una navicella di libertà che sfida con coraggio i mari tempestosi di secoli d’autoritarismo, cercando sempre l’orizzonte di luce oltre le onde.

Ovviamente c’è chi approfitta di questo. E la sua testa va schiacciata, come quella di un serpente velenoso, prima che deponga le uova. La “navicella” va armata di potenti cannoni.


Si ricordi una cosa: il grande parlare di libertà di un Kirk non rinvia al discorso pubblico liberale.  Il liberalismo  vede nell’altro un avversario che domani magari sarà alleato e viceversa, mentre Kirk  scorge un nemico della libertà proprio in chiunque non sia cristiano.

 


Insomma,  di libertà Kirk ne vede una sola: quella di farsi cristiano. Il suo discorso pubblico è teologico, non politico. La sua logica è assolutista, non relativista.

Certo, ci si può accusare che anche la nostra enfasi sul liberalismo abbia un sapore di verità assoluta, teologica, e che quindi a nostra volta… eccetera, eccetera. E sia.

Però la storia  ha già mostrato cosa accade quando si lascia spazio a chi usa la libertà per ucciderla. Il liberalismo non può permettersi di ripetere quell’errore: o si rigenera come forza viva, capace di difendere le sue regole con fermezza, o finirà ancora una volta nell’album dei sistemi politici sconfitti.

Una specie di beffa. Perché non sarebbero nemmeno i Kirk di turno a vincere, ma i liberali stessi a suicidarsi, applaudendo chi li seppellirà in nome di una libertà ridotta a caricatura.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.laverita.info/verita-liberta-maratona-charlie-kirk-2674015272.html .

(**). R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, il Mulino 1966, Parte terza.

lunedì 22 settembre 2025

I funerali di Charlie Kirk e l’autunno della modernità

 


I funerali di Charlie Kirk non sono stati solo un rito religioso e civile: sono stati trasformati in un gigantesco comizio, con 200mila persone nello stadio di Glendale (Arizona) e la presenza di Trump e Vance. La retorica ha sacralizzato la morte di Kirk, facendo di lui un martire della “libertà” e un simbolo indiscutibile di fede e patria. In realtà, la celebrazione ha oscurato il dolore privato, trasformandolo in spettacolo politico e in strumento di mobilitazione.

Il lessico religioso, i canti cristiani, la vedova che perdona l’assassino (per il quale però Trump e MAGA chiedono la pena di morte): tutti elementi che, autentici o meno, sono stati incorniciati dentro un’operazione politica che ha fatto coincidere religione e identità nazionale. Si è passati dal funerale al comizio, dal rito al marketing ideologico.

Questa stessa retorica ha trovato immediata eco in Italia: le prime pagine di “La Verità”, “Il Giornale” e “Il Tempo” (solo per indicarne alcune) hanno amplificato la logica americana, presentando Kirk come un martire della civiltà occidentale. A Pontida Salvini e Vannacci lo hanno celebrato come simbolo di lotta; Giorgia Meloni ha addirittura evocato lo spettro delle Brigate Rosse (“non ci lasceremo intimidire ”). Il meccanismo è identico: un lutto individuale diventa occasione per ridefinire il campo politico in termini di “noi” contro “loro”.



Ma dietro questo schema c’è un disegno più grande: l’idea di un Occidente esclusivamente cristiano, che si contrappone a un nemico esterno, l’Islam, ridotto a minaccia monolitica.   

La questione palestinese rientra in questa narrazione come tassello di una nuova crociata. Alle sinistre viene attribuito un ruolo di quinta colonna: accusate di essere pro-Islam, perché pro-migranti, quindi  pro palestinesi, migranti prossimi venturi (il che è verissimo). Insomma  tutto il "pacchetto": spalancare le porte al nemico.

