sabato 18 maggio 2024

Questione “gender”: lasciar fare, lasciar passare

 


Il lettore che ci segue, saprà già da tempo come la pensiamo sulla questione di “scegliersi il genere”, come la definisce polemicamente la destra. Però magari una rinfrescatina…

Una destra che ieri non ha firmato il patto europeo o dichiarazione sulle politiche europee a favore delle persone lgbtq+.

Diciamo pure che la destra vuole vietare, la sinistra permettere. Che cosa? Non si capisce bene. Semplificando, impropriamente, la sinistra parla di eliminare ogni discriminazione giuridica di tipo sessuale, la destra invece di rispettare l’identità biologica dell’uomo e della donna. Vasti programmi, per dirla con Charles de Gaulle.

Ieri sera sulla rete Tre, la Rai ha trasmesso il film di Gianni Amelio sul caso Braibanti. Un professore marxista che negli Sessanta a causa della sua omosessualità, anzi come allora  si  diceva brutalmente un "invertito", venne perseguitato da una società ipocrita e nevrotica. Giudicato come un malato contagioso. 

Era la stessa Italia, priva di una legge sul divorzio, dove un marito poteva mandare in prigione la moglie “adultera”. Un film duro, molto istruttivo. Ovviamente per chi  tutttora  desideri interrogarsi sulle radici politiche e sociali dell’arretratezza italiana. Oggi fortunatamente non è più così. I costumi sono mutati. Ecco il punto fondamentale.

Infatti il vero nocciolo della questione è rappresentato dal valore che si attribuisce alla capacità delle leggi di cambiare i costumi. Dicevamo che l’atteggiamento degli italiani non è più quello retrivo dei tempi di Braibanti. Questo mutamento può essere collegato al lento cambiamento dei costumi o al potere innovatore delle leggi?

Negli anni in cui Braibanti veniva condannato si preparava in Occidente quella che venne definita, forse impropriamente, la “rivoluzione sessuale”. Una rivoluzione culturale, nella mentalità, indolore ma profonda che in sessant’anni ha sradicato le idee retrive che condussero alla condanna di Braibanti. Oggi un processo del genere sarebbe impossibile.

Ed è questa la ragione perché riteniamo si debba lasciar fare ai costumi. Il che significa legiferare in questo campo ( e non solo) il meno possibile. Proprio per evitare, che sorgano nell’ambito privato, diremmo intimo della persone, inutili e pervasivi conflitti politici in cui – si faccia attenzione – il privato diventa pubblico, il pubblico, politico, e il politico legge, e la legge costrizione in un senso o nell’altro. Per capirsi, nel conflitto inevitabilmente la legge finisce per penalizzare gli uni, premiare gli altri.

Vincitori e vinti, insomma. Una norma per alcuni è fonte di diritto, per altri fonte di discriminazione. La legge, se i costumi non sono maturi, si trasforma nella prosecuzione della politica – nel senso dei vincitori e vinti – con mezzi giuridici.

Si prenda la dichiarazione, di cui parlavamo nell’incipit, per la destra è una dichiarazione di guerra, per la sinistra una bandiera di combattimento. Non è sociologicamente sano. Ciò accade perché una parte di società sostiene la destra, l’altra la sinistra. Il che significa un sola cosa: che nel suo insieme, proprio perché divisa, la società non è culturalmente pronta.

Si faccia un passo indietro. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, il divorzio era ormai accettato dalla gente comune. Il costume lo riteneva più che giustificato. E il referendum, che si proponeva di abolire la legge in proposito, venne respinto dagli italiani. E lo stesso si verificò anni dopo per la legge sull’interruzione di gravidanza.

Si lasci fare al costume. Ad esempio nell’articolo 29 della Costituzione, si legge che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Nulla dice sulla sua composizione. Quindi nulla vieta che due uomini o due donne contraggano matrimonio.

Questo principio dell’astrattezza e della generalità, sembra fatto apposta per rispettare e recepire in chiave inclusiva non esclusiva il cambiamento dei costumi. Ed è questa la via maestra da seguire. Non quella di legiferare a tutti i costi con fughe in avanti o indietro rispetto alla dinamica dei costumi. Quando non c’è sintonia tra legge e società quasiasi intervento legislativo in materia di costumi viene inevitabilmente vissuto in chiave divisiva, proprio perché i tempi non sono ancora maturi. Ogni corda sociale che si tocca per legge finisce per essere quella sbagliata.

