giovedì 31 ottobre 2024

Giorgia Meloni, John Elkann e i “fondamentali della Repubblica”

 


“I fondamentali della Repubblica italiana”. Una battuta, quella della Meloni, in risposta a John Elkann, che aveva ricordato, e giustamente, al Governo italiano, i “fondamentali del mercato”. Cioè, un fatto semplicissimo: che le strategie di un’impresa dipendono dalla legge della domanda e dell’ offerta, non dai ducetti della politica.

Credevamo che la palma del “più bravo del bar sport” (oggi si chiamano “influencer”), appartenesse a Gianfranco Fini. E invece no. La Meloni nel risolvere tutto con una battuta sembra essere più brava dell’uomo che sussurrava alle case:   se il governo non conosce  i fondamentali del mercato, John Elkann non conosce i fondamentali della Repubblica... Tiè...

Qual è il problema? Il gruppo Stellantis (inclusivo della Fiat), presieduto da John Elkann, è una multinazionale, che in un momento critico per il settore dell’auto, soprattutto in Europa, provocato da demenziali scelte politiche, dettate dalla mitologia ecologista, cerca di restare a galla, guardando al mercato mondiale. E di conseguenza, non può e non vuole nella persona del suo uomo più rappresentativo, John Elkann, perdere tempo e autorevolezza nel sottoporsi qui in Italia a processi pubblici, stile Convenzione durante la Rivoluzione francese: un’istituzione che lasciò che i comitati (il potere esecutivo di allora) facessero strame delle istituzioni parlamentari, e quindi di se stessa. 

Giorgia Meloni studi, prima di parlare per battute. Le audizioni, lo sapeva anche Bombolo, se “pilotate”, possono trasformarsi in processi pubblici, in “caciara anticapitalista”. Con lancio e rilancio per il telegiornale del venti. 

Per capire di che razza di pasta (velenosa) è fatta questa gente, Giorgia Meloni, come prova il disegno di legge sul premierato, vuole imporre che in caso di crisi  non si punti su governi, presieduti da tecnici, estranei al Parlamento, membri non eletti insomma. Però, non vale il contrario. Perché Giorgia Meloni vuole processare, con la scusa dei fondamentali della Repubblica, John Elkann davanti al Parlamento. Sì, pro-ces-sa-re. Perché di processo si tratta, tipo comitato di salute pubblica. Altro che rispetto per le istituzioni parlamentari. Il cosiddetto premierato, caldeggiato, sempre da Giorgia Meloni, rinvia al plebiscitarismo e al rafforzamento del potere esecutivo, fatto che non ha precedenti nella storia repubblicana. Capito?  Quella dei fondamentali...

Pertanto, se proprio si vuole indicare un esempio di non conoscenza dei fondamentali della Repubblica lo si trova in Giorgia Meloni, che si è politicamente formata in un partito dalle radici fasciste. E che, cosa che è giusto ripetere, non ha mai conti con il fascismo. Però “la più brava del web-bar sport”, pretende di dare lezioni a Elkann. Che è un imprenditore, costretto a difendersi dagli assalti del diffuso statalismo italiano. E infatti ha contro anche gli imbecilli politici di sinistra.

Al posto di Stellantis, staccheremmo un assegno, per chiudere la questione dei contributi pubblici, regolarmente rinfacciati alla Fiat dai governi di destra e di sinistra. Dopo di che chiuderemmo immediatamente le improduttive fabbriche italiane. Che Giorgia Meloni si inventi, declamando fregnacce (pardon) a reti unificate da Vespa, un bel “piano Mattei” per l’Italia: scavare buche e riempirle. Con i soldi dello stato, ovviamente. Cioè i nostri.

Carlo Gambescia.

mercoledì 30 ottobre 2024

Trittico sulla destra: Sangiuliano, Campi, Michels

 


La prendo  da lontano. Ieri, giornata in famiglia, ma con risvolti sulla cultura di destra, tanto per cambiare…

Mi trovavo, con i miei cari, all’interno del centro commerciale di Cinecittà 2, qui a Roma, il primo in assoluto, risale al 1988. Molto bello sotto il profilo architettonico (un vero “luogo”, non un “non luogo”, come scrivono gli antropologi anticapitalisti).

Per farla breve, cosa praticamente inevitabile, mi sono infilato nella libreria Feltrinelli. Con mio relativo stupore ho scoperto che gli eredi del politicamente incendiario Giangiacomo dedicano all’esoterismo lo stesso spazio occupato dai libri di storia. Così va il mondo. Oggi.

Tra i volumi di una disciplina fondata da Erodoto e Tucidide, scopro un libro (160 pagine) appena uscito, introdotto da Alessandro Campi, edito da Treccani: Walter Maturi, Risorgimento. Cosetta “ampressa ampress’”, dove sono raccolti, alcuni scritti in argomento, non tutti usciti , a quanto ci risulta, nella comunque sontuosa raccolta edita da Massimo L. Salvadori e Nicola Tranfaglia per Nino Aragno Editore (W. Maturi, Storia e storiografia, 2004).

L’impressione è quella del Maturi di destra opposto a quello di sinistra. Insomma, chi tira di qua, chi tira di là. E di Maturi si sa meno di prima.
 

Tra l’altro anch’io scrissi qualche anno fa, nel silenzio totale della destra, un “pezzo” dedicato allo storico liberale (*), scomparso non ancora sessantenne nel 1961 (era del 1902), uscito su “Linea” nel  2011. 

Una figura di studioso, quella di Maturi, preziosa, capace di integrare teoria delle élites, storicismo e valori liberali, che richiamo spesso nei miei lavori. Pur non essendo fascista, iniziò la sua carriera universitaria, negli anni della dittatura. Fu la sua inevitabile “circunstancia” per dirla con Ortega, che però non influì sulla sua visione liberale della storia e della storiografia. Come testimoniano le splendide Interpretazioni del Risorgimento: lezioni di storia della storiografia (Einaudi 1962). Perciò sarebbe meglio evitare collegamenti, per la serie tutti i salmi finiscono in gloria, con l’allora imperante scuola storiografica di Gioacchino Volpe, grande studioso, che però fu monarchico e fascista. Una specie di “anti Croce”. Del resto, solo per dirne una, di esistenziale” il notevole sense of humor di Maturi, dalle origini partenopee, escludeva di diritto qualsiasi rapporto di tipo simpatetico con un regime di repressi e depressi, a partire da Mussolini.

Ma non è di questo che desidero parlare. Dalla biografia campiana, nel risvolto di copertina, apprendo, che il professore naturalizzato perugino è Presidente dell’Edizione Nazionale delle Opere di Roberto Michels.

Un passo indietro. Due anni fa, proprio qualche giorno prima che la destra meloniana vincesse le elezioni, stroncai una pessima riedizione della Sociologia del partito politico di Michels, uscita con una ridicola prefazione di Gennaro Sangiuliano, non ancora Ministro della Cultura, quindi con la fronte intonsa, non violata, per sua ammissione, da femminei graffi. Qui la nostra chiusa:

Insomma, comunque la si metta, una pessima operazione editoriale, se si pensa a due gioielli come gli Scritti Politici di Mosca, curati dal compianto Giorgio Sola, o al Trattato di sociologia generale di Pareto, approntato da Giovani Busino. Michels è un pensatore della stessa levatura e non si meritava un Sangiuliano qualsiasi: un analfabeta politologico. E poi servono le note critiche, gli aggiornamenti bibliografici, insomma tutto quel corredo scientifico che impone un classico della scienza politica. Non la corte dei miracoli di una destra incompetente e superficiale che persevera nello sprecare occasioni del genere”(**).

Alla recensione, nonostante le moltissime letture, seguì come al solito, il silenzio di quei luoghi fin troppo tranquilli,  dove peste umane non suoneranno, per dirla con Montale. Ora, però, a due anni di distanza, scopro che qualche mese fa il ministro Sangiuliano ( DM. 94, 07/03/ 2024) ha decretato l’Edizione Nazionale delle Opere di Roberto Michels, con contributo istitutivo di 35 mila euro (***). Come anticipato, la commissione scientifica, preposta, ha subito eletto Campi presidente, che, oltre a nutrire simpatie di destra, è specialista, ci dicono riconosciuto, di una decina di pensatori, italiani e stranieri, da Machiavelli a Michels e oltre.

La cosa probabilmente, sfuggita alla sinistra, in particolare quella che ha smesso di studiare da un pezzo, è che Michels, che morì nel 1936, prima del definitivo allineamento di Mussolini a Hitler, fu fascista. Tuttavia fu anche un grandissimo scienziato politico. Perciò merita Edizione nazionale e fondi. Come pure lo meritano le associazioni culturali di sinistra, escluse invece dalla Ministero della Cultura (****). Perché solo così, diciamo di fatto, si può realizzare la pacificazione continuamente evocata dalla destra.