È un’operazione retorica che non mira tanto a descrivere la realtà quanto a costruire un capro espiatorio permanente. In questo modo, ogni dissenso politico diventa automaticamente tradimento, e lo spazio democratico viene ridotto a un conflitto morale tra i “difensori della civiltà” e i “collaborazionisti del nemico”. Per semplificare: tra chi crede nella idea-forza della teoria della sostituzione e chi no.

Si badi bene, quando la destra, anche in Italia. rappresenta Charlie Kirk come un martire per libertà, si fa riferimento a una libertà dentro il cristianesimo, negata a chiunque non sia cristiano. Una logica integralista, che se dovesse vincere, come accaduto con i templi pagani, chiuderebbe subito i templi liberali.

Si dirà, ma anche i liberali la negano a chi non sia liberale… Certo, ma non chiudono i templi cristiani. Magari peccano di antifascismo. Ma quella è la lezione del 1945 che i fascisti non hanno mai imparato.

Non solo. In questa logica, da vasto programma, l’Ucraina diventa un dettaglio sacrificabile: un piccolo problema interno, superabile se serve a favorire l’ingresso della Russia cristiana nell’Occidente cristiano. È la riproposizione di una visione medievaleggiante, dove l’identità religiosa schiaccia la complessità politica. Quanto poi Bisanzio e Roma (semplifichiamo) andranno d’accordo, in questa Nona Crociata ( e al posto di Israele non ci fideremmo troppo di questa gente), è difficile dire. Le prime otto furono scuola di prepotenza, ambiguità e astuzie varie. Il campo cristiano, alla pari di quello islamico, fu molto diviso.



Huizinga, nel suo celebre libro, vedeva i segni della modernità che si imponevano favorendo il tramonto del Medioevo, soprattutto sul piano delle superstizioni religiose (la famigerata “demonologia”, pagano-cattolica, dell’ultimo capitolo del Leviatano hobbesiano, il IV, che nessuno legge più…).

Oggi, paradossalmente, assistiamo all’inverso: all’ autunno della modernità. Le conquiste di secoli di politica laica, di pluralismo e di diritti universali, in una parola del liberalismo, vengono erose da una retorica che mescola altare e tribuna, fede e nazione, nemico esterno e mobilitazione interna.

Le due spade, spirituale e temporale, sembrano tornare a riunificarsi – anche per opera di un Papa, Leone XIV, dai disegni ancora non ben precisati ma comunque non liberali – nelle mani di politici ibridi, mostruosi, animati da una nuova specie di gelatinoso messianesimo politico a sfondo fortemente cristiano.

Per capirsi: la religione non più come fatto privato ma come fatto pubblico, politico, come pistola carica contro i nemici dell’Occidente cristiano. Si ricomincia da capo. Calpestando la memoria di Erasmo. Il teologo cristiano ma umanista, quindi liberale, che aveva previsto riforma, controriforma e guerre di religione. Se solo vi fosse stata pre-riforma… Non solo quella immaginaria degli storici giustificazionisti del tardo XX secolo… Anima di Erasmo dove sei? Qui occorre un cristianesimo erasmiano: liberale. Parole al vento, oggi come oggi.



Perciò il problema non è solo quello della commemorazione di un leader ucciso. Perché si rinvia all’uso di quella morte per alimentare una visione reazionaria, esclusiva e aggressiva. È l’idea di una nuova crociata che pretende di difendere l’Occidente ma in realtà ne tradisce l’anima liberale.

Ci si consente una battuta? Da lunedì post campionato di calcio? Joseph de Maistre 1 Erasmo da Rotterdam 0. E siamo solo alla fine del primo tempo. Qui si rischia la goleada reazionaria.

Ecco perché possiamo parlare davvero di un autunno della modernità: la stagione in cui il pluralismo, i diritti e la politica laica rischiano di tramontare sotto il peso di un messianesimo politico che brandisce la religione come un’arma.

E l’Occidente, quello vero, liberale, deve decidersi se resistere o arrendersi.

