martedì 30 aprile 2024

Il complesso di Nicola Bombacci

 



Chi era Nicola Bombacci? Un attimo di pazienza. Prima una piccola premessa.

Che l’ Italia sia politicamente anormale e refrattaria al liberalismo non è una nostra idea fissa. È realtà.

Oggi su alcuni giornali si commenta, e positivamente, che Ignazio La Russa, “sotto lo sguardo benedicente della leader di FdI, abbia chiamato la standing ovation per Enrico Berlinguer, e [che] la platea meloniana a Pescara si sia spellata le mani in onore del mitico segretario del Pci (*).

Altro argomento che ritorna spesso, non solo in questi giorni, soprattutto sui giornali fiancheggiatori del governo (e sono tanti), è quello dell’omaggio che Giorgio Almirante rese al feretro del leader comunista. Poi ricambiato da Pajetta quando morì Almirante. Si legge anche di un rapporto privato intenso tra Almirante e Berlinguer. Fuori le prove… Ma lasciamo stare i pettegolezzi politici a mezzo servizio della “normalizzazione” meloniana.

Il vero problema è che fascisti e comunisti non sono spariti, come capita di leggere sulla stampa filogovernativa, ormai debordante e sicura di sé, al punto di irridere chiunque non incensi la leader di una estrema destra che in realtà nulla ha dimenticato nulla ha perdonato.

Nel leggendario e simbolico connubio Berlinguer-Almirante, al di là dei bassi interessi di “cucina politica”, Fratelli d’Italia scorge la figura del militante duro e puro.

Lo chiameremo il complesso di Nicola Bombacci, prima socialista, poi comunista, infine fascista, al punto di essere fucilato a Dongo con Pavolini fascista invece a vita. Ma sempre militante, al di là di cambiamenti di casacca, con il coltello tra i denti.

Per capirsi: questa gente di destra è così confusa, ma ostinata  nel suo  cupo odio politico contro l’ idea liberale, che adora immaginare Berlinguer fucilato al fianco di Almirante. Come Bombacci. Tre militanti in un colpo solo.

Altro aspetto interessante. La figura del militante rimanda alla figura del nemico non dell’ avversario. Perciò  siamo lontani  dal liberalismo che invece privilegia il concetto di avversario:  chi può avere idee differenti ma che proprio per questo è necessario – quindi deve esistere – al confronto liberal-democratico delle opinioni. Opinioni, si badi,  non verità, magari assolute.

Giorgia Meloni, Ignazio La Russa continuano invece a ragionare sulla base del nemico, con il quale si può anche essere cavallereschi, ma che resta tale.

Ciò significa che con il nemico si può solo trovare un accordo temporaneo: un armistizio. Si possono sospendere le ostilità. La guerra può però sempre riprendere perché il nemico, se tale, deve essere combattuto fino alla sua eliminazione.

Per capirsi: l’avversario resta, perché parte di una dinamica inclusiva, il nemico deve invece scomparire, perché parte di una dinamica esclusiva.

Si dirà che anche la sinistra,in versione Schlein e Conte, resta tuttora ancorata all’idea di nemico. Giustissimo. Qui si torna al comune elemento giacobino che rinvia alla dittatura della verità, condivisa da ex missini ed ex comunisti ( e populisti aggregati). Ex si fa per dire. Tutti insieme ritengono di essere dalla parte giusta della verità storica. Zero dubbi. Proprio come i giacobini.

Ecco qual è la tragedia dell’Italia: il rifiuto della dinamica liberale distinta invece da una lotta politica tra persone normali, fallibili, imperfette, che rifiutano l’idea di avere il segreto della storia umana in tasca, come ritenevano Robespierre, Lenin, Mussolini, altrimenti non si sarebbe alleato con un  tipo messianico come Hitler, e Bombacci. Ma anche Berlinguer e Almirante, che non hanno mai rinunciato all’immaginario comunista e fascista. Ora, e il cerchio si chiude, celebrati da Giorgia Meloni e Ignazio La Russa.

Si legga, di seguito, quanto scriveva Luigi Salvatorelli, veramente profetico nelle sue analisi a caldo del fascismo, nel lontano 1921.