Non vorremmo peccare di immodestia, però, evidentemente, nonostante il silenzio sepolcrale intorno alla nostra recensione, il siluro è andato a bersaglio. Colpiti e affondati. E, il tutto, a vantaggio del grande Roberto Michels.  Ieri è stata una buona giornata.

Certo, ci si può sempre rispondere, che non è  merito di un povero untorello e che da anni l’Edizione Nazionale era nell’agenda di Sangiuliano e Campi, eccetera, eccetera. Però.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2011/09/walter-maturi-storico-di-un.html .

(**) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2022/09/un-michels-da-incubo.html .

(***) Qui: https://media.cultura.gov.it/mibac/files/boards/be78e33bc8ca0c99bff70aa174035096/DECRETI/ANNO%202024/DM%207%20marzo%202024%20rep.%2094%20Istituzione%20dell%E2%80%99Edizione%20Nazionale%20delle%20opere%20di%20Roberto%20Michels.pdf .

(*****) Qui: https://www.articolo21.org/2024/10/nuovo-attacco-allantifascismo-fondi-tagliati-ad-aned-ed-anppia/ .

martedì 29 ottobre 2024

Caro marziano... Caro terrestre...

 


In questo preciso momento, uno “straniero”, un abitante di Marte che idea si farebbe della Terra? Si pensi a un colpo d’occhio telescopico capace di cogliere l’essenziale. Da Marte. E ora,  non in un lontano futuro come propone Pif nel suo fortunato programma.

Parliamo di una lettura morale non ecologica.

Il marziano  vedrà  un mondo in pace. Nel quale si commercia, si scambia, si comunica. Se, per ipotesi, si fosse “affacciato” nel 1917 o nel 1943 avrebbe trovato una situazione molto diversa. Quella sì, di guerra. Un enorme vulcano in eruzione.

Certo, qui e là il marziano  può scorgere  delle tracce di fumo, piccoli vulcani. Però nel suo insieme   - così osserverà -  sembra   regnare la pace.

Quadro forse idillico, tipico dello straniero, di chiunque veda le cose da lontano. Però, in effetti, la Terra non è quella del 1939, del 1914.

Di qui uno squilibrio conoscitivo. Perché se la visione del marziano è rosa, quella del terrestre è nera. Per scoprilo basta fare un giro su internet o sfogliare i giornali: “Siamo in guerra”, si sente ripetere ogni giorno.

Probabilmente il vero male della Terra, se così si può chiamare, è il pessimismo non giustificato. Perché immaginare sempre e solo disastri?

L’immaginazione del disastro ha una sua validità, ma deve partire da dati obiettivi, che non possono rimandare, come visione delle cose, a un uomo ripiegato su se stesso, che ha occhi solo per Terra. Ci si deve anche “marzianizzare”. O meglio ricorrere alla logica del marziano che ci osserva da lontano. E che al momento non vede sconvolgimenti generali.

Fantasie, le nostre? In realtà, vedere le cose troppo da vicino non aiuta mai, perché si perdono di vista le linee generali (mondo in pace, mondo in guerra, come detto). Però non bisogna neppure ignorare il fumo dei vulcani, anche se piccoli.

Emergono così due posizioni differenti: quella del marziano che vede un mondo in pace, e del terrestre che invece vede solo guerre.

Qui, tuttavia, entra in gioco l’uomo di oggi. Che sembra aver perso il gusto della libertà. Una involuzione che da Marte non si può scorgere.

Cosa significa amore per la libertà? Vuol dire apprezzare la pace. Sotto questo aspetto l’ascesa dei nazional-populismi ( o sovranismi), altra cosa che non si scorge chiaramente da Marte, è un grave segnale. Di cosa? Della crescente diffusione dell’odio reciproco tra terrestri. Cosa che non può alimentare un ottimismo di tipo marziano.

Prevarrà, tra gli esseri umani il pessimismo terrestre o l’ottimismo marziano? Difficile rispondere. Però la metapolitica, soprattutto come capacità di prendere le distanze dal frammento storico, per privilegiare le regolarità di comportamento, può essere il nostro telescopio per “osservarci” da Marte, pur restando sulla Terra (*).

Ovviamente una cosa è studiare, un’altra decidere. Sono responsabilità differenti. Tra l’osservazione da Marte dello studioso e la decisione che un uomo politico deve prendere sulla Terra, esiste una notevole differenza. Una cosa è decidere se attaccare o meno un nemico, un’altra consigliare il politico di decidere se fare la guerra o la pace. Sono responsabilità profondamente differenti: lo studioso parla, e per giunta in chiave previsionale, a un singolo uomo di stato; il politico, cioè l’uomo di stato, decide della vita e morte di milioni di uomini.

Dov’è la verità? Difficile dire. Crediamo però che un buon osservatore debba essere marziano e terrestre al tempo stesso. Si deve scrivere sia al marziano che al terrestre: Caro Marziano... Caro terrestre…

Carlo Gambescia

(*) Sul punto, senza alcuna pretesa di fornire miracolose “soluzioni definitive”, rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 volumi.

lunedì 28 ottobre 2024

Giuli, Ranucci e la puntata di “Report”

 


Per dirla con franchezza, a chiunque studi la destra, o comunque la conosca abbastanza bene, la puntata di “Report” su Giuli, neo Ministro della Cultura, non ha detto nulla di nuovo. Zero scoop.

Non è certo una rivelazione giornalistica che Giuli si sia formato in ambienti culturali nemici del liberalismo e della democrazia, nei quali, al massimo, il liberalismo e la democrazia sono visti come mezzi e non fini per agguantare il potere e polemizzare con la sinistra, rinfacciandole astutamente di rinnegare i valori democratici che professa.

Poi ovviamente esistono le sfumature interne a questo variegato mondo della destra parlamentare ed extraparlamentare: esoterici, tradizionalisti, nazionalisti, socialisti-nazionali, monarchici, corporativisti, antisemiti, identitari, non conformisti eccetera, eccetera.

Il che può anche essere interessante da scoprire, per lo storico. Però quel che non va mai dimenticato, soprattutto dal politico, e che ciò che accomuna questa cultura è il disprezzo cosmico verso il capitalismo, il liberalismo e la modernità. Basta fare un giro in Rete per scoprirne gli stereotipi del “militante non conforme” (alla modernità liberale, ovviamente). Anche negli angoli del pensiero e dell’arte, apparentemente meno sospetti.

Ad esempio, l’ enfasi che si pone sul futurismo, fenomeno culturale dalle molteplici sfumature, in realtà guarda a una modernità gerarchica e reazionaria agli antipodi della modernità illuminista: una visione eroicizzante che si impone di coniugare un mondo castale con la tecnica moderna.

Uno dei più insidiosi teorici di questo “accoppiamento (poco) giudizioso” , Guillaume Faye, scomparso qualche anno fa, coniò il termine archeofuturismo, immaginando un’Eurasia castale, dotata dei congegni più moderni e delle tecnologie militari più avanzate. Un superfascismo per supereroi. Roba da fantasisti delle idee, che però piace molto a destra, soprattutto a giovani militanti e intellettuali”, qualcosa di eccitante che va ben oltre le minestrine del Signore degli Anelli.

Pertanto il vero problema, che sfugge a “Report” non è che un archeofuturista sieda al Ministero della Cultura, ma come mai il successo politico abbia arriso a una parte politica che con la società aperta liberale, per dirla alla buona, non c’entra nulla. Qui i potenziali archeofuturisti, magari senza ancora saperlo, sono milioni. Altro che la chiosa dell’antropologo culturale, dell’Università della Calabria, sul culto solare, prediletto da Giuli.

Il Ministro non è che uno degli esemplari tipici di una cultura politica che in blocco (quindi sfumature incluse) rappresenta una minaccia reale per l’esistenza della liberal-democrazia. Aggiungiamo, che per quanto riguarda Giuli, non c’era alcun bisogno di intercettarne le mail private, bastava una lettura attenta dei suoi libri. Però, per questo, serviva una conoscenza approfondita della cultura di destra, assente in Ranucci e nei suoi collaboratori.

Si poteva partire ad esempio da Nigredo (il suo primo e unico romanzo) per scoprire il suo entroterra culturale. Costo del libro, euro 12.

Anche la machiettizzazione del Ministro e della cultura di destra non aiuta. Per inciso, fino al 1933, Hitler venne descritto come una specie di pagliaccio politico.

In realtà il blocco politico antimoderno si combatte credendo innanzitutto nei valori liberali. E invece la sinistra che fa? Ridicolizza. E ridicolizzando, rende simpatico l’avversario, lo umanizza in qualche modo, sicché il fascismo diventa una specie di moda politica che – si pensa – in fondo fondo non è poi così male.

Ed ecco Giuli diventare un elegantone di altri tempi, quindi con un suo fascino, magari obliquo (il che fa tanto antieroe), screditato ingiustamente. Una vittima della sinistra, che ogni giorno la destra dei giornali dipinge come brutta e cattiva.