Si dirà, che, “furbamente”, non entriamo nel merito della questione dei generi, eccetera, eccetera. Che non ci schieriamo, e così via. Non è questo il nostro scopo. Il che non significa favorire, da parte da nostra, e in modo preconcetto, l’ingessatura della società

Per dirla brutalmente, riteniamo sia giusto disinteressarsi della società, soprattutto sul piano politico-legislativo. Lasciar fare, lasciar passare: gli esseri umani devono fare da soli, procedendo liberamente per tentativi ed errori (o orrori, purtroppo come nel caso del professor Braibanti), selezionando, spesso senza neppure accorgersene, le istituzioni funzionali a un certo stadio della dinamica sociale.

Non esiste un mondo perfetto. Né lo si può realizzare per decreto. Secondo Montesquieu e Tocqueville, per fare il nome di due pensatori che la sapevano lunga, sono gli uomini a fare le istituzioni, non le istituzioni a fare gli uomini. Quindi riteniamo sia inutile legiferare sul nulla, cioè sulla società come dovrebbe essere e non come è.

Carlo Gambescia

venerdì 17 maggio 2024

Il tappo di plastica e i suoi nemici

 


La cosa tragicomica è che una società che proclama di combattere il patriarcalismo, rivendicando la libertà individuale delle donne, poi accetti l’idea che il singolo – quindi uomini e donne insieme – non sia capace neppure di chiudere una bottiglia di plastica, riavvitando il tappo, “senza disperderlo nell’ambiente”. Insomma che serva l’aiuto dello stato. Anzi del padre-padrone stato. Il patriarca.  

Come è possibile?

Un passo indietro: l’ ecologismo è una filosofia della storia “ex ante”. Non è innocuo perché assegna e impone un senso preventivo alla storia: “da prima” (come recita la traduzione della terminologia latina). Si fonda su una attribuzione di valore che precede i fatti. Si vuole imprimere una direzione che, una volta prestabilita, va rispettata a ogni costo. Soprattutto attraverso l’uso, ovviamente, delle leve politiche.

Ci spieghiamo meglio.

Dal punto di vista ecologista (quindi ipotetico) la plastica è divenuta da qualche anno una specie di nemico dell’umanità. Allora che si fa? Si introducono misure preventive e imperative per salvaguardare l’umanità. Quindi per il bene di “tutti” i singoli. Il tappo attaccato alla bottiglia di plastica come mezzo per favorire un fine: la salvezza del genere umano. Di qui, la direttiva europea – la leva politica – che da luglio obbligherà i produttori a fabbricare bottiglie di plastica con il tappo attaccato, eccetera, eccetera.

Ipotesi + decisione politica e il gioco è fatto. Sulla testa dei singoli.

Si rifletta invece sull’idea racchiusa nella delibera europea. Quale idea? Quale fine? Che non è l’individuo a sapere cosa è bene per se stesso ma il potere politico. La direttiva sui tappi è europea ma potrebbe essere anche nazionale, regionale, provinciale, comunale. Il punto è che l’individuo viene ritenuto incapace di decidere del suo bene. Qui la mordacchia: dei fini individuali decide lo stato. Cioè il patriarca politico. Ecco il concetto.

Si dirà che le nostre sono democrazie, quindi il patriarca politico, viene eletto da noi tutti, eccetera, eccetera. E qui però si torna alla filosofia della storia. Altro passo indietro.

Ogni unità politica (dall’impero alla città stato, dallo stato assoluto al moderno stato costituzionale) si basa su una sua filosofia della storia, che non è altro che una razionalizzazione postuma, cioè la scoperta e giustificazione dei valori che l’ hanno fatta forte. Le filosofie della storia “buone” sono sempre “ex post facto”: “dopo il fatto”. Termini ad esempio come individualismo, liberalismo, libero mercato sono stati coniati, “dopo”: alla fine di un processo storico il cui senso (la creazione di una società libera) era ignoto ai suoi protagonisti. Liberal-democrazia e società di mercato sono nati per caso. Questa è la verità.

La società ecologista pretende invece di nascere per legge. Proprio perché rinvia a una filosofia della storia, “ex ante”, che viene prima dei fatti. Che non rafforza i valori della nostra società, a partire dal valore forte per eccellenza: l’individualismo (come si è scoperto dopo).

Dal momento che l’ecologismo è portatore di valori contrari all’individualismo, non può che indebolire la filosofia della storia, di natura individualistica, che, come invece si è scoperto “ex post”, ha fatto grande la società occidentale, teorizzando, ripetiamo, “dopo”, quindi sulla base dei fatti, la necessità che l’individuo sia lasciato libero di intraprendere.

Invece l’ecologismo, ripetiamo, teorizza “prima”, quindi non sulla base di fatti realmente accaduti. Ma ragiona su ipotesi non condivise, spesso strampalate. In realtà siamo davanti a una forma di patriarcalismo politico, economico, sociologico. Un mostro arcaico che si nutre di una filosofia regressiva della storia.