“ Ebbene la psicologia di codesti violenti – fascisti o comunisti – è quella del dogmatico intollerante che si crede l’unico possessore della verità unica e dell’unico valore morale. Gli avversari per lui non sono soltanto della gente che la pensa in maniera diversa da lui, ma dei pazzi, degli scellerati, piuttosto un miscuglio di pazzia e di scelleratezza. Ora, ad un pazzo si mette la camicia di forza; un delinquente, lo si consegna alla forza pubblica, lo si chiude in prigione, o, se tutto ciò non si può fare o non basta per proteggere sene, lo si rende innocuo magari uccidendolo. La mentalità del dogmatico intollerante è precisamente l’opposto della mentalità liberale, che non riconoscendo un verità bell’ e fatta, una volta per sempre, data in custodia a pochi privilegiati, ammette come legittima ed inevitabile la differenza di opinioni, il contrasto delle idee, dalla cui lotta uscirà la decisione” (**).

Il ministro Sangiuliano, noto analfabeta politologico, lancerà prossimamente a Roma una mostra dedicata ad Antonio Gramsci. Altro brutto segnale.

Gramsci, che fu imprigionato dal fascismo, non era un agnellino riformista, ma un rivoluzionario duro e puro. Le sue pagine, pur ricche di  spunti, rivelano quella mentalità dogmatica e intollerante ben ricostruita da Luigi Salvatorelli.

Insomma un militante, Sangiuliano, che ha le stesse radici missine della Meloni, zarina dei militanti, celebra un altro militante, Gramsci, con radici ideologiche diverse ma altrettanto velenose. Diciamo pure una bella rimpatriata.

Conclusioni? Non finirà mai. O se finirà, finirà male un’altra volta.


Carlo Gambescia

 

Foto di copertina: Nicola Bombacci (1879-1945)

(*). “Il Messaggero”, capofila, da sempre, del conformismo filogovernativo, ora è diventato meloniano, anche nelle sue penne migliori. Si veda qui: https://www.ilmessaggero.it/politica/l_applauso_berlinguer_riporta_un_altra_politica_quel_rispetto_nemici-8085948.html?refresh_ce .
 

(**) Luigi Salvatorelli, Nazionalfascismo (1923), Einaudi, Torino 1977, p. 66. Un saggio illuminante.

lunedì 29 aprile 2024

Giorgia Meloni, il fascismo e la psicologia di massa

 




Se fascista, a prescindere da tutto, è chi fa appello alle forze profonde che agitano le masse, allora Giorgia Meloni è fascista.

Cosa si intende per forze profonde? La forza della suggestione di massa. Cioè il puntare apertamente e politicamente su sentimenti come l’odio, l’angoscia, la paura. Sentimenti contagiosi che diventano tanto più potenti se condivisi a livello collettivo, quando le sensazioni si generalizzano e intensificano. Insomma, vietato ragionare. Il che implica l’enorme sviluppo del ruolo di un capo carismatico in grado di comunicare, o meglio ipnotizzare la massa, per portarla dove desidera, come un pastore il suo gregge. Metafora facile, quest’ultima, ma efficace.

Gli ultimi, a usare sistematicamente le forze profonde, furono i fascismi. Il che spiega la nostra definizione. Tra l’altro Giorgia Meloni, per sua stessa ammissione, ha salde radici missine, quindi fasciste, come provano i suoi elogi del Movimento Sociale Italiano, che non fu altro che il partito dei fascisti dopo Mussolini.

Si leggano questi due passaggi tratti dal suo intervento di ieri a Pescara:

“È arrivato il momento di alzare la posta, facciamolo ancora l’8 e 9 giugno insieme, cambiamo l’Europa. Non mi interessano i sondaggi, non mi interessano le ricostruzioni interessate degli osservatori. Mi interessa solo il giudizio dei cittadini ed è un giudizio che rispetto e rispetterò sempre”.

“Chiederò agli italiani di scrivere il mio nome di battesimo – annuncia a dirigenti e militanti di FdI radunati a Pescara – La gente continua a chiamarmi Giorgia. Mi hanno chiamato in tutti i modi per offendere le mie origini: pesciarola, fruttivendola, borgatara. Quello che non hanno mai capito che io sarò sempre fiera di essere una persona del popolo. Ecco, se volete dirmi che ancora credete in me, scrivete sulla scheda semplicemente Giorgia” (*).