Ripetiamo, non si può combattere il redivivo fascismo, se non si crede fermamente nei valori liberali. E Ranucci liberale non è, se non quando deve difendere i suoi scoop sul filo del rasoio della legalità.

Si dirà meglio di niente. E che il nemico dei nostri nemici è nostro amico. Quindi Ranucci sarebbe un alleato del liberalismo. E sia.

Il che però la dice lunga sulla crisi del liberalismo. Cosa che ci rattrista profondamente.

Carlo Gambescia

domenica 27 ottobre 2024

Giovanni Orsina, Giorgia Meloni e il realismo politico a breve termine

 


Oggi lo storico Giovanni Orsina su “La Stampa”, da sempre “aperturista” verso la possibile civilizzazione dei barbari populisti, spezza l’ennesima lancia in favore di Giorgia Meloni. A suo avviso una guida politica perfettamente capace di coniugare, un poco come al tempo del Pci di Berlinguer, lotta e governo. O se si preferisce protesta (nelle piazze) e gestione (delle istituzioni).

L’aspetto più debole di questo realismo a breve termine ( a quo), simile al quello che animò Moro, teorico delle aperture a sinistra, resta la pretesa di essere invece a lungo termine (ad quem) (*). Si scambia il futuro con il presente. Il domani con l'oggi. Si pensi a un  Churchill remissivo  che avesse accettato nel 1940 le offerte di pace di Hitler, pensando al presente della Gran Bretagna, al momento sconfitta, e non, come  fortunatamnete andarono le cose,  al terribile futuro di un mondo dominato dal fascismo.


Succede questo: si inquadra un problema come storico, ieri il comunismo oggi il populismo, all’interno di un’ottica della normalizzazione, come dicevamo dell’incivilimento dei barbari (che per inciso richiese secoli e secoli e distruzioni su distruzioni). Insomma, si crede di poter rendere normale, come nel caso dei populismi, ciò che non normale non è.

Pertanto l'argomentazione  di Orsina è erronea.  Si descrive la protesta del populismo contro le élite come un fatto che avrebbe giustificazione storica nel cattivo comportamento delle élite politiche italiane ed europee.  Orsina trasforma qualcosa di contingente in qualcosa di storico. Attribuisce erroneamente  ragioni storiche al populismo, non vedendo dietro di esso i pericoli, questi sì realmente storici, di un fascismo di ritorno, dal momento che il populismo era ed è una componente culturale del fascismo.

Il che, a nostro avviso,  non significa che le élite al comando siano esenti da colpe, ma, ecco il punto, Orsina, favorendo la tesi dell’addomesticamento dei barbari, sottovaluta la componente fascista dei populismi.  Non si tratta di assolvere, ma di non ignorare, come già accaduto con Moro, la componente antiliberale – questa sì, ripetiamo, storica e antisistemica – , del comunismo (allora) e del fascismo (oggi). E di conseguenza le potenzialità eversive di Giorgia Meloni, nuovo Berlinguer, anche se di segno opposto.

Siamo davanti a un realismo a breve termine, antistorico, proprio perché non tiene conto della lezione della storia sulla pericolosità del populismo fascista.

E che un storico, come Orsina commetta un errore del genere, è segno della grave crisi di identità – identità liberale – che intorpidisce storici e analisti, ben più grave della stessa crisi delle élite politiche.

Esageriamo? La parola al lettore.

Carlo Gambescia

(*) Sulle differenze tra le diverse forme di realismo politico, rinviamo al nostro Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio 2019.

sabato 26 ottobre 2024

“Il Foglio” e la destra (tra caso e necessità)

 


Non convince la linea del “Foglio” sul governo Meloni. Non facciamo nomi però. Si tratta di una “lineassa” semicollettivistica, che nelle ultime settimane ha preso il sopravvento. E che ruota intorno alla vecchia tesi usata dai fascistissimi per difendere Mussolini dopo la caduta: “Lui” era bravo, il “contorno” però…

Tradotto: la Meloni è capace, si muove bene in Italia e in Europa, pure negli Stati Uniti. Una certezza per l’Occidente. Mentre il resto del partito, escluso il cerchio magico, si comporta come i contrabbandieri macedoni del Maestro Battiato. Manca un centro di gravità permanente. Cioè, ci sarebbe, ma guarda troppo in direzione dell’obelisco del Foro Italico.

Probabilmente forziamo un poco. Però sostanzialmente la tesi è questa. E viene usata sempre dal “Foglio”, in chiave di prelavaggio, per attaccare una sinistra difesa, oggi come ieri (quando era al potere), da giudici e giornalisti. Due categorie professionali che invece attaccano senza tregua il governo Meloni. Indebolito su questo fronte dalle carenze della classe dirigente di Fratelli d’Italia, non in grado di ricoprire, si legge, cariche ministeriali o comunque di prestigio istituzionale. E che quindi finisce sempre nel mirino spernacchiante della sinistra.

Qui invece si rivela la debolezza del mussolinismo-difensivo, o giustificazionismo, del “Foglio” (“lei è brava, gli altri cattivi”). Perché delle due l’una: o il governo “è” Giorgia Meloni, quindi “Batwoman” prima o poi metterà i suoi omuncoli in riga, o i Primo Arcovazzi del partito (citazione dal “Federale”di Salce), che a tratti sembrano tenerla in pugno, distruggeranno l’immagine del partito dei patrioti (“Svizzero? No, Italiano”) a colpi di scandali, eia-eia e figuracce “bocciofile”.

In realtà il concetto, che è alle basi del giustificazionismo del “Foglio”, si nutre di una contraddizione: per un verso si confida nella facoltà extraterrestri di Giorgia Meloni, per l’altro, si spera nell’ evoluzione della specie fascista in specie conservatrice, magari pure liberale e addirittura antifascista: processo implicito, si legge, nell’inevitabile e diffuso pragmatismo del quotidiano lavoro di governo. Detto altrimenti: la pratica di governo come fattore addomesticante. Riuscì con i re longobardi perchè non dovrebbe riuscire con  Teolinda Meloni?

Purtroppo non si diventa conservatori e liberali in un giorno  e neppure nel corso di una legislatura. Soprattutto quando, come Giorgia Meloni, non ci si è mai interrogati, fin da principio e con onestà intellettuale, non tanto e non solo sul fascismo, ma sulla pericolosità della brodaglia culturale (antiliberale e anticapitalista) che ha favorito e favorisce, per citare l’ottimo Tasca, la nascita e avvento del fascismo e del neofascismo. E che ancora circola in quantità non modiche nel sistema sanguigno di Fratelli d’Italia.

La catena evolutiva di Fratelli d’Italia da partito neofascista a partito conservatore-liberale manca di un fondamentale anello culturale, rappresentato proprio da Giorgia Meloni. Per capirlo basta leggere i suoi libri  pieni zeppi di contenuti reazionari. Possibile che al "Foglio" nessuno abbia dedicato qualche ora alle fatiche letterarie della Meloni?

Sia come sia,  al “Foglio” si spera che Giorgia Meloni trasformi il caso (la fortuna di avere vinto le elezioni) nella necessità di un’ evoluzione liberal-conservatrice.

In realtà, come detto, Giorgia Meloni non può tramutarsi in “Batwoman” conservatrice e liberale, al massimo può travestirsi come a Carnevale. E di conseguenza i Primo Arcovazzi continueranno a fare e dire cazzate (pardon).  

Fino a quando? Difficile dire.  Perché tutto dipende dagli anticorpi liberal-democratici della società italiana. 

Carlo Gambescia


venerdì 25 ottobre 2024

Da Calvino a Vannacci

 


Oggi vorremmo accostare alcune notizie, per poter formulare un quadro della situazione generale. Situazione, almeno a nostro avviso, politicamente e culturalmente molto critica. Si rischia veramente di sprofondare nella barbarie.

La prima notizia la dobbiamo all’amico Alessandro Litta Modignani, brillante giornalista liberale, che sulla sua pagina Fb ha pubblicato, rilanciando dal “Giornale della Libreria”, fonte AIE (Associazione Italiana Editori),  un raffronto tra le classifiche dei libri più venduti nel 1988 e nel 2023.

La seconda all’Ansa che riprendendo sempre dati AIE informa che “nel 1988 si vendevano nelle librerie e nei supermercati circa 50 milioni di libri ogni anno”. Mentre “nel 2023 (nel frattempo si sono aggiunte le librerie online) le copie vendute sono state 112 milioni, al netto dei libri scolastici, dell’editoria accademica e professionale, dei libri in formato digitale”.

La terza notizia rimanda a una questione tra il terrorismo e la barbarie politica che riguarda un magistrato minacciato di morte: Silvia Albano, uno dei sei giudici del tribunale di Roma che si è pronunciato sul trattenimento dei migranti in Albania. La si accusa, sull’onda di una una barbara campagna di stampa della destra, purtroppo degna degli abissi retorici della Repubblica di Weimar (si legga Nolte), di essere una toga rossa. E che per questa ragione deve morire. Questo, in sintesi, il gravissimo contenuto delle centinaia di messaggi ricevuti, ora agli atti nella denuncia presentata dal magistrato alla Procura di Roma (***).