Lo si potrebbe definire un fenomeno reazionario. Per parafrasare Popper si potrebbe parlare del “tappo di plastica e dei suoi nemici”. Il lettore non sorrida: ma chi impone il tappo di plastica attaccato alla bottiglia è un nemico della società aperta.

La stessa idea di economia circolare, basata sul riciclo, solo per fare un altro esempio, incensata dagli ecologisti, rinvia a una società statica, ripiegata su se stessa, che controlla l’individuo, piegandone le scelte a una filosofia della storia “ex ante” quella ecologista, che a differenza della filosofia individualista “ex post”, non ha alle spalle, per così dire, una storia di successo, come quella dell’Occidente euro-americano.

Detto altrimenti: l’individualismo ha provato sul campo di funzionare, l’ecologismo no. Anzi, per essere più precisi: il patriarcalismo ecologista. Per ora, solo tributi, divieti, vincoli. Meno libertà individuale. E probabilmente andrà sempre peggio: la società vaticinata dagli ecologisti è una società illiberale.

Si pensi insomma a quante cose sono dietro un semplice tappo attaccato per legge alla sua bottiglia di plastica.

Si dirà che in fondo si tratta di una sciocchezza. Però se il lettore è riuscito a seguirci fin qui, avrà capito che in gioco c’è la nostra libertà. E soprattutto che il patriarcalismo non riguarda solo le donne.

Carlo Gambescia

giovedì 16 maggio 2024

Mezzogiorno di fuoco slovacco


 

Nessuna meraviglia per il mezzogiorno di fuoco slovacco. Cioè per le pistolettate di ieri che hanno colpito, sembra gravemente, il premier Fico.

Se si potesse tracciare un grafico in argomento, si scoprirebbe che, limitandosi al Novecento, l’ Europa orientale ha un tasso di omicidi politici (a cominciare da quelli dei leader) superiore alla media dell’Europa occidentale. Diversa la storia, diverso anche il rapporto con la politica e con la violenza come continuazione della politica con altri mezzi.

Come possiamo affermare una cosa del genere? Basta guardare, come detto, alla storia e alla sociologia di quei paesi.

L’Est Europa (inclusi quindi i paesi balcanici), tra Seicento e Ottocento, non ha conosciuto, come in Occidente, né lo sviluppo di una borghesia, né delle istituzioni parlamentari, né di una libera stampa. Il discorso pubblico liberale, per limitarsi al Novecento, non è praticamente mai esistito. La famigerata “Cortina di ferro” tra Occidente e Oriente europeo proviene dalle mancate rivoluzioni liberali ottocentesche, o comunque appena abbozzate, delle quali si è però accettato e prolungato il truculento aspetto nazionalistico.

Il populismo, nell’Est, non è rivolto, come a Ovest, solo contro i migranti, ma affonda le radici in una società arretrata e chiusa in se stessa.

Sotto questo aspetto, fin dall’Ottocento (ma in alcuni casi, ancora prima, come in Polonia e Ungheria), un proprietario terriero ungherese, polacco, baltico, bulgaro, rumeno, all’interno di società largamente agricole e  arcaiche, scorgeva inevitabilmente nel liberalismo il nemico principale: l’agente politico, estraneo alle tradizioni locali, che voleva sottrarre il contadino, animale da lavoro, a una paternalistica condizione di semischiavitù.

L’unico esempio di una democrazia parlamentare, quasi funzionante, e di una interessante apertura ai traffici economici, rinvia alla Cecoslovacchia tra le due guerre. Una transizione alla democrazia occidentale soffocata però da Hitler. Con una precisazione: la Slovacchia, oggi stato indipendente era, già allora, rispetto alla Boemia e alla Moravia (l’attuale Repubblica Ceca), una regione più arretrata politicamente ed economicamente.

Pertanto, ripetiamo, non c’è da meravigliarsi più di tanto del fatto  che un premier slovacco  sia stato ieri  preso a pistolettate. Lì si  usa così.

Nella cultura politica dei paesi dell’Est la violenza, come eliminazione fisica dell’avversario politico, tramutato in nemico, resta una componente significativa. Poi, ovviamente, ogni caso è a sé, e ne vanno indagate le ragioni particolari.

Famiglie reali massacrate (Jugoslavia), ministri linciati, imprigionati e “suicidati” ( Ungheria, Bulgaria, Romania), ricorso periodico alle dittature militari (Polonia e Ungheria), feroci conflitti briganteschi (croati, sloveni, serbi, bosniaci, albanesi, macedoni, montenegrini).  La stessa Austria-Ungheria deve il suo capitombolo finale al più classico degli attentati politici, quando la pistola del bosniaco Gavrilo Princip colpì a Serajevo.

