Vorremmo che il lettore non fraintendesse quanto scriveremo: Israele ci sta a cuore.
Però il destino dei palestinesi è questione complessa, come pure la politica di Israele, che solleva non poche obiezioni sul piano umanitario. Pertanto è necessario lasciare spazio al freddo ragionamento metapolitico.
Prima il fatto: Macron ha preso posizione, evocando il riconoscimento francese di uno stato palestinese.
Diciamo subito che ha fatto una cosa giusta e una sbagliata.
La cosa giusta è l’aver dimostrato indipendenza dalla scelta di Trump – che non ha gradito – di appoggiare, come sembra fino in fondo, l’espulsione dei palestinesi da Gaza, portata avanti da Netanyahu e dall’estrema destra israeliana che lo tiene politicamente in pugno. Inoltre, la presa di posizione di Macron ha evidenziato la cecità della destra nativista e militarista, portatrice di idee pericolose, che vanno ben oltre la giusta e necessaria difesa di Israele.
La cosa sbagliata è il puntare, troppo frettolosamente, secondo la tradizione repubblicana francese, sullo stato-nazione. Il problema è che Hamas, diciamo i vertici del movimento, non riflettono lo spirito di Danton, né i palestinesi quello del citoyen della Marsigliese.
Al di là delle parate organizzate dall’alto, il senso dello stato-nazione, per i palestinesi – diciamo la base, la gente comune – semplicemente non esiste: si vuole vivere la propria vita, come prima della rivoluzione industriale, in modo fatalista e fondamentalista. Il palestinese – probabilmente non per propria responsabilità – non ha mai assimilato la modernità politica nella sua declinazione liberale: stato di diritto, separazione dei poteri, parlamentarismo.
Il che significa che l’idea di “due stati, due nazioni” implicherebbe soltanto la nascita di un nuovo scontro tra uno stato fondamentalista (la Palestina) e uno stato, almeno nella sua versione attuale, militarista (Israele). Un disastro.
Il problema di fondo della questione israelo-palestinese è la mancata secolarizzazione-integrazione dei palestinesi all’interno di uno stato israeliano multiculturale.
Sotto questo aspetto, il nazionalismo sia dei palestinesi sia degli israeliani non ha portato e non porterà mai a nulla di buono.Per capirsi: i palestinesi devono modernizzarsi, gli israeliani demilitarizzarsi. Si dirà che, in quest’ultimo caso, non è facile, vista la quantità di nemici che ha Israele. Come del resto non è semplice la modernizzazione del palestinese, cresciuto, suo malgrado, in un contesto segnato da ignoranza e ostilità verso gli ebrei.
Parliamo qui della modernità dei costumi e dell’economia. Una modernità a largo raggio, la cui aria rende liberi: dal fare impresa, al sindacalizzarsi, al cantare e ballare sui carri del Gay Pride. E pensiamo anche, naturalmente, alla politica. In quest’ultimo caso, guardiamo alla depoliticizzazione: come accaduto in molti paesi occidentali prima della seconda ondata nera populista e neofascista dell’ultimo decennio, quando la sana deideologizzazione della politica ancora permetteva, giustamente, di trasformare il nemico in semplice avversario.
Non ci si lasci ingannare: il piano di Trump, che immagina Gaza come una specie di Miami o Las Vegas, non tiene conto della auspicabile (ma anche necessaria) modernizzazione dei palestinesi. Trump ne auspica l’espulsione armata. Punto. Un progetto che coincide con le idee militariste di Netanyahu e dell’estrema destra che lo sostiene. Un disastro. E due.
Diciamo che Macron – errore che commettono in molti – crede basti proclamare uno stato-nazione (semplifichiamo) senza una precedente rivoluzione illuminista, capace di tenere a bada quelle forze di un deteriore romanticismo nazionalista, che nella prima metà del Novecento si tramutarono nel totalitarismo nazionalsocialista e nella caccia all’ebreo.
Una visione venatoria della politica che oggi rischia – e duole il cuore a dirlo – di trasformarsi nella caccia al palestinese. E, per tragico riflesso, anche all’ebreo.
Come uscirne?
Con la modernità. Israele deve recuperare la sua visione illuminista e laica, soprattutto politicamente parlando. E puntare sullo stato multiculturale. Va detto che, nonostante tutto, Israele ha già integrato, pur con criticità secondo alcuni, due milioni di cittadini arabi. Stesso discorso per la Palestina: l’arabo, come il contadino meridionale italiano del secondo dopoguerra, deve inurbarsi e trasformarsi in “milanese” e “torinese”.
Serve un’altra rivoluzione industriale? Purtroppo, Israele non è l’Inghilterra del Settecento, né la Francia manifatturiera e mercantile alle soglie della Rivoluzione francese.
E poi ci sono l’Iran e un Medio Oriente dilaniato dal fondamentalismo, nelle sue varie versioni sunnite e sciite. Non è facile parlare di illuminismo e libertà civili e politiche. Far cadere la spada può essere pericoloso per la stessa esistenza di Israele.
Resta però un fatto: la Marsigliese – se proprio la si deve cantare – impone una precedente rivoluzione borghese.
Concludendo, solo quando ebrei e palestinesi accetteranno l’idea che la modernità non è una concessione, ma una conquista condivisa, allora forse potrà nascere una pace reale. Fino ad allora, continueremo ad avere due popoli, due retoriche e un solo disastro.
Qualcuno lo spieghi al pur colto e intelligente Macron.
Carlo Gambescia
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