Primo punto. Che dicono i dati sulla vendita dei libri? Basti il dato “grezzo” sulla quantità: che oggi rispetto al 1988 si vende più del doppio delle copie. E la qualità? Non bene, se andiamo a leggere autori e titoli dei libri più venduti.

Per dirla brutalmente, da Italo Calvino siamo passati a Roberto Vannacci. Il contrasto tra la compatta ideologia vannacciana, chiaramente di estrema destra, rispetto alle arguzie, ai dubbi, alla sagacia di un Calvino non ha bisogno di commenti.

E qui, secondo punto, veniamo alle minacce al giudice. Che sono il portato di una diffusa cultura dell’odio politico, oggi cavalcata dalla destra, come un tempo, prima dell’uragano populista di Tangentopoli nel 1992,che mescolò tutte le carte politiche, fu cavalcata dalla sinistra, non tutta a dire il vero.Però.

Oggi invece è la sinistra ad essere in difficoltà dinanzi all’aggressività dello squadrismo, per ora mediatico, della destra.

Attenzione, lungi dai noi qualsiasi idea di proporre una riflessione sulla sinistra del tipo “chi semina vento, raccoglie tempesta”. Insomma che la sinistra meriti il trattamento. Anche perché sono riflessioni che ora non servirebbero a nulla. Porterebbero solo acqua al mulino di una destra al governo che sta smantellando lo stato di diritto. E in cerca di capri espiatori. A sinistra ovviamente.

La sinistra può avere sbagliato in passato, però oggi la destra sta varcando i confini della legalità e cosa più grave del buon senso istituzionale, anche in modo piuttosto volgare. Giorgia Meloni non ha forse definito i giudici “menefreghisti”? E di che cosa, di grazia? Della volontà del popolo, sempre secondo Giorgia Meloni.

Del resto la ” volontà del popolo”, secondo la destra, dove ci sta portando?  All’introduzione di nuovi reati, alla deportazione dei migranti, al rafforzamento dell’organico della polizia, all’ isolamento dei magistrati e dei giornalisti non allineati al nuovo potere. Sembra di assistere a un film già visto. La sinistra ripiega, proprio come nel 1921-1922, quando subì, quasi inerme, il sopravvento dello squadrismo fascista, ovviamente con il tacito permesso delle forze di polizia e il silenzio di una pavida magistratura.

Oggi però lo squadrismo si è fatto mediatico e digitale. E non è meno pericoloso. Certo, non è più al servizio dei proprietari terrieri, ma, volente o nolente, “serve” i ceti economicamente parassitari: dalle costruzioni, alle assicurazioni con addentellati bancari, al commercio e agricoltura ( di questo “mangiare italiano”, non se ne può più…); dalle aziende pubbliche e semipubbliche, e probabilmente alle grandi organizzazioni criminali, infiltrate nell’amministrazione pubblica. Si potrebbe parlare di guarda bianca digitale.

Costruzioni, assicurazioni, eccetera, sono soggetti sociali, o meglio gruppi di pressione e influenza, che vogliono che tutto cambi perché nulla cambi. Il “ponte sullo stretto” rischia di essere una specie di monumento a questa Italia. L’antico verminaio nascosto sotto il sasso, riscoperto con un "calcione" (letterario) da Tomasi di Lampedusa. Del resto solo una destra autarchica e statalista, a richiesta con radici fasciste, può nutrire parassiti e vermi. Ovviamente, come tutte le canaglie, nel nome della grandezza della patria.

Alla base della piramide eversiva dell’ordine liberale si muovono gli squadristi digitali, coloro che minacciano Silvia Albani. Un magistrato che  ha  l’unica "colpa" di essere di sinistra, di fare parte, si dice con orrore, di “Magistratura Democratica” . Proprio come nel 1921-22 si picchiava e imprigionava chi leggeva “L’Avanti!”, distruggendone anche le sedi.

Per questa gente, e qui piace ricordare un film spagnolo di Berlanga (“La Escopeta nacional”, 1978), non uscito in Italia, la neutralità consiste nell’essere di destra. Uno dei protagonisti del film, un industriale, per essere accettato nei corrotti ambienti affaristici vicini a Franco, dichiara candidamente: “Non mi sono mai occupato di politica, perché sono di destra come mio padre”. Ecco, secondo la destra, questa deve essere la posizione dei giudici. Apolitica perché di destra…

Tornando alla questione delle classifiche dei libri più venduti, sappiamo benissimo che comprare un libro non vuol dire leggerlo… Evidentemente, se leggere significa crescere culturalmente, si comprano più libri, ma non si leggono, e di conseguenza la cultura politica si è imbarbarita. Oppure, altra risposta, si leggono, ma optando per letture meno impegnative e dalle risposte facili a problemi complessi. Il che spiega la prevalenza di Vannacci e di autori, di facile e largo consumo, rispetto a Calvino, Pirandello Kundera, Bufalino, Yourcenar.

Ecco, proprio l’opera di Marguerite Youcernar, madre di un femminismo, colto, di largo respiro, anche agguerrito, ma profondamento diverso da quello da talk show di Michela Murgia, fatto di proclami, e cosa più grave: di risposte altrettanto semplici, questa volta da sinistra, come quelle del generale Vannacci a destra.

Non parliamo di qualità letteraria. Michela Murgia, che non è più tra noi, resta comunque una buona scrittrice. Nulla a che vedere con la prosa cadorniana del generale Vannacci. Ma la forma mentis della Murgia, da barbarica guerra culturale, spiega il testa a testa nelle vendite a colpi di scimitarra con Vannacci, il feroce Saladino delle destre Per dire una banalità (forse superiore) gli estremi finiscono sempre per toccarsi.

Pertanto, e concludiamo, le vendite dicono che prevale la letteratura delle risposte semplici ai problema complessi. E cosa c’è di più semplice, diremmo sbrigativo, sul piano delle risposte, dello sparare a chiunque non la pensi come noi? Cominciando proprio da un giudice?

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.facebook.com/photo/?fbid=854920080164042&set=a.552215477101172 .

(**) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/2024/05/28/libri-mercato-nazionale-raddoppiato-rispetto-al-1988_84ac5c16-5bc5-4e17-b1af-1b9bcd6752ec.html.

(***) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2024/10/24/minacce-di-morte-alla-giudice-albano-presentata-denuncia_5904166a-8ae9-42f2-add8-51094e05aaa0.html .

giovedì 24 ottobre 2024

Da Mike a Zelensky

 


Tutto sommato non ci è dispiaciuto il "Mike" di Giuseppe Bonito, tramesso in due puntate dalla Rai. Bonito è regista sensibile ai segreti dell'anima. Ricordiano con diletto, "L'arminuta".

La fiction sceneggiata da Salvatore De Mola, si basa su La versione di Mike, autobiografia scritta da Bongiorno con il figlio Nicolò.

Diciamo però, che al di là della buona ricostruzione ambientale (storica, sarebbe parola grossa, poi spiegheremo perché), degli attori, tutti molto bravi, la “miniserie” grazie all’escamotage, crediamo registico, dell’intervista con il solito giornalista di sinistra (l’ immaginario Sebastiano Sampieri), è una lunga, a tratti imbarazzante, confessione. Non facile da digerire anche per lo spettatore, soprattutto quando al corrente di certi meccanismi culturali pavloviani. E impotente, scorge le sbarre  del conformismo antimoderno scattare intorno alla vittima designata.

Mike non ammette mai di aver peccato (poi diremo di che cosa), però il regista, magnanimamente lo assolve lo stesso, rovesciando il giudizio della liquidatoria fenomenologia di Mike Bongiorno, buttata giù da Eco: da semplice uomo della strada televisiva a complicato uomo privato. Quindi pieno di conflitti irrisolti (a sua insaputa ovviamente). Che pena però.

Semplificando, se Eco sociologizzava, Bonito psicologizza.

Dal punto di vista dell’antropologia culturale (per parlare difficile), Mike Bongiorno fu un americano prestato all’Italia. Perciò un antifascista, non solo sul piano teorico, perché partecipò alla Resistenza, ma anche un uomo profondamente imbevuto di cultura individualista, meritocratica e mercatista.

Il che nell’ Italia dei fascisti, dei cattolici, dei comunisti, non poteva piacere. Cioè piaceva alla gente comune, poco politicizzata, che non si faceva troppi problemi, ma non all’intellettuale dolente, impregnato di anticapitalismo e antiamericanismo. C’è un passaggio in cui il padre di Walter Veltroni, Vittorio, allora funzionario Rai, puntualizza: “ Dunque un quiz educativo”.