Carlo Gambescia

domenica 21 settembre 2025

Taglio armi Trump: perché i Paesi baltici sono in prima linea e perché dobbiamo preoccuparci

 


La notizia è circolata come un fulmine: l’amministrazione Trump ha informato alcuni alleati europei che programmi di assistenza militare — in particolare il cosiddetto Section 333 e  i fondi per la sicurezza baltica — verranno drasticamente ridotti o azzerati dal prossimo anno fiscale.

Piccola spiegazione. Section 333: programma che consente di fornire training, equipaggiamenti e assistenza a partner esteri per accrescerne la capacità difensiva. Baltic Security Initiative (BSI): programma dedicato a Estonia, Lettonia e Lituania per rafforzarne le forze armate tramite equipaggiamenti, cooperazione trilaterale e progetti infrastrutturali di sicurezza.

Qui va fatto un passo indietro. Poche settimane fa. Donald Trump ha incontrato Vladimir Putin ad Anchorage, esattamente il 15 agosto. Pertanto la sequenza temporale si impone con semplicità, addirittua con brutalità: summit; poi tagli. Una coincidenza? Certo che può esserlo. Ma definirla tale senza guardare ai benefici strategici per Mosca ( e non solo) è un esercizio di cecità politica.

Che cosa significherebbe, in termini concreti, per i Paesi baltici? Prendete Lettonia, Lituania, Estonia: territori piccoli ma cruciale «avamposto» davanti alla Russia. Tagliare assistenza, addestramento e certe forniture è come smontare, pezzo dopo pezzo, la recinzione che mantiene la pace in quella fascia di frontiera. Per Putin sarebbe un boccone succulento: meno deterrenza, più spazio di manovra. Non stiamo dicendo che ci sia un tavolo dove qualcuno firma «Concessione A in cambio di B» — sto dicendo che gli incentivi sono così evidenti che non si può fingere di non vederli.

C’è poi un altro livello di suggestione: Groenlandia e Artico. Se osserviamo la mossa complessiva — il disimpegno americano in Europa orientale (e occidentale) insieme alle pressioni su aree strategiche come Groenlandia e Artico — emerge una logica di spartizione tra grandi potenze. In questa dinamica, i «piccoli» pagano il conto.

La Danimarca ha appena lanciato esercitazioni e mosse di rafforzamento in Groenlandia; non è detto che sappia più di noi su eventuali piani segreti, ma di certo si sta muovendo come chi percepisce un cambiamento nella geografia politica. E se, ipoteticamente, la Danimarca fosse aggredita, cosa farebbe l’Europa?

Il parallelo può sembrare ardito, ma la logica di spartizione tra grandi potenze — con i piccoli che subiscono le conseguenze — ricorda il patto Molotov-Ribbentrop  e le gravi conseguenze che ne seguirono: la guerra generale. Non va poi dimenticato un altro elemento rilevante: le crescenti provocazioni militari di Mosca nelle ultime settimane. Ieri, inoltre, un misterioso cyber attacco ha colpito alcuni scali aerei europei, a conferma di un contesto di tensioni sempre più accentuato.

Qui va ricordato un elemento storico-culturale per capire, se fosse vera la nostra ipotesi, la gravità della situazione: il ritorno sfacciato della diplomazia segreta tuttora denunciata e persino ripudiata. Basti pensare alle anticipatrici battaglie di Woodrow Wilson per la trasparenza e alla pubblicazione degli accordi segreti dopo la Prima guerra mondiale (il Punto 1 dei famosi 14 Punti). Lo stesso Karl Marx ha dedicato pagine memorabili al «segreto diplomatico» come strumento della grande politica nelle Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo.

In sintesi: se, soprattutto dopo il 1945, il diritto internazionale ha formalmente rifiutato la diplomazia delle stanze segrete, quello che osserviamo oggi è un pericoloso e velenoso ritorno a quella stessa pratica.

