Un amico, ieri, ci diceva scherzosamente: “Sì, va bene, liberalismo armato, ma se le armi, in Europa, non ci sono, perché le hanno solo gli americani, che hanno al governo un fascista, caro Carlo, parlerei di liberalismo disarmato”...
In effetti, gli americani, se abbiamo capito bene il significato degli accordi scozzesi, vogliono che l’Europa acquisti le armi da loro, pagando in dollari sonanti… Insomma: monopolio. Altro che libero mercato.
Per dirla fuori dai denti: l’Europa, culla del liberalismo, non ha alcun desiderio di difenderlo. Vivacchia alla giornata, come una nave malandata senza timone.
Ma facciamo un passo indietro. Cosa significa liberalismo armato?
Si pensi a un liberalismo che, impavido, affronta e vince i nemici del liberalismo. Come fece con Hitler e Mussolini. Quello fu un momento magico, che vide Stati Uniti ed Europa liberal-democratica perfettamente allineati. Nel pericolo, ovviamente. E così è stato, a grandi linee, fino a Trump. Che invece non crede nella liberal-democrazia, anzi si comporta da perfido autocrate e sordido ammiratore dei dittatori.
Chi raccoglierà la bandiera del liberalismo? E soprattutto: chi avrà il coraggio di dire – e agire di conseguenza – che il liberalismo riconosce la libertà di parola, ma non ai suoi nemici, cioè a coloro che vogliono utilizzarla per schiacciare il liberalismo?
Per farla breve: il liberalismo può trovarsi, come ogni altra forma di regime politico, nella condizione di dover schiacciare prima di essere schiacciato.
La logica è semplicissima, addirittura rozza. Ma servono le armi, cioè un certo grado di potenza militare, in grado di spaventare e battere i nemici del liberalismo.
Il liberalismo armato, proprio in quanto armato, non si limita alla difesa passiva, ma contempla anche la guerra preventiva, laddove le condizioni politiche e strategiche lo rendano necessario. Si tratta di un realismo politico di ampio respiro (*), che non rincorre il consenso universale, ma protegge i valori liberali con la forza, se necessario. Non è il fiato corto di chi vuole andare d’accordo con tutti, ma la visione lunga di chi sa distinguere tra pace vera e resa incondizionata.
E purtroppo, l’Europa non ha nessuna intenzione di riarmarsi. Anzi, condanna il ricorso alla guerra.
L’atteggiamento dell’Europa verso i suoi nemici è quello dell’attesa e della speranza che il nemico capisca da solo l’inutilità della guerra. Insomma: che si converta, convincendosi della bontà della pace.
Ora, è indubitabile che il liberalismo, dal punto di vista della storia delle idee, confidi nei commerci, nei parlamenti, nella tolleranza e nella libertà di parola per conquistare menti e cuori degli uomini. Sono cose bellissime, e praticate con invidiabile successo.
Però, per praticare questi valori si deve essere almeno in due, convinti della bontà degli stessi. Se è il nemico a indicarti come tale – quindi non si è in due – ci si deve preparare adeguatamente per mettere il nemico nelle condizioni di non nuocere. Come? Armandosi fino ai denti. E battendosi, quando necessario.
Però, su questo punto preciso nasce ciò che oggi può essere chiamato il problema Netanyahu. Cioè: una volta riarmata fino ai denti, fin dove può spingersi una liberal-democrazia nella guerra guerreggiata?
Infatti, non va dimenticato che, una volta accettata la logica della guerra, questa, per forza propria – come insegna Clausewitz – tende all’estremo (attenzione: “tende”, prende una certa direzione, che però si può sempre cambiare).
Pensiamo a un passo importante di Vom Kriege, che merita di essere citato per intero:
“ ‘La guerra è un atto di forza, all’impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo’.Ecco dunque un primo rapporto di azione reciproca e un primo criterio illimitato, cui l’analisi ci conduce”. (**).
Tuttavia, come dicevamo, Clausewitz, pur perfettamente conscio di questo aspetto, affida però alla politica il compito di dominare istinti e passioni che tendono a portare la guerra all’estremo. Insomma: di invertire la direzione verso l’estremo. Sarà la politica a capire quando fermarsi, sulla base della minore resistenza del nemico.
E qui vengono di nuovo alla luce i principi liberali, che Netanyahu sembra aver completamente dimenticato. E che possono essere sempre dimenticati, per così dire, dallo statista liberale medio. Cioè: quando e dove fermarsi?
Cosa dicono i principi liberali?
Che il liberalismo, pur armandosi e battendosi, scorge giustamente nel nemico di oggi l’avversario di domani. Cioè lo vede come un partner pacificato, che crede nella leale concorrenza intellettuale, commerciale, eccetera. Il liberalismo, anche nei momenti peggiori, non smette mai di credere in un ritrovato clima di pace, frutto di un’innocua mano invisibile che tramuta persino i vizi in virtù.
Per capirsi, e semplificando al massimo, il Kant, che evoca la pace perpetua va corretto con il Clausewitz, che ci spiega le durezze della guerra.
Un’utopia? Ottant’anni di pace europea e di buoni rapporti con gli Stati Uniti e con il resto del mondo libero confermano la tesi di Kant, il ritorno dei nazionalismo e dei venti di guerra, quelle di Clausewitz.
Concludendo: ogni buon liberale armato sa che, per fare la guerra, bisogna credere nella pace. Cioè nella possibilità di sostituire al più aspro conflitto la pacifica concorrenza. Sotto questo aspetto, il nemico di oggi, qualunque sia la sua veste – addirittura l’America MAGA – una volta riacculturato o acculturato ai valori liberali, dopo ovviamente essere stato sconfitto, può diventare l’amico di oggi. Sconfitto, insomma, ma senza esagerazioni. Vincere non stravincere: mai umiliare, e per generazioni, il nemico. Nella vittoria il liberalismo deve sempre mostrare la sua grandezza.
Per inciso, qualcuno lo spieghi Netanyahu. E anche a Trump, visto che ci siamo. Ma forse, per capirlo, servirebbe un corso accelerato di civiltà liberale. Del resto, il liberalismo ha sempre avuto nemici, anche interni, con l’elmetto e il cuore di pietra…
Carlo Gambescia
(*) Sul realismo politico di lungo (ad quem) o corto respiro (a quo) rinviamo al nostro Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2019, pp. 23-31.
(**) K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 2007, p. 22. Ma si veda tutto il Libro I. Ovviamente si consiglia la lettura integrale di questa intramontabile opera.

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