Il punto è che negli anni Sessanta, quando finalmente la carne e l’idrolitina erano giunte sulla tavola di tutti (o quasi tutti), molti intellettuali (non Veltroni, che purtroppo era morto) si preoccupavano della sparizione delle lucciole.

Questi aspetti nel lavoro di Bonito sono ignorati. Qui, come anticipato, le carenze storiche del lavoro. Mike, con la sua mentalità, era una mina vagante in un mondo culturale come quello italiano che tuttora guarda con antipatia Zelensky, aggredito dai russi, che “vuole fare l’americano” e aprire all’economia di mercato. E infatti, come si scopre, anche nella fiction, la Rai bacchettona appena può prova a liberarsi di Mike. L’incompreso diciamo. O forse proprio fin troppo compreso e ritenuto pericoloso perché filoamericano e filocapitalista.

Il giornalista che nella fiction intervista Mike ha tutti i tic antieconomicisti e moralisti del dolente catto- socialista o catto-comunista. Che rivela a Mike, alla fine, quasi come viatico per il Paradiso Socialista, di aver combattuto nelle comuniste Brigate Garibaldi. Amen.

Perciò Bonito e De Mola sapevano e sanno come stanno le cose in Italia. Però non hanno attuato. Se non nella figura del giornalista giudice morale. Secondo il classico copione dell’italico arcaismo.

Si è evitato (non sappiamo se consapevolmente o meno) di risalire alla radice dell’arretratezza dell’intellettuale italiano, di sinistra e a dire il vero anche di destra : un mondo che si interseca e infetta, e che ancora oggi rimpiange Berlinguer, grande ammiratore del modello vietnamita fine anni Settanta del secolo scorso. O, visto che ora sono al governo, uno spirito reazionario come Almirante – non se ne può più  – che compunto si reca ai funerali di Berlinguer…

Dal viaggio intorno all’arretratezza italiana sarebbe venuto fuori non il conflitto interiore di Mike ( o comunque non solo), ma il conflitto tra un’Italia affamata di benessere, individualismo e modernità all’americana, e un’Italia che vedeva e vede nel denaro l’arcaico sterco del demonio e in Zelensky un “servo degli americani”.

Come appunto dicevamo, da Mike a Zelensky. Un’ Italia retriva che non cambia mai. E sul punto la fiction di Bonito e De Mola ha perso un’occasione d’oro.

Carlo Gambescia

mercoledì 23 ottobre 2024

Due anni di governo Meloni. Un “bilancio in nero”

 


I due anni di governo Meloni rappresentano una specie di traccia politica, abbastanza profonda, di una brutta strada lungo la quale l’Italia sembra incamminata. Se proprio si deve parlare di bilanci, quello Del governo Meloni è “in nero”. Un colore che non depone a favore dei prossimi tre.

Sembra incredibile, se si pensa alla rovinosa storia del fascismo, che Fratelli d’Italia, che del partito dei fascisti dopo Mussolini è l’erede, dopo quasi ottant’anni dal 25 Aprile sia di nuovo al potere.

Si scherzava un tempo sul morire democristiani. E invece ora si rischia di morire fascisti.

Si rifletta su un punto. Sotto l’aspetto della reincarnazione di un regime autoritario con il consenso dei cittadini, l’attuale situazione italiana, per ciò che riguarda gli ultimi due secoli di storia europea delle democrazie liberali, rappresenta quasi un unicum, “quasi” perché va considerata l’ eccezione della Francia di Napoleone III.

A dire il vero, un (quasi) unicum, che potrebbe durare poco, perché l’amnesia politica sembra fare proseliti in Germania e in Francia.

Pertanto il vero problema, come provano studi storici e ricerche politologiche, è che è tornato al governo un partito che crede nell'impensabile (almeno fino ad oggi): nell’ipotesi “minima” che il fascismo fu severo ma giusto, e in quella massima, che fu una meravigliosa avventura finita male per colpa dei capitalisti americani e dei comunisti russi. La famosa tesi, molto apprezzata dai neofascisti, della Vodka-Cola.

Pertanto soffermarsi a discutere sui risultati delle politiche pubbliche del governo Meloni, tra l’altro dagli esiti mediocri, è assolutamente inutile. Il vero nocciolo della questione è rappresentato dal concetto di democrazia plebiscitaria, racchiuso nella legge sul premierato, che il governo è intenzionato a portare avanti a ogni costo.

Semplificando i contenuti: il partito che vincerà le elezioni avrà un potere pressoché assoluto per cinque anni. Dal momento che il premier, eletto dal popolo, potrà essere rimosso solo dal voto popolare.

Va da sé che il Governo, gestendo un potere assoluto, potrà ridurre all’impotenza il Parlamento e alla semplice rappresentanza istituzionale il Presidente della Repubblica.

Infatti, il potere di scioglimento sarà saldamente nelle mani del Presidente del Consiglio, che minacciando di non rielezione i parlamentari (riottosi) della maggioranza, e tenendo sotto scacco i quattro gatti spelacchiati dell’ opposizione, potrà fare di tutto, eccetto, forse, che reintrodurre la monarchia.

Inoltre, grazie al collegamento con una nuova legge elettorale maggioritaria, attualmente allo studio del governo, capace di assegnare i due terzi dei parlamentari alla maggioranza, si sta lavorando per allontanare il pericolo della bocciatura referendaria. Insomma, si vuole chiudere il cerchio.

Siamo davanti a un principio-concetto dalla natura devastante. Pura dinamite costituzionale. Si pensi all’ esplosivo usato nelle cave di pietra. Qui però si tratta della pietra angolare della nostra Costituzione: il Parlamento.

Un concetto plebiscitario-dittatoriale ben spiegato più volte da Giorgia Meloni e da altri membri del suo partito: chi ha la maggioranza dei voti ha il diritto di governare indisturbato. Il ruolo del Parlamento, quindi della minoranza,viene praticamente ridotto a zero.

Altro che le chiacchiere di questi giorni sul cuneo fiscale, sul concordato con il contribuente, sull’età pensionabile eccetera. Qui, per la prima volta dai lavori dell’Assemblea Costituente, è in gioco il destino della democrazia parlamentare. Mai, ideologicamente parlando, si era perseguita  una riforma così radicale. E pensiamo alle precedenti 21 modifiche apportate  alla Costituzione. 

Qui, per la prima volta, il rischio è quello del doppione, ma moltiplicato per due, della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Quantomeno sul piano della passività politica.

Pertanto alla domanda sul bilancio dei primi due anni del Governo Meloni si deve rispondere che si stanno ponendo le basi politiche per la soppressione della libertà politica in Italia.

Purtroppo, stando ai sondaggi, l’elettore italiano non sembra aver capito l’importanza della posta in gioco. Fratelli d’Italia non è un partito “normale”.

Perciò il metro di giudizio non può essere quello per valutare  la “normale” dialettica tra progressisti e conservatori. Dove un esecutivo forte, per dirla alla buona, ci può anche stare. Fratelli d’Italia è un partito dalle radici fasciste che nulla ha imparato, nulla ha dimenticato.

Qui il problema.

Carlo Gambescia

(*) Qui altri nostri articoli in argomento: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=premierato .

martedì 22 ottobre 2024

Inclusione, esclusione e capacità ( o meno) della destra di governare

 


Al di là di tutte le questioni costituzionali e giuridiche, purtroppo all'ordine del giorno,  lo studioso di metapolitica non può chiudere gli occhi su quel che connota l’ascesa della destra sul piano mondiale.

Che cosa? L' incapacità psicologica di governare (*).

Il primo problema che una forza politica liberale si pone, soprattutto se di governo, è quello di capire l’altro: la sua diversità viene vista come un valore creativo. Qualcosa che arricchisce e unisce.

Per fare un esempio, Stati Uniti e Inghilterra sono un esempio di integrazione. Ovviamente, con inevitabili imperfezioni. Però quel che conta è l’animus per dirla dottamente. L’intenzione, il proposito, se si vuole la predisposizione mentale, psicologica, di apertura verso l’altro. Diciamo il bicchiere mezzo pieno, di un liberalismo che per crescere, svilupparsi e dare frutti è inevitabilmente inclusivo, psicologicamente inclusivo.

Sotto questo aspetto, la radice liberale della sinistra, per altri aspetti illiberale, rimanda comunque al concetto di inclusività. C'è  una predisposizione mentale all’ inclusione. Il che è positivo, e la differenzia in meglio dalla destra.

Per contro la destra, da quella conservatrice all’estrema destra nazi-fascista, rifiuta il concetto di inclusività del diverso, per celebrare l’esclusività di istituzioni incartapecorite fino al culto della razza in chiave materiale o spirituale.

Il fatto che oggi la destra parli di difesa dei confini e di regole che escludono il migrante non è altro che la riprova di questa incapacità psicologica. Di un bicchiere vuoto. Un’incapacità costitutiva che rischia sempre di tradursi come nel nazi-fascismo in ossessione: in un fenomeno psicopatologico.