Si noti subito il disprezzo per la mediazione, quindi per l’uso della ragione, (“non mi interessano i sondaggi, non mi interessano le ricostruzioni interessate degli osservatori”).

In realtà, il “giudizio dei cittadini”, al quale si appella Giorgia Meloni, non è tale. Soprattutto quando ridotti a massa decerebrata di “credenti” (“se volete dirmi che ancora credete in me”), perché invitati, ripetiamo, a non usare la ragione ( le “ricostruzioni”). Il cittadino, evocato dalla Meloni, è tutto eccetto che il cittadino bene informato, pilastro della civiltà liberale.

A questa nullificazione collettiva della ragione si affianca, di necessità, l’appello al capo carismatico: lei stessa, “Giorgia”, che si auto-identifica in “persona del popolo”. Altri politici hanno invitato in passato ad essere votati per nome proprio (ad esempio Marco Panella…), ma non  nel  fuorviante contesto dettato da una pericolosa suggestione di massa, come nel caso della Meloni. Che non è mai stata iscritta, è bene ripeterlo, a un partito demo-liberale come il partito radicale. Insomma non è al di sopra di ogni sospetto. Anzi…

Oltre all’uso delle forze profonde, affiora quell’ipocrisia che fu tipica del fascismo dei telefoni bianchi: il godersi la vita, al riparo dalle masse incensate dal famigerato balcone. Il “duce degli umili” , per primo, visse nella lussuosa villa Torlonia, per la modica cifra di una lira all’anno.

Stando al quotidiano “Domani”, Giorgia Meloni, nel giugno del 2023, si sarebbe comprata in zona Torrino (a due passi dall’Eur) “una villetta di 350 metri quadri con annessa piscina, acquistata per oltre un milione di euro” (**).

Per carità, non si tratta di Villa Torlonia. Né di pochi spicci. Che, tra l’altro, Giorgia Meloni ha tirato fuori di tasca propria. Inoltre ognuno di noi è libero di vivere come e dove vuole. Ci mancherebbe. Però, ecco, non è proprio uno stile di abitazione da “persona del popolo”, come si autodefinisce la Meloni.

In questi giorni si è molto polemizzato sui Social (e altrove) sulla foto a testa in giù di La Russa, pubblicata dall’attore Riondino. Qui purtroppo, la sinistra, come sempre esagera. Piazzale Loreto, non fu sicuramente una bella pagina.

Perché invece di puntare sulla truculenza, non ricorrere a un sano e spiritoso fotomontaggio? Come ai tempi de "Il Male”, quando la sinistra era capace di satira vera. Nel 1978  fece epoca  la finta prima pagina di "Paese Sera", quotidiano  allora vicino al Pci, su Ugo Tognazzi, “capo del brigate rosse”, ammanettato. Oggi si chiamano fake news e fanno ridere di meno (ma questa è un’altra storia…).

Si pensi però, ad esempio,  a un La  Russa, invece che “a foto in giù”, tra due carabinieri accusato di uno spartano  furto di merendine. Non di un demopluto  flacone di profumo Chanel.

Insomma, lasciamo il duce riposare in pace. E soprattutto non si evochi la violenza. Cadendo nella trappola della psicologia di massa del fascismo. E di Giorgia Meloni. Tra l’altro abilissima a presentarsi come la sana  popolana vittima  di una sinistra snob.

Certo, i tempi sono duri, una risata difficilmente seppellirà questo governo. Però forse i carabinieri…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.secoloditalia.it/2024/04/meloni-lancia-da-pescara-la-sfida-per-bruxelles-scrivete-giorgia-portero-in-ue-il-modello-italiano/ .

(**) Qui: https://www.editorialedomani.it/fatti/giambruno-inchiesta-sui-servizi-ora-meloni-teme-il-complotto-rjbar7m7?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR3BleA9KiNqgbLcHXiM4W .

domenica 28 aprile 2024

Non solo Vannacci. Altri militari verranno

 


Chiunque mastichi qualcosa di metapolitica, sa benissimo che un militare, soprattutto se di carriera e di grado elevato, si è formato all’interno di un gruppo sociale che crede fortemente nei valori gerarchici, quindi antiegualitari.

