Il paragone tracciato oggi da Giuliano Ferrara sul “Foglio” — Donald Trump come “supermarchese del Grillo” — è meno bizzarro di quanto appaia. Sotto la maschera del guascone romano, del nobile cinico che irride i suoi inferiori col celebre “io so’ io, e voi nun siete un…”, si cela in effetti un archetipo che trova in Trump la sua versione iperbolica, tardo-moderna e pericolosamente populista.
Sviluppiamo il concetto. Se il Marchese del Grillo era l’emblema di un’aristocrazia in declino, che usava l’ironia per mascherare il vuoto di potere, Trump incarna invece una nuova aristocrazia del risentimento. Un populismo dorato, dove il miliardario si traveste da tribuno e la derisione delle élite serve solo a celare l’ambizione di fondarne una nuova: più volgare, più autoritaria.
Il “supermarchese” Trump non si limita alla battuta sferzante o alla provocazione da bar sport. Agisce — o promette di agire — in modo sistemico: smonta le istituzioni, manipola i media, incendia le piazze. È l’araldo del capriccio elevato a metodo politico, il fautore dell’indisciplina morale come fondamento di un nuovo ordine. Un ordine dove, per l’appunto, “lui è lui”, e gli altri non contano nulla.
Il problema, però, non è solo Trump. È l’adesione crescente a questo modello da parte di un’opinione pubblica che, all’interno delle democrazie liberali, mostra crescente insofferenza verso l’autorità razionale e il principio di responsabilità.
In questa insofferenza, Trump si erge come un buffone sovrano, un despota grottesco: attacca i “poteri forti” mentre si avvale con la stessa spregiudicatezza del potere politico, economico e mediatico.
Ferrara invita a disobbedire. Anzi, come dice con brutale ironia, a non “sbaciucchiargli il c…”. Ed è vero: serve una disobbedienza culturale, ancor prima che politica. Contro l’egemonia trumpiana del grottesco, va riscoperto il primato della ragione, della misura, della responsabilità.
L’antidoto al Marchese del Grillo di Washington non è un altro buffone. È il ritorno a Montesquieu, a Tocqueville, persino al Weber di Politica come professione: la politica come esercizio della maturità, non del narcisismo. Una politica che sappia, però, opporsi con fermezza allo sbruffone.
Ferrara cita Machiavelli, con la celebre frase su “Sparta e Atene, armatissime e liberissime”. Giustissimo. Il punto merita un approfondimento: quella frase — al netto della forzatura ferrariana (*) — siamo dinanzi a un monito politico. La libertà richiede forza. E questa forza deve risiedere nei cittadini, non nei mercenari. È il classico realismo politico di Machiavelli: la virtù politica come capacità di difendere la libertà con le proprie mani. Tradotto: l’Europa deve unirsi ancora (essere liberissima), riarmarsi (armatissima), per liberarsi finalmente dal mercenario ombrello americano, che il lunatico Trump apre e chiude a suo piacimento.
In sintesi, il “supermarchese” Trump non è più solo un uomo. È diventato un simbolo. Di ciò che la politica non dovrebbe mai essere. Per questo, disobbedire — e riarmarsi — è oggi un dovere.
E parafrasando il Marchese stesso: lui sarà pure lui. Ma noi, se vogliamo, possiamo essere cittadini. Liberissimi e armatissimi.
Carlo Gambescia
(*) A dire il vero il testo recita così: “ Lo dimostra l’esempio di Sparta e di Atene: le quali essendo due repubbliche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio Romano” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in, Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971, Libro II, 3, p. 151). Il che però non inficia l’uso del concetto dell’autodifesa come opera dei cittadini e non di inaffidabili mercenari.

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