Per capirsi: nella classica idea fissa, che nel nazionalsocialismo condusse all’eliminazione di milioni di ebrei. Una lucida follia politica. Dal momento che il pensiero ossessivo non esclude la razionalizzazione, anche tecnologica, dei mezzi rispetto al fine patologico che si vuole perseguire in chiave spesso ansiogena. Con la postilla, non secondaria, dell'ansia che si  traduce in nevrosi e la nevrosi in follia.

Il liberale accoglie, il conservatore (per non parlare del nazi-fascista) esclude. E dalla volontà patologica di esclusione deriva una visione etnocentrica della politica. Si pensi a espressioni, come “fare grandi” l’Italia, l’America, l’Ungheria, la Russia, eccetera. Esprimono plasticamente l’incapacità psicologica di relazionarsi verso chi non sia americano, italiano, ungherese, russo, eccetera.

Purtroppo, in ogni paese, esistono forze conservatrici esclusiviste, portate a scorgere il nemico, anzi ancora peggio (ecco la predisposizione), a tramutare in nemico chiunque sia diverso, rispetto alle razionalizzazioni, spesso mitologiche, di natura nazionalistica.

Al netto della propensione statalista, che purtroppo oggi caratterizza destra e sinistra, la destra, rispetto alla sinistra, non è inclusiva. Il che la rende incapace di governare in chiave liberale.

La prima metà del Novecento ha purtroppo visto quali sono le macabre conseguenze dell’esclusivismo psicologico. Di conseguenza, nella seconda metà del secolo, si è sviluppato, per giustificata reazione ai crimini esclusivisti, l’inclusivismo, anche come insieme di regole. Purtroppo, all’inizio del XXI secolo, si è aperta una nuova fase segnata dal ritorno dell’esclusivismo. Un processo regressivo che vede la destra farsi portabandiera delle forme più retrive di esclusione.

La nostra analisi dà come scontati due fatti storicamente comprovati: 1) che la storia è un succedersi di migrazioni, individuali e collettive, alle quali è inutile opporsi; 2) che i nazionalismi ottocenteschi, vera eccezione storica rispetto al punto 1), se non integrati con politiche inclusive di tipo liberale, rischiano sempre di tramutarsi in regimi tirannici o totalitari di tipo esclusivista. Per chiarire quest’ultimo concetto: il Risorgimento italiano si fondò sul “fare gli italiani” non sul “fare grande l’Italia ”, come invece poi pretese Mussolini.

Ciò significa che chiunque ami la libertà non può dormire sonni tranquilli ogni volta che sente parlare di difesa dei confini e di grandezza nazionale. Proprio quel che ora sta accadendo. E che purtroppo certifica la pericolosità di questa destra, psicologicamente incapace di governare in modo liberale.

Un’ultima cosa. Si dirà che questa destra, in ripresa ovunque, è comunque votata, e che quindi gode di ampio consenso, eccetera.

Ne prendiamo atto. In effetti è proprio così. Però, ecco il vero punto, un solo monomane resta un solo monomane, come in fondo era Hitler all’inizio della “carriera”, però due o tre milioni di monomani si trasformano in una forza politica.

Dopo di che sono guai.

Carlo Gambescia

(*) Sugli aspetti concettuali dei termini qui usati, ad esempio inclusività ed esclusività politica, rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio 2023, 2 voll.

lunedì 21 ottobre 2024

Brutto momento

 


Questa mattina vorremmo tornare ancora una volta sulla passività degli italiani, a proposito della pubblicazione da parte del “Tempo” di una mail privata scritta da un magistrato. Probabilmente carpita da una chat, altrettanto privata, storpiandone il senso solo per fare un favore a Giorgia Meloni, presentandola come una specie di eroina politica vittima della sinistra brutta e cattiva.   Oggi, “Il Tempo” pubblica altre mail , sempre carpite. La lapidazione della magistratura, come istituzione, continua...

Dicevamo della passività degli italiani: passività annunciata, frutto di un imbarbarimento populista che si manifesta attraverso forme di indifferenza nei riguardi dei  mezzi usati nella lotta politica, anche i più sporchi. “Tutto è ammesso, tutto è possibile”. Ecco la reazione tipica dell’italiano medio, reazione trasversale che prescinde dall’opzione politica. Ormai si pensa alla salvezza nel quotidiano. Se ci si passa l’espressione: ognuno per sé, di per tutti. Questa la triste realtà.

Il partito politico, da destra a sinistra, si è tramutato nella bambinaia di un elettore infantile, capriccioso e nevrotico, al quale, nel nome della democrazia emotiva, fondata sulla paura di perdere ciò che si ha, si forniscono, come giocattoli, capri espiatori, dal migrante all’ebreo, dall’atlantista al liberale. Ai quali presentare il conto come attentatori di una normalità che in realtà non è tale, perché Italia e Europa rischiano di assomigliare sempre più a una superfortezza, dalle fondamenta fragili, con zone comfort riservate soltanto agli europei e agli italiani. Una specie di nuovo regno, solo apparentmente incantato, dell’apartheid.

In questo contesto di ordinaria barbarie nessuno si è reso conto del gravità di un fatto: che Giorgia Meloni, cioè il Presidente del Consiglio, ha rilanciato una mail carpita a un magistrato. Una cosa che in un paese normale imporrebbe le dimissioni. E invece tutto tace. Del resto la stessa sinistra, maestra in queste tecniche tra il manipolativo e l’illegale (si pensi ai commenti carpiti alla stessa Meloni, su una chat dei deputati di FdI, finiti in rete e sui giornali), è restata zitta, per la serie, scagli la prima pietra, eccetera, eccetera.

Ripetiamo. Il fatto che il Presidente del Consiglio, e non un semplice hacker, si avvalga, pubblicamente, di una tecnica manipolativa, palesemente illegale, è un fatto che non ha precedenti, pur in un contesto politico a dir poco degradato, dove ormai tra i partiti volano solo palle di merda (pardon).

Ora che la sinistra taccia, come abbiamo detto, può anche essere “comprensibile”, ma resta cosa grave che ieri sera il solo a parlare di dimissioni sia stato chi scrive.

Esageriamo? Non si tratta di cosa grave? Ricordiamo agli smemorati politici di Collegno che Giorgia Meloni ha dietro di sé, non un normalissimo partito conservatore ma un partito dalle salde radici neofasciste. Che sulle palle di merda (di nuovo pardon) contro il parlamento e i partiti ha costruito, fin dai nonni (“Since 1919”), le sue fortune e sfortune degli italiani. Quindi la tecnica manipolativa e illegale è al servizio dei nemici della democrazia liberale.

Sembra di scrivere sull'acqua. Siamo davanti a un  diffuso  atteggiamento passivo,  persino negli analisti.  Un immobilismo, alla fin fine, crediamo, frutto  della paura di ritorsioni da parte di un governo che per ora sembra non voler arretrare davanti a nulla.

Brutto momento.

Carlo Gambescia

domenica 20 ottobre 2024

Tutto normale? Nessun pericolo fascista? Giudichi il lettore

 


Un lettore e amico, diciamo filogovernativo, ha fatto notare in privato, che esageriamo: Giorgia Meloni non è Hitler, i suoi ministri, a partire propri da Nordio, sono liberal-democratici, eccetera, eccetera.

Insomma la tesi è che ci scaglieremmo contro un governo liberale, commettendo un madornale errore di valutazione. Insomma, al potere sarebbero tornati Cavour e Giolitti, non Hitler e Mussolini o comunque dei volenterosi eredi dei dittatori.

Ovviamente, Giorgia Meloni, almeno a prima vista, non è Hitler, neppure Mussolini. Però una cosa è sicura, né lei né Nordio sono liberali. Sono l’esatto contrario. Proprio perché hanno una visione della politica di tipo autoritario e plebiscitario, visione che riconduce al subdolo fenomeno della “tentazione fascista”, tipico del periodo tra le due guerre novecentesche.

Pensiamo a una compiaciuta visione cesarista della democrazia, che, al di là di una astuta retorica populista, non intende concedere spazio al popolo né alla separazione dei poteri. Diciamo che si “usa” il popolo per altri fini: agguantare il potere e rimettere indietro le lancette della storia. Tramutare la tentazione in realtà.

Di Giorgia Meloni che continuamente evoca un “chiaro mandato popolare” abbiamo già detto (*). Quanto a Nordio, si legga cosa ha dichiarato proprio ieri a proposito dei giudici della sezione immigrazione di Roma.  I giudici, per capirsi,  che non hanno giustamente convalidato il trattenimento di alcuni migranti emesso dalla questura romana presso il centro di permanenza in Albania.

