Ogni tanto riappare. Una specie di meteora. Brilla, entusiasma, cattura gli sguardi. Poi svanisce. Parliamo del “terzo partito” americano, quella creatura politica mitica, sempre evocata, mai realizzata. O, per meglio dire, mai consolidata.
L’ultimo a sognarne uno (America Party) sembra essere Elon Musk, tipico leader agitatore, per usare la classica terminologia di Lasswell: imprenditore, taumaturgo del dollaro, nato in Sud Africa, salvatore presunto della libertà d’espressione e – da oggi – anche aspirante “padre fondatore” di un nuovo soggetto politico.
Funzionerà? L’esperienza storica non sembra deporre a favore.
Negli Stati Uniti – basta sfogliare un qualsiasi manuale storico – la parabola dei terzi partiti è spesso quella delle belle intenzioni con risultati limitati. La macchina costituzionale americana, con il suo sistema elettorale maggioritario (vince chi prende anche solo un voto in più degli altri), tende a non premiare le vie di mezzo né le deviazioni laterali. I voti si contano, non si pesano. E chi non arriva primo… finisce per scomparire dalla scena (*).
Qualche esempio? Nel 1912, Theodore Roosevelt, già presidente ed eroe
nazionale, sfidò i Repubblicani con il suo Progressive Party.
Risultato? Il 27% dei voti popolari, ma nessuna possibilità concreta di
successo. Finì per favorire la vittoria democratica.
Nel 1992 e 1996, Ross Perot, miliardario texano, ottenne rispettivamente il 19% e l’8%. Nessun voto elettorale. Nessuna eredità strutturale. Nel 2000, Ralph Nader, candidato dei Verdi, prese appena il 2,7%, ma bastò per indebolire Gore e favorire la vittoria di Bush. Una vittoria, potremmo dire, “per interposta persona”.
Morale della storia? Il terzo partito, più che vincere , spesso contribuisce a far perdere gli altri. Insomma, un partito guastafeste.
Ma torniamo a Musk. Si parla di piattaforme, algoritmi, libertà digitale, “X” come nuovo agorà. Tuttavia, la politica — quella vera, fatta di voti, territori, reti locali — difficilmente può essere ridotta a una sequenza di tweet. Un partito non è un’app.
Qualcuno, in Italia, potrebbe obiettare: “Ma Forza Italia?”. In effetti, nel 1994, Berlusconi riuscì a fondare dal nulla un nuovo partito e a vincere le elezioni. Ma si trattava di tutt’altro scenario. Non c’erano social o algoritmi: c’erano reti commerciali, sindacati aziendali, televisioni e un lavoro capillare sul territorio. Una costruzione politica, non solo mediatica. Musk, al contrario, sembra voler affidare tutto alla sua immagine globale e all’architettura digitale. Ma in democrazia, senza corpi intermedi, si resta follower, non leader.
Inoltre – e non è certo un dettaglio secondario – l’ambizione dell’ex paladino della libertà digitale, oggi sempre più impegnato nel culto di sé stesso, di dar vita a una nuova forza politica negli Stati Uniti ha ben poco a che vedere con il “centro”. Non si tratta tanto di moderazione quanto, piuttosto, di una forma esasperata di estremismo tecno-libertario, per certi versi già presente nel trumpismo. Più che una “terza via”, si profilerebbe una sorta di “America First” in versione digitale: più chip, meno Costituzione.
A dirla tutta, verrebbe quasi da dire – ovviamente semplifichiamo – meglio Trump. In altre parole: SuperMAGA contro MAGA. O, peggio ancora, il rischio concreto è che la sfida di Musk finisca per rafforzare l’estremismo trumpiano. Insomma, c’è poco da stare sereni.
A ciò si aggiunge una questione strutturale, spesso trascurata: quella della forma partito come soggetto sociale organizzato. Che cosa si intende?
Che Democratici e Repubblicani, pur tra mille ambiguità, continuano a rappresentare mondi reali: classi, culture, territori. Musk, invece, rappresenta essenzialmente sé stesso — e forse qualche algoritmo.
In quest’ottica, l’idea di fondare un terzo partito appare meno come un progetto politico compiuto, e più come una performance imprenditoriale, una forma di branding personale applicata al corpo elettorale. Un “Musk Party” sarebbe, in fondo, una Tesla con la Costituzione - da demolire - nel cruscotto.
Chi ha familiarità con la scienza politica sa che i partiti non nascono per caso. Servono quadri intermedi, alleanze locali, una classe dirigente diffusa. Non bastano i soldi (per quanto abbondanti). Nemmeno l’iperconnessione risolve il problema della legittimazione politica. Non è con 200 milioni di follower che si ottengono 270 grandi elettori.
Anche i grandi terzi partiti del passato poggiavano su basi concrete: i contadini del Midwest (Partito Populista), gli operai urbani (Socialisti), o i borghesi progressisti (Progressive Party). Musk, per contro, ha utenti. Ma gli utenti non coincidono necessariamente con gli elettori, e ancora meno con i militanti. Forse con attivisti, soggetti più fluidi, legati a cause episodiche e specifiche.
In conclusione, è difficile immaginare che il terzo partito riesca a consolidarsi. Al massimo, già dalle prossime elezioni di midterm, potrebbe sottrarre qualche voto qua e là, accentuando lo sfilacciamento di un sistema già fortemente polarizzato. Più che riempire il vuoto, rischia di accentuarlo. Più che sostituirsi al Partito Repubblicano trumpizzato, potrebbe finire per limitarne l’impatto.
Detto ciò, va riconosciuto che, in un sistema elettorale così rigido e competitivo, anche spostamenti minimi possono avere effetti rilevanti. Una possibile “formazione muskiana”, attirando libertari digitali, giovani iperconnessi o elettori di destra in cerca di un’alternativa al trumpismo già derubricato a partito fin troppo tradizionale, potrebbe finire per erodere consensi proprio nell’area conservatrice, influenzando in modo indiretto l’esito elettorale in alcuni Stati chiave.
Perché, se vuoto c’è, non è solo politico. È culturale, è sociale, è morale. E nessun algoritmo, da solo, può colmarlo. E sul punto, sia detto per inciso, i Democratici dovrebbe riflettere con maggiore attenzione. Evitando derive estremiste o comunque emulative. Ma questa è un'altra storia.
Insomma, il terzo partito di Musk rischia di finire come il suo progetto di guida autonoma: annunciato come rivoluzionario, ma ancora costretto a chiedere, a ogni curva, le mani sul volante. Perché in politica, l’autonomia non si simula: si conquista, metro per metro.
Carlo Gambescia
(*) Per un approfondimento si consiglia S. J. Rosenstone, R. L. Behr, E. H. Lazarus, Third Parties in America: Citizen Response to Major Party Failure, Princeton University Press, Princeton 1996, 2° ed. Nonché, vera e propria bussola, I. Ness, American Third Parties: An Historical Dictionary, London, Routledge 2006.

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