Per estensione concettuale, un esercito, se vuole vincere, deve essere meritocratico, e la meritocrazia mal si accorda con l’egualitarismo e il pietismo sociale.  La meritocrazia presuppone la gerarchia: cariche gerarchiche  e funzionali   da assegnare sulle basi del merito. Quindi delle abilità non delle disabilità.  Così, piaccia o meno,  ragionano i militari: secondo un' ottica funzionale non morale.   

Inoltre un esercito  deve usare le maniere forti.  Di conseguenza  più si scende nella sfera militare, più spiccano i rozzi comportamenti antiegualitari, perché nei gradi meno elevati, per non parlare della truppa, viene meno, quella leggera mano di vernice sociale (buone maniere, innanzitutto), che rimanda ai titoli di studio, alle frequentazioni, alla voglia di far carriera, eccetera, eccetera. Insomma, in qualche misura, al venire a patti con il mondo esterno, civile, non militare.

Allora perché meravigliarsi di quanto ha dichiarato ieri il generale Vannacci sulle classi differenziate per disabili? Un militare, anche se liberale e democratico (per esasperare il concetto), imporrà l’eguaglianza sulla punta delle baionette. Con le maniere forti. A prescindere.

Come prova del resto la grande esperienza napoleonica, che è alle origini del militarismo di sinistra, che, facendo forza su stesso, accettava l’eguaglianza, ma volle imporla non solo con la forza dei codici. Si potrebbe parlare di dittatura (napoleonica) dell’eguaglianza. Certo, post rivoluzionaria, quindi mitigata dai compromessi del potere. Resta però tuttora un elemento giacobino nel militarismo. Esercito, si dice, al servizio della nazione. La diseguaglianza resta ma è proiettata verso l’esterno.

Se poi un militare ha sposato idee di destra, la filosofia militare e quella politica combaceranno perfettamente. Le maniere forti saranno poste al servizio della diseguaglianza. Sotto questo aspetto Francisco Franco resta un ottimo esempio, anzi macroesempio, a destra. Mentre, come detto, Napoleone lo è a sinistra. Il micro-caso, del generale Vannacci invece “combacia” a destra.

Il problema non è quel che dice (o comunque non solo) il generale spezzino. Si tratta di un problema, più generale, di approccio alla realtà da parte di un gruppo sociale (i militari) fortemente istitituzionalizzato (bandiere, divise, tradizioni, status e ruolo sociale) che rinvia: a) a una concezione gerarchica della vita interna e/o esterna ; b) alla logica della forza come unico mezzo di affermazione di a).

E, detto per inciso, si lasci da parte tutta la zuccherosa vernice pacifista sui militari al servizio della pace. L’esercito è forza organizzata al servizio della guerra, cioè della distruzione parziale o totale del nemico. O è questo o non è. I pacifisti confondono, intenzionalmente o meno, il corpo dei pompieri con quello dei granatieri.

Pertanto un militare, che cambi improvvisamente professione, passando addirittura alla politica, rappresenta una potenziale mina vagante per la liberal-democrazia, che invece trasforma il nemico in avversario da convincere con le buone. Ma anche per le concezioni egualitarie della vita sociale, come prova il brutale (dal punto di vista civile)  atteggiamento di Vannacci, quasi da manuale di sociologia militare.

Come ha potuto il generale imporsi in politica? E peraltro così rapidamente?

In Italia la politica come nobile professione è in crisi da almeno trent’anni. Il politico viene giudicato una zavorra, un costo, se non peggio, per la società. Di qui il guardarsi intorno, non solo dell’elettore, verso altri ambiti, in particolare tecnocratici.

Se ci si passa la distinzione tra magia bianca e magia nera, Monti e Draghi sono due ottimi esempi di tecnocrazia bianca, economica. Mentre Vannacci, rinvia alla tecnocrazia nera. E si badi: potrebbe essere solo il primo esemplare di una nuova specie di tecnocrati, non più con cattedra, ma con le stellette.

Perciò, come dice un vecchio proverbio, chi è causa del suo mal pianga se stesso. E qui dovrebbe essere la politica a piangere amare lacrime. Per decenni si è fatto a gara tra i partiti a tirarsi palle di merda populista (pardon) e questi sono i risultati.