Se la magistratura esonda dai suoi poteri, come in questo caso, attribuendosi delle prerogative che non può avere, come quella di definire uno Stato sicuro, allora deve intervenire la politica perché la politica esprime la volontà popolare (…) Noi rispondiamo al popolo: se il popolo non è d’accordo con quello che facciamo andiamo a casa. Ma la magistratura, che è autonoma e indipendente, non risponde a nessuno e quindi proprio per questo non può assumersi delle prerogative che sono squisitamente ed essenzialmente della politica” (**).

A parte l’infelice idea che per essere indipendente un giudice debba chiudere gli occhi dinanzi alle persecuzioni della destra verso i migranti, l’idea che la politica, cioè il governo, esprima la volontà popolare, che invece, in una democrazia rappresentativa, appartiene al parlamento, a tutto il parlamento, quindi anche alle opposizioni, rinvia all’antiparlamentarismo fascista. Che una volta al potere ridusse il parlamento alla passiva camera di registrazione delle decisioni del governo.

Nordio, di fatto, trasferisce la sovranità, che, solo nominalmente continua ad appartenere al popolo, dal parlamento al governo.

E ciò non è assolutamente liberale. Anzi, ripetiamo, fascista. O se si preferisce un punto di forza della cultura della tentazione fascista, che portò acqua populista e reazionaria, prima, durante e dopo, alle dittature fasciste.

Un governo non può permettersi di  fare tutto perché ha vinto le elezioni, anche con il 99 per cento dei voti, dal momento che il rispetto dell’ 1 per cento è il sale delle liberal-democrazia, che non è dittatura della maggioranza, ma rispetto delle minoranze.

Inoltra suona derisorio quell’ “andiamo a casa”, opera del popolo, come asserisce Nordio. Dal momento che in cinque anni ( e non sarebbe la prima volta, e in modo massiccio dopo avvento di Berlusconi) si possono cambiare le regole costituzionali. E in senso reazionario.

Come del resto la destra sta mettendo in atto con la legge sul premierato di natura plebiscitaria e sulla riforma della magistratura, che da "ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere" (art. 104 della Costituzione) si vuole trasformare in organo dello stato sottomesso al potere politico, soprattutto sul piano disciplinare. Tradotto in una “istituzione” dello stato sottomessa al governo, dimenticando, perché non torna politicamente utile che la “giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101 della Costituzione), lo stesso “popolo” evocato con la  mano sul cuore  proprio da Nordio.

Antiparlamentarismo e controllo politico dei giudici, in particolare della magistratura inquirente,rinviano a una visione totalitaria della politica. La stessa visione di Hitler e Mussolini.

Esageriamo? E’ solo una pagliacciata, come dicono i tre o quattro fascisti duri e puri, in guerra contro tutti, anche con la “badogliana” Giorgia Meloni? Solo perché siede in parlamento? Sono le stesse  critiche dei cosiddetti fascisti di sinistra, fino all'ultimo alleati dei nazisti, rivolte a Mussolini dalla Marcia su Roma a Salò. Si può dare ascolto ai nazisti di ieri e di oggi?  Che se  solo potessero schiavizzerebbero il mondo libero?  E prendere la Meloni sottogamba?  No. 

Tuttavia, si dice (non solo i fiancheggiatori), oggi ci sono i social, le televisioni, la vita sembra continuare normalmente, si programmano aperitivi, cene,  viaggi, vacanze, ci si interroga sulla salute dei gatti, dei cani, del pianeta, di pensioni e anziani, di come organizzare il tempo libero. Tutto sembra scorrere normalmente. Di che preoccuparsi?

In realtà le cose stanno cambiando, e neppure così lentamente. Un tempo si diceva che l’Europa non avrebbe mai permesso, idem gli Stati Uniti, la Nato, eccetera, eccetera. Ora in Europa si guarda all’Italia come a un felice esperimento politico. Il populista Trump potrebbe vincere. Putin, anche se ammaccato, resta comunque minaccioso. La Cina penetra ovunque. E per contro Netanyauh viene considerato un nazista.

Giudichi il lettore.

Carlo Gambescia

(*) Qui il lettore troverà su Giorgia Meloni tutto il materiale che desidera consultare: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=giorgia+meloni .
(*) Qui: https://www.adnkronos.com/cronaca/migranti-albania-sentenza-tribunale-roma-nordio_2GgZnd2JCCxnidcqfPr9pm .

sabato 19 ottobre 2024

Giorgia Meloni e i giudici. Sulle orme di Hitler

 


Una delle tragedie della Germania nazista fu la sottomissione a Hitler, non solo delle imprese industriali e dello stato maggiore, ma soprattutto della magistratura, che inflessibile, applicò, solo perché erano leggi entrate vigore, quindi diritto positivo, tutte le vergognose misure nazionalsocialiste contro oppositori politici, ebrei e altre minoranze.

Lo stato di diritto tedesco sparì sotto i colpi dei decreti hitleriani. Venne svuotato, perdendo  l' orginale ispirazione liberale.  Si agiva in base alle legge,  ma secondo la ratio nazista. E i giudici, lasciati politicamente soli, tacitarono le proprie coscienze, nascondendosi dietro l’impero "legale" della legge, a prescindere dalle sue fonti, chiaramente "illegittime" (la dittatura nazista).  Del resto con Hitler non si scherzava. I pochi giudici che dissero no furono deposti e imprigionati.

Non fu una bella pagina. Finita tra l’altro con una guerra mondiale e un genocidio.

Cerchiamo di farne tesoro. E per una importante ragione. Perché la trascorsa sudditanza, più o meno coperta dal diritto del giudice tedesco, ci aiuta a inquadrare la scomposta reazione del Governo Meloni ai giudici della sezione immigrazione di Roma che non hanno giustamente convalidato ( nessun paese può essere definito “sicuro”, a cominciare dall’Italia da quando è al potere l’estrema destra) il trattenimento di alcuni migranti emesso dalla questura romana presso il centro di permanenza in Albania.

Meloni ragiona come Hitler, non vuole “intralci da parte dei giudici” (testuale). “Behinderung durch die Richter“ per dirla con il dittatore nazista. Rivendica il potere politico assoluto, su tutto e tutti, evocando sistematicamente il paravento ideologico del “chiaro mandato” popolare. Proprio come Hitler, come se il giudizio elettorale del popolo, perseguito con ogni mezzo, fosse il giudizio di dio. Il che non può essere, almeno per chi abbia studiato a fondo Aristotele e Machiavelli.

Fortunatamente, lo stato di diritto, almeno per ora, ancora esiste ( e resiste) in Italia, sicché Giorgia Meloni è costretta a mordere il freno. Non può arrestare i giudici. Perciò la battaglia, come deve essere in uno stato liberale, sarà di tipo legale. Però, dietro le quinte, su quei giudici sarà esercitata dal governo una pressione fortissima, ai limiti della legalità. Si sta tentando, come del resto prova la riforma della magistratura, di svuotare dall’interno lo stato di diritto. Quindi serve una risposta politica. Di principio.

Purtroppo, come abbiamo scritto più volte, la tentazione fascista aleggia intorno a Fratelli d’Italia. Anche gli alleati di governo ( da un bruto come Salvini a un personaggio incolore come Tajani) sono per le maniere forti contro i migranti. La stessa sinistra, ormai in confusione, sostiene una politica dai risvolti inquietanti perché dice sì ai Centri se situati in Italia.

Quei giudici rischiano la solitudine del giusto. E non vanno lasciati politicamente soli, come purtroppo avvenne nella Germania nazista. La battaglia sui migranti, non è solo una battaglia legale su questioni di definizioni giuridiche e di lagnosa accoglienza welfarista, non concerne i mezzi, cioè norme, regolamenti, cerotti, merendine e saponette, ma riguarda i fini, i principi, uno in particolare: la libertà.

Nel senso che ognuno di noi deve essere considerato libero di vivere dove meglio crede. Ubi bene, ibi patria. Questa deve essere la parola d’ordine per ogni vero liberale.

Dietro il no dei giudici si profila un gigantesco scontro politico in difesa della libertà di movimento. Come fu quello contro Hitler: da una parte gli eredi dei nazisti, che difendono l’idea di sangue e suolo, pur usando un linguaggio corrotto e mellifluo, dall’altra chi difende a chiare note la tradizione liberale del libero scambio di uomini, idee, beni.

Si cerchi di non commettere gli stessi errori politici.

Carlo Gambescia

venerdì 18 ottobre 2024

Perché la destra odia Saviano?

 


Alessandro Campi ha avuto un malore in Germania, dove si trovava per l’inaugurazione della Buchmesse. Ora sta meglio.