Detto ciò: non abbiamo prova documentale di un patto segreto "firmato in camera" fra Trump e Putin che preveda tagli agli aiuti in cambio di concessioni russe (per fare un battuta: altrimenti che patto segreto sarebbe?). Non esistono ancora prove di un memo trapelato, di un contratto, né di una confessione valida. C’è però una forte convergenza di interessi — temporale, strategica e politica — che legittima la domanda: cosa si è discusso davvero ad Anchorage e a vantaggio di chi? E perché i primi effetti sembrano colpire proprio i più vulnerabili?

Infine si consenta un giudizio politico netto: Trump si comporta come un capo mafia, molto pragmatico, che alle guerre tra grandi famiglie, preferisce negoziare dietro le quinte per spartirsi il bottino della geopolitica, lasciando alle «famiglie» più piccole — i Paesi baltici, i partner minori — il conto e il rischio. Chi chiamerà questa cosa realpolitik, chi la chiamerà cinismo: a noi sembra una mascalzonata globale. "Mascalzone cosmico" non è un insulto goliardico, è una definizione politica: un attore che combina ambizione imperiale, disprezzo per regole e alleati, e la propensione a trattare la sicurezza internazionale come merce di scambio personale. È pericoloso. Quanto a Putin la sau natura canagliesca non è una  novità. 

Dal punto di vista analitico parleremmo invece di realismo politico criminogeno: una forma di realismo praticata da chi prova un vero godimento nel male che infligge ad altri; il piacere calcolato di trattare la sicurezza internazionale come merce di scambio, a vantaggio delle grandi potenze e a scapito dei più deboli. E ripetiamo goderne.

Mascalzone e carogna. Ecco che cos’è Trump, per tornare a un più libero registro morale.

Ovviamente il lettore non deve prendere, quanto appena detto per forza per oro colato — ma neanche sottovalutare il gioco.

Andranno attentamente seguite nei prossimi mesi le attività del Congresso USA, che ha comunque in materia un potere di controllo, le audizioni al Pentagono e le mosse di difesa dei Paesi baltici e della Danimarca. Nonché le reazione europee (se vi saranno…).

Se emergessero documenti o trapelassero informazioni riservate, ciò che oggi resta sospetto potrebbe trasformarsi in prova. Allora potremmo scoprire se la storia ricorderà questo periodo come un revival della diplomazia segreta, con piccole vittime e grandi vincitori.

A questo proposito, un’ultima osservazione: il possibile scambio tra Groenlandia/Artico e Baltico suggerisce che ad Anchorage la questione ucraina sia stata solo sfiorata. In altre parole, l’Ucraina non è stata sacrificata durante il vertice: il suo destino era già deciso, molto prima della messa in scena in Alaska.

Carlo Gambescia.

sabato 20 settembre 2025

Gesù accanto a Charlie Kirk. Non solo Islam: l’altra minaccia si chiama cristianesimo fondamentalista

 


Frank Turek, conduttore-predicatore radiofonico e televisivo, ha  dichiarato che Charlie Kirk, suo assistito spirituale, nel momento della morte aveva “accanto Gesù” (1). A prima vista, una frase consolatoria. Ma dietro si nasconde molto di più. E quel “molto di più” fa paura. O almeno dovrebbe far riflettere.

Il messaggio è chiaro: solo i veri cristiani – quelli “puri”, allineati – possono sperare in una morte accompagnata da Cristo. Tutti gli altri sono condannati alla solitudine eterna. È la logica tipica del fondamentalismo: chi non è con noi è perduto.

Non è solo religione. Qui la fede diventa strumento di esclusione, arma politica, marchio di superiorità morale. Un discorso che non lascia spazio a pluralismo, tolleranza, compromesso. Dietro figure come Turek e Kirk si intravede il progetto di un cristianesimo militante, che non ammette sfumature e che considera il liberalismo un nemico da abbattere.