E su tutto questo scenario, di sangue, terrorismo e disordine, nella seconda metà del Novecento calò il tenebroso sipario, prima dell’occupazione nazista, poi della dominazione comunista. Va anche sottolineato, che il panslavismo, a guida russa, fino alla caduta dei Romanov, guardò sempre con favore, come portato delle tradizioni autoctone, allo sviluppo di un potere capace di estendersi a Occidente fino all’Adriatico. E oggi la Russia sembra voler rinverdire la tradizione zarista.

Di qui, in passato, le resistenze ungheresi e rumene: popoli che ovviamente non si riconoscevano nelle tradizioni slavofile della Grande Madre Russia. Un nazionalismo, di reazione, presente anche in un potente comunista croato come Tito.

Infine non può essere dimenticato l’antisemitismo diffuso e i conseguenti e periodici eccidi di ebrei. I famigerati pogrom in cui si distinguevano, tra gli altri,  russi, rumeni e polacchi.

Poteva il peso della storia essere cancellato con un colpo di spugna Ue? Non crediamo.

Certo, c’è da augurarsi, che con il tempo il moderno discorso pubblico liberale sia accettato diffusamente anche all’ Est. Ma non ne siamo molto convinti . Almeno per due ragioni. Per un verso a causa dello spettro russo, e per l’altro per la naturale lentezza (in senso storico) della acculturazione politica.

Sotto questo aspetto – del trend “secolare” – personaggi come Orbán (ma anche lo stesso Fico), che si definiscono addirittura liberali, sono un prodotto storico del paternalismo austro-ungarico e del totalitarismo comunista. Nella cultura dell’Est europeo non è mai esistita una cultura liberale e pacifica delle minoranze. Si è sempre puntato sulla libertà per se se stessi, opprimendo gli altri, oppure mettendo gli uni contro gli altri (gli Asburgo erano veri maestri in questo). Per dirla in termini metapolitici: l’esclusione prevaleva sull’inclusione.

Risparmiamo al lettore le tremende storie  sulle  spartizioni di popoli, trattati come bestiame. Spartizioni messe in moto, per quel che riguarda il Novecento, dalle guerre balcaniche del 1912-1913 e dal successivo crollo, del resto inevitabile, di due imperi: l’ Austro-Ungarico e l’Ottomano. Mentre l' impero  russo fu sostituito dalle gerarchie sovietiche, altrettanto oppressive, come prova la storia dell’Ucraina, schiacciata prima dai Romanov, poi dagli zar comunisti e postconunisti.

Parliamo di nazioni, con dentro tuttora forti minoranze linguistiche e politiche, che da più di un secolo non conoscono pace. Il che spiega, ad esempio, l’alta temperatura nel Kosovo.
 

La caduta del comunismo ha aperto le porte a una democrazia di tipo liberale e occidentale e all’estensione dei diritti, politici, civili ed economici.

Però, come è sotto gli occhi di tutti, ancora resta tanta strada da fare.

Carlo Gambescia

 

mercoledì 15 maggio 2024

La destra e il problema cognitivo

 


La destra, oggi al governo, ha un problema cognitivo. Probabilmente i paroloni non aiutano i lettori a capire. Diciamo allora che con cognitivo si intende tutto ciò che concerne la conoscenza. Cioè i processi di percezione, immaginazione, memoria, schemi e forme di ragionamento, inerenti al comportamento.

Attenzione, nessun “razzismo”: i cervelli a destra, sinistra, centro eccetera, sono identici. Ad essere differenti sono i contenuti che variano culturalmente fino al punto di causare quei problemi ai quali alludiamo.

Problemi, nel senso della formulazione di soluzioni sbagliate che nascono da un’ interpretazione (ecco la cognizione) della realtà che non è in sintonia con la realtà.
 

Si pensi – per capirsi subito – a un contadino medievale, salito su una specie di macchina del tempo storia e ritrovatosi all’improvviso nel XXI secolo. Ne combinerebbe di tutti i colori

Diciamo questo, perché in Rete circolano buone analisi sulle teorie complottiste sposate da non pochi esponenti di Fratelli d’Italia a proposito degli "attacchi" alla famiglia, all’identità italiana, alle tradizioni, eccetera.  Buone analisi che però non vanno fino in fondo alla questione.

Perché la prima cosa che un analista deve chiedersi è come sia possibile che un ministro della Repubblica, ad esempio Lollobrigida, possa parlare di teoria della sostituzione e di difesa dell’etnia italiana (o comunque bianca).

Insomma il vero problema non è che il ministro dica una cosa non vera ( perché non esiste alcuna etnia italiana), ma come sia arrivato a dire certe cose. Già messe in discussione, più di un secolo fa, ai tempi di Lombroso, Niceforo, Sergi, Ferri, Colajanni e altri antropologi positivisti. Quando si polemizzava vanamente sull’esistenza o meno di una inferiorità razziale degli italiani meridionali rispetto ai settentrionali.