Ripetiamo: per ora, siamo dinanzi al timido inizio di un potere con le stellette. Il clima di guerra non aiuta, perché, mette in risalto, socialmente parlando, il ruolo dei militari: li rende popolari.

Come pure non aiuta il ritorno delle destre da sempre in sintonia con il militarismo. Ferma restando una cosa: che il populismo ha fatto terra bruciata intorno ai politici. Perciò anche per la sinistra non è facile ripartire da zero, perché ha contro di sé: 1) i militari, 2) i politici di destra, e 3) quel populismo diffuso antipolitico, che essa stessa ha contribuito a creare negli ultimi trent’anni.

Concludendo, non solo Vannacci. Siamo solo alle prime prove tecniche di tecnocrazia militare. Il generale spezzino è il battistrada. Altri verranno.

Carlo Gambescia

sabato 27 aprile 2024

“Confusione, confusione, sei figlia della solita illusione”

 


L’istantanea di quest’ Italia, dai dibattiti stralunati, confusa e confusionaria, si può cogliere, come se esistesse una specie di polaroid ideologica, in Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia, presidente della Commissione Cultura e Editoria della Camera e Responsabile Nazionale cultura e innovazione di Fratelli d’Italia,  di professione comunicatore ed organizzatore culturale.  L'attimo da immortalare, per così dire,  è  quando replica, sdegnato,  asserendo che  “noi – contro ogni elitarismo – saremo sempre dalla parte del popolo italiano ed europeo” (*). 

Piccolo inciso paesaggistico, diciamo con rovine. Forse sbagliamo, quindi ci scusiamo in anticipo, prontissimi a ritrattare,  ma di lui ricordiamo un "debenoiste",  invece di "debenuà". Però, come diceva Raymond Aron  di un certo intellettuale francese,  se uno è  cretino e conosce cinque lingue, è un cretino poliglotta. Quindi, anche ammesso che la memoria non ci inganni,  si può sbagliare una pronuncia ed essere intelligentissimi e preparatissimi. Ci mancherebbe altro.

A chi replica Mollicone? Perché l’istantanea ha due “protagonisti” in primo piano.

Al nemico principale, almeno in questo momento, della destra meloniana: Antonio Scurati, romanziere, storico, critico, professore, pluripremiato. E soprattutto “antifascista”. Una cosa, secondo Giorgia Meloni, ormai passata di moda: “ Ma de che? Me state a chiede conto de cose capitate ottant’anni fa. Chiedete a quelli de sinistra, envece. Ariannaaa, stacca er telefono, e vie’ de qua”.

Sicché Mollicone, manco fosse Starace (non Storace), impone a Scurati di chiedere scusa al pubblico del Tg1, bollato  come composto di “persone anziane, con scarsa istruzione e quindi con scarso senso critico” (**) .

Ora, che i Tg siano seguiti in misura maggiore dagli anziani è fatto sociologicamente acclarato (***). Tuttavia – e qui la tiratina d’orecchie è per Scurati – sembra che questi anziani, scolarizzazione bassa o meno, ultimamente, come le famose galline, siano in fuga dai Tg pubblici, soprattutto dopo la notevole sterzata a destra. Insoddisfatti evidentemente della qualità informativa (****).

Il che non sembra deporre in favore di una destra "dalla parte del popolo" che rischia invece, stando agli ascolti,  di parlare, “televisivamente”, a se stessa. Del resto – e qui la tiratina d’orecchie è per Mollicone – un nietzschiano dichiarato come lui (*****), di popolo probabilmente ne capisce quanto Scurati.

Dicevamo un dibattito stralunato: da una parte un elitario seguace di Nietzsche, che dice cose populiste, dall’altra un democratico e antifascista, che dice cose elitarie. Come faceva quella canzone di Lucio Battisti? “Confusione, Confusione, Mi dispiace, se sei figlia della solita illusione e se fai confusione, confusione”.

Per fortuna il popolo sembra avere le idee chiare e cambia canale o addirittura spegne la televisione. Cioè sembra non fidarsi né di Mollicone né di Scurati.

Il che può essere un buon inizio.

Carlo Gambescia

 

 (*) Qui:
https://www.adnkronos.com/politica/scurati-accuse-e-scuse-al-tg1-news_S3bWM4t9IMimJ3caoyrWD . 