Quel che però colpisce, diciamo sociologicamente,  è che appena rimessosi ha scritto sulla sua pagina Fb, per dirla da verbale dei carabinieri, quanto segue:

Cari amici, care amiche, grazie per il calore, la premura e la vicinanza (…). Se volete la versione ironica, il mio improvviso malore a Francoforte, subito dopo l’inaugurazione delPadiglione Italiano (peraltro splendido), è stato causato dalla lettura dell’intervista a Roberto Saviano, che verrà alla Buchmesse – parole sue – “come atto di resistenza”. A chi? A che cosa? Verrà semplicemente a fare la parte del martire della politica che non è e della vittima per le sue idee che nessuno perseguita. E magari da queste parti qualcuno gli crederà anche” (*)

Sono parole emblematiche. Di cosa? Di un automatismo mentale, qualcosa di irriflessivo. Perché la “versione ironica” è stata subito ripresa a soffietto dalla stampa organica alla destra meloniana, con rapidità e  toni diremmo, "automatico-simpatetici". A sinistra, per ora, non si è registrata alcuna reazione, a cominciare da Saviano. Probabilmente per un combinato diposto tra il rispetto per le condizioni di salute di Campi e la pigrizia mentale.

Per quale ragione la destra ridicolizza uno scrittore che vive sotto scorta da quasi venti anni perché nel mirino della Camorra?

Parliamo di un intellettuale che con Gomorra è entrato nella lista dei condannati a morte stilata dalla Camorra. Sappiamo di usare parole forti, ma per la Camorra, Saviano è un morto che cammina. Come si può ironizzare su un condannato, e per giunta ingiustamente e vergognosamente,  alla pena capitale?

Pertanto il vero punto della questione è la reazione pavloviana della destra. Il fatto sociologico non quello individuale.

Perché, ripetiamo, tutto quest’odio?

Saviano non è di destra? Non piace perché è antifascista e non smette di ricordarlo? Ma non è proprio la destra a parlare di “cultura nazionale”? Dicitura oggi preferita al posto di “cultura di destra”? E cosa c’è di più antinazionale della Camorra?

Antifascismo. Qui il problema è di Fratelli d’Italia, che evidentemente ha più di uno scheletro nell’armadio. Inoltre, sempre a proposito della cultura nazionale, come non si può non considerare un valore comune, quindi nazionale, uno scrittore celebrato all’estero?

Forse perché i panni sporchi si devono autarchicamente lavare in Italia? E quindi Saviano avrebbe il torto di aver venduto in tutto il mondo milioni e milioni di copie di Gomorra?

In fin dei conti, i corifei massmediatici della destra meloniana odiano Saviano per una ragione molto semplice. Non è dei “loro”. Se solo cedesse ( si pensi a un romantico tête-à-tête, come per Musk, con Giorgia Meloni), sarebbe accolto, ovviamente per i soliti ordini dall’alto, a braccia aperte. Tramutandosi, come per magia, in uno dei cardini della “cultura nazionale”.

Però a destra si sa bene che ciò non potrà mai avvenire. Di conseguenza Saviano rappresenta una specie di capitolo chiuso del Libro Nero della destra: un morto che cammina.

Carlo Gambescia

giovedì 17 ottobre 2024

Barbero, il populista cognitivo va in pensione…

 

La notizia buona è che Alessandro Barbero ha scoperto la burocrazia universitaria (*) . Ora che va in pensione. Bah…

Quella cattiva, che d’ora in poi, godendo di tempo libero, sarà ancora più invasivo come divulgatore storico. Se il pensionato standard si accontenta di osservare i lavori stradali, il pensionato fuori misura diciamo, si dedicherà, alla storia dei lavori stradali narrata al popolo. Insomma siamo fritti.

Oltre al vederlo piroettare su YouTube, di Barbero, abbiamo letto un romanzo, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, così così (una mezza salgarata), e teniamo, a distanza di sicurezza, sullo scaffale, il Dizionario del Medioevo , scritto con Chiara Frugoni, un lavoro mediocre, semplice per gli studiosi, semplicistico per i non addetti.

Si dirà, pochino per giudicare… Diciamo che abbiamo un certo fiuto. Inoltre il lettore penserà: Gambescia è invidioso, lui i libri li vende con il contagocce, Barbero a palate.

Non è così. Se Barbero ha questa capacità di farsi capire dal popolo, siamo contenti per lui. Però si fa capire troppo. La sua “missione”, proprio perché divulgativa, nel senso dell’accessibilità a tutti, rischia di vendere e trasmettere illusioni. In particolare quelle che la storia non abbia segreti e, cosa peggiore, che sia sempre uguale a se stessa.

Il problema non è il mezzo ma il fine. Per capirsi: il problema non è Barbero, ma il concetto Barbero. Detto altrimenti il concetto di divulgazione. Di una certa divulgazione. E spieghiamo perché.

Il sapere divulgativo è un non sapere. Perché il sapere è difficile, e non è per tutti: servono doti intellettuali, volontà di applicarsi, e soprattutto la consapevolezza che le cose sono difficili da capire e che non ci sarà mai una risposta a tutto.

In linea di massima, la divulgazione è l’esatto contrario della scienza: semplifica. Cosa che vale per il divulgatore, per il divulgato e per il fruitore di divulgazione. La semplificazione, anche se ben fatta, è tale: facilita. Penalizzando lo sviluppo, quando ci sono, delle facoltà intellettuali, il duro lavoro applicativo e soprattutto il senso di complessità delle cose.

Perché la realtà, a partire da quella storica, è complessa. Qui il punto fondamentale. La divulgazione è una forma di populismo cognitivo: fornisce riposte semplici a problemi complessi. E in qualche misura Barbero, volente o nolente, è il Salvini della situazione.

Alziamo il tiro cognitivo. Alla base del sapere divulgativo storico c’è l’analogia, cioè la relazione di somiglianza tra alcuni elementi costitutivi dei fatti storici, in misura tale da favorire la deduzione mentale elementare di un certo grado di somiglianza tra due fatti anche storicamente lontani tra loro.

Per capirsi, l’analogia buona (che del resto è una normale tecnica cognitiva) è quella che fa capire, in termini di regolarità metapolitiche, che alcuni processi si ripetono (conflitto e cooperazione, ad esempio), ma con contenuti diversi. Per contro l’analogia cattiva, insiste sulla ripetizione dei processi e dei contenuti. Di qui Cesare uguale Napoleone, Augusto uguale De Gaulle, Cola di Rienzo uguale Mussolini, Luigi XIV uguale Hitler, Ivan il terribile uguale Stalin.

Ora, la retorica di un Barbero è più ricca, però nel fruitore della divulgazione, che non è un altro storico come Barbero, la cattiva analogia viene immediatamente promossa a verità storica e sociologica.

Pertanto la divulgazione fa più male che bene. Non sempre però. Ad esempio il lavoro di Mieli sui Rai Storia è eccellente: storici in studio, lessico mai banalizzato e soprattutto bibliografie, minime ma bibliografie.

Il distacco, tra la storia seria è la divulgazione è proprio nella bibliografia. Diciamo nel concetto di bibliografia. Che serve per capire come su un determinato argomento la storiografia (che poi è il mondo degli addetti ai lavori), non abbia mai in serbo risposte semplici e univoche. La bibliografia, se non si è dotati di anima scientifica a prima vista appare come un ponte tibetano sospeso sull’abisso. Può sgomentare. Ma non coloro che non si accontentano di risposte semplicistiche. In una parola: populiste, cognitivamente populiste.

È vero che Barbero talvolta indica cose da leggere, eccetera, però il suo punto di partenza è sempre la risposta semplice. Il che non incuriosisce e non aiuta l’approfondimento.

Si dirà, ma allora Piero Angela, il re, e giustamente, dei divulgatori scientifici? Angela è sempre stato un divulgatore, sui generis, una specie di Mieli in ambito scientifico. Si leggano le sue innumerevoli interviste. Ha sempre dichiarato che le cose sono complesse e che non esistono risposte semplici. Angela non lo si può definire un populista cognitivo. Magari gli si può rimproverare qualche piccolo cedimento, ma solo ogni tanto.

Insomma la divulgazione sta alla società di massa come il sapere scientifico alla società di élite. La vera divulgazione è quella che mette in collegamento le due società, mantenendo ferme distanze e differenze.

Come? Mettendo il lettore davanti al ponte tibetano della bibliografia. Cosa che chi scrive scoprì all’università (allora la pseudocultura delle slide fortunatamente non esisteva). La bibliografia, come il dio manzoniano, affanna e consola. E soprattutto ripetiamo ci mette davanti alla complessità del sapere storico. E di ogni altra forma di sapere.

Bisogna sempre accostarsi con rispetto. Guai ai facili giudizi. Quelli purtroppo toccano ai politici. Ma questa è un’altra storia.

Concludendo, abbiamo citato, di Barbero, il Dizionario del Medioevo. Contiene ricche illustrazioni, non poche per una pubblicazione economica, ma neppure una linea di bibliografia…

Carlo Gambescia

(*) I non abbonati a “La Stampa” leggano qui: https://www.rainews.it/tgr/piemonte/articoli/2024/10/e-alessandro-barbero-va-in-pensione-addio-universita-del-piemonte-orientale-6246fba4-8e86-4ba2-89ff-266c3977f6c3.html