Il perché, in prima battuta, rimanda all’auto-isolamento culturale della destra. Che dura da quasi ottant’anni e che  trae alimento dalle radici anti-illuministe dei fascismi. Radici che rimandano alla rivolta contro la ragione capitanata dal romanticismo ottocentesco.

Ovviamente a destra si parla tuttora di emarginazione e discriminazione. Ci si compiange. Ed è probabile che le cose dopo la guerra siano andate così. Ma si è trattato della naturale autodifesa della società aperta contro i suoi nemici (per dirla con Popper). “Crimini” del pensiero, senza vittime, per impedire a un pugno di pericolosi reazionari di impossessarsi nuovamente del potere.

Perciò, ora che la destra, in particolare quella dalle radici fasciste, è tornata al potere, tra l’altro piena di rancore, è inevitabile che le cognizioni reazionarie di un tempo tornino a galla. Perciò – ecco il punto cognitivo importante – la destra si comporta come è sempre stata.

Non capisce. La destra è così. Probabilmente il principale modello culturale che ha alimentato il mondo neofascista nel dopoguerra è quello del “romanticismo fascista”. Un “archetipo” che privilegia l’emotività e l’ immaginazione politica alla ragione e al realismo scientifico.

Si dirà, giustamente, che l’uomo è al tempo stesso ragione e passione. Tuttavia – ecco il problema cognitivo di fondo – per chiunque sia imbevuto di romanticismo fascista gli esseri umani sono un coacervo di emozioni. Di qui, la mitologia sul carattere dei popoli, sulle razze, sul valore della tradizione, del mito, della famiglia, della nazione eccetera, eccetera. Contenuti, che ritroviamo, magari semplificati, nei processi di percezione, immaginazione, memoria, ragionamento che innervano i comportamenti di un Lollobrigida.

Ovviamente si può cambiare. Usare la ragione, nel nostro caso, significa evitare anche il razzismo della ragione.

Però, il punto è un altro. I tantissimi Lollobrigida di Fratelli d’Italia vogliono cambiare? Si rendono conto dell’enormità e dell’ infondatezza di quel che affermano?

Il problema, va oltre le polemiche con la sinistra, perché rinvia all’accettazione della modernità, della ragione, del liberalismo. Insomma dell’orizzonte moderno. Un'accettazione che neppure sembra porsi. Quasi per  riflesso pavloviano.  

Una scelta, si badi bene, che la stessa  sinistra sembra oggi  rimettere in discussione. Si pensi, ad esempio,  alle idee reazionarie difese dalle correnti ecologiste.

Concludendo, come si può intuire, il cerchio cognitivo della destra si chiude su se stesso: la destra dice certe cose, non rendendosi conto di dire certe cose.

Pertanto anche le critiche più che giustificate scivolano addosso ai suoi politici. E per giunta ora la destra ha il potere. E lo usa.

Carlo Gambescia

martedì 14 maggio 2024

Marcello Veneziani, Giovanni Sartori e l’avulsione conservatrice

 


Chi erano i magliari? Venditori porta a porta di abiti e tessuti che non sempre valevano il prezzo pagato.

Si può applicare il termine magliaro al mercato delle idee? Sì. E di quale merce parliamo? La “merce” Sartori, scienziato politico, che può essere tranquillamente affiancato a pensatori del calibro di Pareto, Mosca, Michels. nato giusto cento anni fa, nel maggio del 1924,  e scomparso nel 2017.

Perciò parliamo di una “merce” dal valore pregiatissimo, forse unica nel suo genere, che andrebbe trattata come tale. Minimo, con rispetto. E invece Marcello Veneziani che combina?

Dalla vasta produzione sartoriana, si pensi a un magazzino con ogni ben di dio,  estrae, non a caso, un volumetto del 2002 (*), sulla società multietnica che sembra tornare utile per giustificare le idee e le politiche retrive di un destra dalle radici fasciste sull’immigrazione. Per dirla (quasi) con Veneziani: avulsione conservatrice. O più prosaicamente roba da magliari delle idee…

Veneziani “vende” il tessuto Sartori – che purtroppo non può più difendersi – per ottimo orbace nazionale, non proprio quello nero dei gerarchi, ma comunque qualcosa che gli somiglia.

Naturalmente il ministro Sangiuliano, immaginiamolo abbigliato da casalinga disperata, però anni Cinquanta, con fazzolettone e aspirapolvere, dopo aver letto l’articolo, si metterà subito al lavoro per una nuova mostra su Giovanni Sartori profeta della società comunitaria.

Sartori comunitarista fa sorridere. Come pure Sartori teorico della società chiusa, o comunque con la porta socchiusa. Per non parlare della leggenda metropolitana sul Sartori liberal-conservatore.