(**) Sempre qui: https://www.adnkronos.com/politica/scurati-accuse-e-scuse-al-tg1-news_S3bWM4t9IMimJ3caoyrWD .
 

(***) Qui: https://rivista.vitaepensiero.it/news-vp-plus-linsostenibile-immutevolezza-dei-tg-6402.html .
 

(****) Sempre qui: https://rivista.vitaepensiero.it/news-vp-plus-linsostenibile-immutevolezza-dei-tg-6402.html .
 

(*****) Qui: https://www.mollicone.it/ecce-homo/ .

venerdì 26 aprile 2024

Giorgia Meloni, "nun ‘gna fa"

 



Pure oggi, dirà il lettore… Basta Gambescia ha rotto… Forse. Però si legga qui:

«Nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari. Quelli di ieri, che hanno oppresso i popoli in Europa e nel mondo, e quelli di oggi, che siamo determinati a contrastare con impegno e coraggio. Continueremo a lavorare per difendere la democrazia e per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà».

Parole di Giorgia Meloni. Al momento non abbiamo trovato traccia di questo messaggio sulla pagina del Governo né su quella di Fratelli d’Italia. Ma non è questo il punto.

A destra si asserisce che la sinistra soffra di isterismo, e che ogni volta che la destra vince le elezioni, inizi a gridare al lupo fascista. Quindi sarebbe tutta una manfrina antifascista, da parte di un pugno di ricchi e famosi di sinistra: snob che temono di essere scalzati.

Ammettiamo pure che il lettore si sia stancato dei non pochi nostri articoli dedicati all’argomento di Fratelli d'Italia che-non-ha-tagliato-le-radici-con-il-passato-fascista ( o neofascista, decida il lettore). Chiediamo scusa. Però, non passa giorno, che Giorgia Meloni, non provi, come diceva un noto filosofo del Novecento, Gianfranco Funari, di non farcela. “Nun ‘gna fa”. Non riesce a tagliare i ponti con il fascismo.

Si prenda il post sul 25 Aprile, annega la fine del fascismo nell’oceano del totalitarismo. Non c’è alcuna presa di posizione politica specifica. Il fascismo si è manifestato in Italia non nella Terra di Mezzo. Queste cose vanno dette.

Attenzione, non siamo così ingenui da ritenere che una frasetta, in più o in meno, possa di colpo cambiare quella che è la linea culturale predominante – attenzione culturale – dei fascisti dopo Mussolini, dal Movimento sociale a Fratelli d’Italia.

Probabilmente, in Giorgia Meloni, giocano un ruolo anche elementi di calcolo personale: non vuole fare la fine del “riformista” Gianfranco Fini. Il “nuovo Badoglio” lasciato affondare nella melma giudiziaria, in cui, volente o nolente, si è ficcato. E così evita di esporsi troppo sull’antifascismo. Gioca la carta del vittimismo, della sinistra dedita alle  persecuzioni di innocui hobbit, che si accanisce, di "persona personalmente"  addirittura su di lei.  E quindi che  fa?  Punta  sull’afascismo: sul parlare il meno possibile del fascismo, giusto il minimo indispensabile come nel post sul 25 Aprile.

Inoltre, come abbiamo scritto (*), anche gli italiani, abilissimi nel nascondere la polvere intergenerazionale del fascismo condiviso sotto il tappeto, hanno le loro responsabilità.

Però quello che va evidenziato, e che sfugge alla sinistra, è il pericolo, che nella neutralizzazione del fascismo (si legga: afascismo), si nasconda tutta la forza della tentazione fascista: un fatto culturale, prima che politico.

Pensiamo al forte rischio per la sorte della liberal-democrazia legato alla riproposizione del romanticismo prefascista: un coagulo culturale, pseudo-eroico, di tematiche gerarchiche, nazionaliste, reazionarie e razziste, tipico di una cultura politica, romantico-decadente, critica, e in chiave demolitiva, del liberalismo e della modernità. Che precede, per poi affiancare e strutturare il fascismo. Abile anche nel nascondersi, dietro tratti moderni, anzi modernisti, come nel caso di certe non belle pagine del futurismo marinettiano, una volta istituzionalizzato come pseudofilosofia di regime.