E non è un problema confinato agli Stati Uniti. In Italia Giorgia Meloni si definisce con orgoglio “cristiana”, brandendo dio, patria e famiglia come bandiere identitarie. Ma quando a cadere vittima di violenza sono democratici o progressisti, il silenzio sembra prevalere. Così potrebbe essere stato nel caso dell’assassinio dell’esponente democratica Melissa Hortman e del marito: non risultano dichiarazioni ufficiali né da parte di Meloni, né del “papa americano” Leone XIV, pronti invece a esprimere cordoglio quando a soffrire sono “i loro”. Due pesi, due misure.


 

Il fondamentalismo cristiano non conosce confini: assume accenti americani o italiani, ma la sostanza resta la stessa. Una religione piegata a ideologia politica, usata per dividere e stigmatizzare. In Italia come negli Stati Uniti, il risultato è invariabilmente lo stesso: un cristianesimo ridotto a slogan militante, nemico di ogni autentico liberalismo.

Perché Kirk piaceva a Trump? Puri calcoli politici. Come dimostra l’ingenuo ritratto di Kirk tracciato da una sua paladina italiana, Annalisa Chirico.

Kirk era davvero un ragazzo ‘leggendario’, come lo ha definito Donald Trump, che gli conferirà la ‘Medal of Freedom’, la più alta onorificenza americana. A Trump Kirk aveva insegnato a parlare ai cosiddetti ‘non-college whites’, cioè agli elettori bianchi senza istruzione universitaria. Grazie ai milioni di follower su Instagram e TikTok, Kirk traduceva il messaggio trumpiano in un linguaggio accattivante e comprensibile per i giovani. Fautore dello stato leggero, anti-immigrazione e antiabortista, Kirk era un self-made man che, a soli trent’anni, aveva accumulato considerevole ricchezza come divulgatore e influencer” (2).

I cosiddetti “non-college whites” — bianchi poveri e frustrati, spesso segnati da privazioni fisiche o psicologiche — sono terreno fertile per il fondamentalismo. Sono sempre in cerca di un capro espiatorio al quale imputare presunte disgrazie personali. Detto altrimenti: il risentimento del fallito che trova appagamento  in una mediocrità gonfia di odio. Film come “Mississippi Burning” e studi psico-sociologici (3) mostrano come spesso  molti  di loro  maturino convinzioni razziste, come direbbe Giorgia Meloni, “a 360 gradi”. Naturalmente, a Melissa Hortman, di sinistra, nessuna “Medal of Freedom”.


 

In Occidente siamo sempre pronti a scagliarci contro il fondamentalismo islamico, come se fosse l’unico pericolo. Ma il fondamentalismo cristiano, che cresce e si organizza dentro le nostre società, spesso lo ignoriamo. Anzi, talvolta lo coccoliamo, perché rassicura la parte più conservatrice dell’opinione pubblica. È un errore tragico.

Il nemico non viene solo da fuori. È già qui, dentro le nostre istituzioni, le comunità, le chiese. Porta il volto rassicurante di chi predica “valori tradizionali”, salvo poi usarli come clava contro chiunque non si adegui.

Ecco il vero problema: non un Islam minaccioso a migliaia di chilometri di distanza, ma un cristianesimo distorto e politicizzato che si insinua nel cuore stesso dell’Occidente, dove la libertà individuale dovrebbe essere il bene supremo. Chi finge di non vederlo si prepara a svegliarsi in un’Europa che rischia di diventare terreno di missione per nuovi crociati.

Carlo Gambescia

(1) Qui una sintesi giornalistica: https://www.the-independent.com/news/world/americas/us-politics/charlie-kirk-mentor-final-moments-b2829836.html?utm_source=chatgpt.com Qui invece il video integrale: https://x.com/i/broadcasts/1ypJdqWmVDrxW .

(2) Qui: https://www.fortuneita.com/2025/09/12/charlie-kirk-era-tutto-fuorche-un-fascista/ .

(3) M. Billing, Razzismo, pregiudizi discriminazioni, in S. Moscovici ( a cura di), Psicologia sociale, Borla, Roma 1996, 2° ed. pp. 423-444. Nonché il classico studio di Adorno e altri, La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano 1982.