In realtà, alla base della critica di Sartori al multiculturalismo, non si scorgono, come a destra, comunitarismo e tradizionalismo, cioè monismo identitario, ma si delinea invece la difesa del pluralismo, proprio contro il monismo.

E infatti Veneziani sorvola persino sulla parola pluralismo, che è alla base dell’idea di modernità politica, culturale, economica e sociale, oltre che, ovviamente, delle tesi di Sartori. Pluralismo che il giornalista di Bisceglie ha invece sempre rifiutato, perché formatosi alla scuola del monismo neofascista. O comunque della tentazione fascista, per usare la terminologia di Kunnas.

Di qui il suo scontato rifiuto dell’ idea di reciprocità e tolleranza che sono invece il portato dell’idea di pluralismo, come sottolinea Sartori: ci si rispetta, non perché si è separati in compartimenti stagni, imposti dalle istituzioni welfariste, come pretende la società multiculturale, ma perché si condivide l’idea di pluralismo, porro unum del liberalismo. E sul punto rinviamo alla parte prima del volume di Sartori. Che però Veneziani ha letto, se ha letto, inforcando gli occhiali del pensiero monista.

Sul nesso liberalismo-pluralismo, Sartori condivide, sviluppandole sul piano sociologico, le idee di Croce. Non quelle di Gentile, monista di ferro, che identificava, come ironizzava Croce, stato etico  e  arma dei carabinieri.

Sartori concepisce il liberalismo come pluralismo: una sorta di superpartito aperto (qui lo spunto crociano), capace di accomunare progressisti e conservatori, in quanto tutti, se veramente liberali, dalla parte del pluralismo.

Il che spiega i dubbi di Sartori sulla natura pluralista, quindi reciprocitaria, perciò tollerante e liberale, delle concezioni politiche e sociologiche islamiche. E di riflesso sulle concrete possibilità di transizione individuale, di chi non “reciproca”, da una società chiusa a una società aperta.

I dubbi di Sartori non sono né di destra né di sinistra. E dal punto di vista cognitivo vanno oltre l’Islam, perché scaturiscono dalla consapevolezza del conflitto insanabile fra società chiuse e società aperte. Sono i dubbi di un liberale senza aggettivi che scorge le inevitabili difficoltà di inserimento del monismo, fenomeno tipico di una società chiusa, in una società pluralista o aperta. Sono difficoltà che poi, per ricaduta, si trasmettono a uomini e cose. 

Ma per discutere di questo bisogna aver letto i classici del liberalismo: da Locke a von Hayek. In particolare sul pluralismo resta fondamentale la lezione filosofico-politica di Constant e Tocqueville, e quella storica e pratica (perché fu un buon politico) di Guizot.

Che cosa ci si può aspettare da Veneziani, cresciuto a pane, Evola, Gentile e Mussolini? Sa tutto su Plotino e Vico – così dice – ma, come sembra, non ha letto una riga di Tocqueville e Croce.

Ripetiamo: che cosa ci si può aspettare da un giornalista che si atteggia a teorico di fantasmatiche rivoluzioni conservatrici, insoddisfatte del fascismo, perché, come si diceva negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, poco fascista?

La vendita porta a porta di Giovanni Sartori.  Oppure, come detto,  l’avulsione conservatrice.

Carlo Gambescia

(*) Qui l’articolo: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/sartori-contro-la-societa-multietnica-2/ , La Verità – 12 maggio 2024. Il testo di Sartori è Pluralismo Multiculticulturalismo e Estranei. Saggio sulla società multietnica, Bur, Milano 2002, Nuova edizione aggiornata. Lo scritto di Sartori, meno di duecento pagine, si divide in tre parti: la prima su “pluralismo e società libera”, seminale per la definizione del concetto di pluralismo, la seconda su “multiculturalismo e società smembrata”, in cui si sviluppa l’opposizione pluralismo-multiculturalismo,  più un' appendice, datata 30 settembre 2001, su “ Estranei e islamici”,  quindi scritta sull’onda emotiva, per così dire, dell’attentato alle Torri Gemelle.  Veneziani ha sorvolato sulla prima parte, quella concettualmente più importante per capire il resto, soffermandosi invece sulla seconda e sull’appendice, più stuzzicanti per i suoi lettori e  per  le casalinghe disperate di Fratelli d’Italia.

lunedì 13 maggio 2024

La polemica sulla deriva illiberale

 


L’aspetto rilevante della polemica tra destra e sinistra sulla deriva illiberale, non è tanto nella sua negazione da parte della destra, quanto nello spirito statalista che sembra invece accomunare destra e sinistra.