Non basta gridare al nuovo fascismo o insultare rozzamente Fratelli d’Italia. Per la semplice ragione che la gente comune, abituata fare due più due uguale quattro, non vede in giro camion Fiat 18 BL carichi di squadristi, ma solo melliflui ministri e deputati incravattati e impomatati, che ripetono, a cominciare da Giorgia Meloni, di essere vittime innocenti di ingiuste campagne di odio condotte da una sinistra ricca e isterica. Che, come Scurati,  sarebbe sempre pronta  ad approfittare  del denaro pubblico...

Come spiegare al  pigro popolo, che alla libertà preferisce la sicurezza, tutta la pericolosità del romanticismo prefascista? Di un clima? Cioè di qualcosa che i più non percepiscono?

Difficile dire. A proposito di  preferenza  per  la   sicurezza rispetto alla libertà, in Italia, nei cosiddetti ambienti semicolti e non solo dentro Fratelli d’Italia, si parla ancora bene di Mussolini per il premio di natalità alle famiglie: patriarcalismo, per giunta bellicista, all’ultimo stadio. Come pure di altre misure sociali, a partire dalla Carta del Lavoro fascista, che invece soppresse la libertà sindacale. Solo per dirne una – lanciamo una sfida –  nessuno ha mai chiesto a Giorgia Meloni,  nelle numerose conferenze stampa, un giudizio sulla Carta del Lavoro.

Cioè come spiegare alla gente comune che il romanticismo prefascista, criticando la modernità illuminista, prepara il terreno all’individualismo (si fa per dire) dei furbi  capi carismatici? Che romanticamente sostengono l'impossibile?  Di voler fondersi con il popolo?  Chi non ricorda il mito politico fascista del duce che trebbia il grano nell' "Agro redento".  Per due ore...

Sono concetti complicati, non alla portata di tutti. Pertanto, la stragrande maggioranza delle persone, per usare una metafora banalissima, vede il fumo della persecuzione politica contro Fratelli d’Italia, ma non l’arrosto del clima culturale prefascista.

Dicevamo all’inizio del “nun ‘gna fa”… Ma perché Gorgia Meloni dovrebbe farcela? Se la sinistra le facilita il compito, accusandola di fascismo politico, quando invece si tratta di prefascismo culturale? Cioè la sinistra immagina ovunque Fiat 18 BL carichi di fascisti e trascura l’immaginario che potrebbe inzepparli di nuovo?

Carlo Gambescia

(*) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/04/liberazione-la-celebrazione-che-divide.html .

giovedì 25 aprile 2024

Liberazione. La celebrazione che divide. Perché?

 


Nell' Italia dei primi anni Sessanta del secolo scorso, quella minuta, a scuola non si parlava granché  della Festa della Liberazione. Ovviamente, con alcune  eccezioni.  Così  riferiscono  gli storici. 

Ricordo da bambino di un maestro privo di un braccio. Lo aveva perso in Russia, si diceva, per combattere il comunismo. Punto. Vent'anni, separavano gli italiani dalla caduta del fascismo, eppure   sembravano trascorsi invano.

Per chi scrive il primo impatto con la Resistenza fu alle scuole medie, quando si diffuse la notizia della morte di Paolo Rossi, studente all’Università di Roma, precipitato da cinque metri nel corso di tafferugli con un gruppetto di studenti neofascisti. Per inciso, i colpevoli non furono mai individuati.

Allora, intorno alla metà degli anni Sessanta, sentii, per la prima volta, parlare di Antifascismo, Resistenza e Liberazione. Provenivo da una famiglia borghese, “afascista”, con una gloriosa eccezione, il nonno materno, bersagliere, che “passando i suoi guai”, come diceva mia nonna tra l’arrabbiato e l’orgoglioso, non volle mai iscriversi al Partito nazionale fascista.

Piaccia o meno, i valori dell’ Antifascismo, Resistenza e Liberazione – questo è il problema – non sono mai stati vissuti sentitamente a livello di massa. Insomma,  come tali.