Il nostro ragionamento è complesso, ma crediamo meriti. Quindi il lettore si armi di pazienza, perché solo una volta giunto in fondo all’articolo tutto apparirà più chiaro.

La sinistra, probabilmente, dipinge uno scenario a tinte a fosche. Però basta dare un’occhiata ai Tg Rai e alla violenza verbale che caratterizza il blocco dei quotidiani di destra, alle manganellate, alle gravi restrizioni sui migranti, al premierato, per capire che il clima è cambiato. Dallo spirito di inclusione si è passati a un volontà di esclusione di tutto ciò che non collimi con la visione Legge & Ordine del governo di destra.

Le stesse linee di tendenza dei social – anche qui basta fare un giro – confermano la prevalenza di una visione illiberale della politica, che scorge nell’avversario un nemico da abbattere.

Tra i due stereotipi, quello della destra che liquida la sinistra come snob, ricca e nemica del popolo e quella della sinistra che bolla la destra come neofascista, va onestamente ammesso che, sul piano “climatico”,  il secondo è più vicino alla verità.

Non che a sinistra non vi siano miliardari, ma la forma mentis della sinistra resta più aperta e moderna e soprattutto rivolta alla difesa dell’individuo. Per contro, la destra con il suo dio, patria e famiglia e la mania, non meno pericolosa, per la legge e l’ordine, si propone di schiacciare l’individuo sotto il peso di entità esterne, a cominciare dallo stato, muovendosi quindi in direzione contraria rispetto alla modernità, decisamente dalla parte dell’individuo.

Però, ecco il punto: se è vero che il clima è cambiato, è altrettanto vero che sul piano pratico, del governo quotidiano delle cose, destra e sinistra continuano ad essere stataliste, come prima, e più di prima soprattutto dopo il Covid.

Statalismo significa che stato e governo pretendono di sapere, e in modo infallibile, ciò che sia bene per l’individuo. Si chiama anche peccato di presunzione.

Pertanto esiste una deriva illiberale, diciamo storica – un mix di peloso assistenzialismo cattolico e socialista – consolidatasi nell’Italia repubblicana. Una deriva di fatto, nata dalla mancanza di un’ autentica rivoluzione liberale, a destra come a sinistra, ai vari livelli: politico, economico, culturale, eccetera.

Una rivoluzione che non poteva e non può non consistere nella consapevolezza che è l’individuo a sapere ciò che sia bene per se stesso, non lo stato o il governo.

Naturalmente con l’arrivo al potere di una destra dalle radici fasciste, la deriva illiberale di ieri (quella del Ventennio) ha incrociato la deriva illiberale di oggi ( particolarmente spiccata nel Trentennio berlusconianiano e antiberlusconiano, accentuatasi, come detto, durante il Covid)

Per contro, l’errore della sinistra resta quello di non aver mai fatto i conti con lo statalismo che porta dentro se stessa, addebitando la colpa di ogni malgoverno alla destra, o comunque alle forze moderate. Di qui il facile gioco della destra – perché la sinistra nell’ultimo decennio ha governato, e male – nel ritorcere le accuse contro la sinistra dei ricchi, che si disinteressa del popolo, eccetera, eccetera.

Sui giornali e sulla Rete, si commette l’errore, intenzionale o meno, se di sinistra, di respingere le accuse di malgoverno, che pure vi è stato, se di destra, di ribattere con il mantra dei ricchi e famosi. Di conseguenza non si affronta la questione dello statalismo. Perché destra e sinistra continuano a ritenere erroneamente che lo stato sia la soluzione non il problema.

Per fare solo un esempio,  destra e sinistra asseriscono di essere contro la corruzione e la concussione, però al tempo stesso sono contrarie, tutte e due, alle privatizzazioni, quindi all’eliminazione di quella zona grigia di economia mista, tra stato e mercato che è fonte di corruzione e concussione.

Lo stesso grande tema dell’antifascismo, agitato dalla sinistra, sul quale una destra sfuggente, preferisce nicchiare, finisce per perdere vigore, perché la sinistra si rifiuta di vedere nello statalismo il proseguimento del fascismo con altri mezzi. E per quale ragione? Perché se la sinistra condannasse lo statalismo condannerebbe se stessa. Diciamo che la sinistra, pur difendendo l’individuo, crede nello stato, mentre la destra, crede nello stato e basta, quindi è contro l’individuo.

Sicché la deriva illiberale, che comunque è in atto, viene dipinta dalla destra come
l’invenzione di una sinistra, che non vuole ammettere di aver governato male e che mescola le carte accusando la destra – si dice – di cose avvenute ottant’anni fa. Mentre in realtà – ecco l’accusa più grave formulata dalla destra – la sinistra vuole imporre la diversità per legge, sposando ad esempio la causa woke.

Come finirà? Male. Perché l’individualismo della sinistra non è liberale, quindi non è autentico. Per contro, per la destra, in particolare quella dalle radici fasciste, lo stato è tutto, l’individuo nulla.

Carlo Gambescia

domenica 12 maggio 2024

Il Salone di Torino e le magnifiche sorti progressive del libro

 


Esiste una regolarità sociologica che spiega che sul piano comunicativo un fenomeno ( politico, culturale, sociale, economico) tanto più risulta esteso (rispetto al numero di persone che abbraccia) quanto più il suo messaggio deve essere semplice, se non semplicistico, proprio per essere alla portata di tutti.

Sotto questo aspetto il Salone del Libro di Torino, al centro ogni anno di un dibattito, spesso feroce, tra destra e sinistra, su chi debba essere escluso o incluso, è un fenomeno di semplicismo collettivo. Una grande manifestazione, come tante altre simili, che non è altro che il punto di arrivo di una grande semplificazione. Che arriva da lontano, dal momento che non è una teorizzazione dei moderni, come invece sostengono i pensatori reazionari (ma questa è un’altra storia).

Pensiamo infatti all’antica idea socratico-platonica sul nesso imprescindibile tra conoscenza e virtù. Nel senso che il buon filosofo, proprio perché tale, sia anche virtuoso, un buon cittadino, un buon padre di famiglia, eccetera, eccetera. Il buon filosofo è colui che legge, studia, insegna, approfondisce, insomma traffica con i libri. E poi “applica”, quel che scopre, prima che agli altri, a se stesso

La semplificazione di questa idea rimanda invece alla società di massa. Morto dio, morti in filosofi, è rimasto solo soletto l’uomo comune. Che sembra però stare al gioco. In che modo? In forma semplificata. L’ “uomo medio” dei sociologi, che poi è quello reale, che incontriamo al supermercato, in farmacia, alla fiera del libro, ritiene che basti possedere un libro, diciamo sfogliarlo, per diventare migliori.

Si rifletta. La china del semplicismo è scivolosa. Si sprofonda quasi nel mito: circola una credenza. Che basti toccare un libro per rinascere moralmente. Un giorno lo si leggerà, ma il solo tenerlo tra le mani, quasi come una reliquia, gratifica. Fa sentire virtuosi.

In realtà, il principale problema di coloro che si occupano di statistiche sul “consumo” dei libri (oggi si dice così) è quello di capire se il libro acquistato viene poi letto. Sul punto finora non c’è risposta. Le statistiche si occupano delle copie vendute non di quelle lette. E dove ci si occupa della lettura effettiva, entra in gioco l’attendibilità, come nei sondaggi elettorali, delle risposte degli intervistati. Diranno la verità? E chi lo sa.

Il problema purtroppo è irrisolvibile. Come per fare un altro esempio, quello del rapporto tra pratica e fede nella religione cristiana. Per capirsi, il praticante si comporta secondo i  precetti religiosi? O no? Chi lo può dire.

Si noterà che non abbiamo messo in discussione il nesso conoscenza-virtù. E per una semplice ragione: perché la storia personale dei filosofi, degli scienziati, degli artisti, eccetera, non dà prove sicure (né pro né contro), sul fatto che, semplificando a nostra volta, un “pozzo di scienza” sia anche una “bella persona”.

Se le cose stanno così, tutto il dibattito, soprattutto ideologico (quest'anno tocca a coloro che sono pro o contro Israele), intorno al Salone del libro di Torino, risulta insulso. 

Cioè da un lato è giustissimo che ognuno di noi possa comprare un libro in piena libertà. Però dall’altro non è detto che quel libro renda il lettore virtuoso.Perché entra in gioco un altro fattore: ammesso che chi acquista poi legga, la lettura potrà cambiare in meglio il lettore? Difficile rispondere, dal momento, come detto, che non c’è prova certa  sulla “ forza trasformativa” del nesso conoscenza-virtù. Il che, tra l'altro, rende inutili  le polemiche sul basso o alto numero di lettori, sul cosa fare per incrementare  la lettura, eccetera, eccetera. Ovviamente queste polemiche possono avere un fondamento economico, ma non possono, anzi non devono andare oltre.

Al di là di tutto,  sono problemi complicati.  E proprio perché tali non possono essere accolti e compresi dalla maggioranza delle persone.  Quest'ultima osservazione può risultare addirittura sgradita. Perché si  ribadisce,  offendendo i più,  che la mediocrità, aurea o meno, è patrimonio incapacitante  della società di massa. E sentirsi dare dell’uomo massa, non piace.

Il che non significa che leggere sia inutile. Ci mancherebbe. Però, ecco, senza farsi troppe illusioni sulle magnifiche sorti progressive. Del libro.

Carlo Gambescia