Per quale ragione? Perché gli italiani furono troppo coinvolti emotivamente e socialmente, almeno fino allo scoppio della guerra. Quando, finalmente, ma a loro spese, scoprirono che il fascismo non era altro che una tragica buffonata. Di qui, se ci si passa l’espressione, il tentativo, che dura tuttora, di nascondere la polvere sotto il tappeto. Una vergogna, prima tradottasi in silenzio (i padri), poi in ignoranza (i figli), infine in dimenticanza (i nipoti) 

Con l’ esplosione dell’attivismo di estrema destra, nel ruolo di “guardia bianca”, alla fine degli anni Sessanta, cui corrispose quello di estrema sinistra, come portato dell’Autunno caldo e del Sessantotto universitario, si iniziò di nuovo a valorizzare, anche con una formalizzazione ed estensione delle cerimonie pubbliche, la Festa del 25 aprile. Che si celebrava anche prima, ma quasi sottovoce (cose da élite politiche), ad eccezione delle sinistre, comunisti e socialisti, che anche per numero di caduti e per ideologia totalitaria, si sentivano i padroni della Resistenza e della liberazione a livello collettivo.

Pertanto il “rilancio” della celebrazione risale agli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, in chiave spiccatamente antifascista, nel senso di opporsi al neofascismo, che, così sembrava all’inizio degli anni Settanta, stava crescendo sul piano elettorale, oltre ad essere molto attivo nelle piazze e nelle scuole.

L’antifascismo, giustissimo in sé, soprattutto se allargato al rifiuto di ogni forma di dittatura, nera o rossa, veniva però usato come risorsa politica, contro il pericolo di un ritorno del fascismo in Italia.

Cosa vogliano dire? Che, a prescindere dalla realtà o meno della tesi sostenuta dalla sinistra, l’antifascismo-catapulta  finiva così  per  tramutarsi, e in modo definitivo,  in un valore di sinistra.  Così  allora già  lo vedeva, rigettandolo o quasi, la stragrande maggioranza degli italiani, la tenace (a morire) zona grigia del 1943-1945, di cui parlavamo ieri (*), contraddistinta nel tempo dal silenzio, dall’ ignoranza e dalla dimenticanza. Oggi si parlerebbe, in termini psicologici, di una specie di autogratificante “comfort zone”.

Da allora, nulla è cambiato. Anzi le cose sono forse peggiorate, dopo la discesa del Cavaliere in politica, con l’avvento al potere degli eredi del Movimento sociale, partito dalle salde radice fasciste, mai “gelate”, per usare la terminologia che tuttora incontra il favore di Giorgia Meloni.

Nelle ultime generazioni, come attesta la distribuzione del voto giovanile,  la “dimenticanza”, si è tramutata, proprio grazie all’oblio, nella riscoperta, non tanto del fascismo in sé, quanto della tentazione fascista: di un nucleo di valori reazionari, per così dire prefascisti. La serra calda, come si dice, in cui semi e piantine, eccetera, eccetera.

Pertanto, quando la destra parla di una celebrazione divisiva, pur usando modi e toni irrituali, spesso violenti, non ha tutti i torti. Perché gli italiani, sul piano collettivo, non hanno mai metabolizzato, l’Antifascismo, la Resistenza, la Liberazione.

Probabilmente, in termini di psicologia sociale: la colpa è nella complicità e vergogna dei nonni. Ovviamente, la destra, non è stata da meno, perché soprattutto dopo l’avvento al potere di Berlusconi, ha usato l’anti-antifascismo, come un risorsa politica, proprio come la sinistra, e quel che è peggio, ripetiamo, con gli stessi toni e modi.

E così siamo giunti, al 25 aprile 2024, più divisivo che mai. Dove, al colmo della confusione politica, la sinistra, non tutta onestamente, usa la celebrazione per attaccare Israele. E la destra, i nipoti o quasi di coloro che promulgarono le leggi razziali, si presentano come i nuovi paladini di Gerusalemme. Parliamo degli stessi che sostengono che il Movimento Sociale  fu un partito democratico perché sedeva in Parlamento. Non sono credibili.

Sono cose che purtroppo accadono quando si politicizzano i valori. Antifascismo, Resistenza e Liberazione dovevano trasformarsi, ma da subito, negli a priori kantiani della Repubblica,  in un  "tempo"  e uno  "spazio"  condivisi in automatico,  in alto come in basso, da tutti o quasi.

Non si è voluto, non si è potuto. Sia come sia, l’Italia però è profondamente divisa. E la destra è al governo. Una destra, che, a differenza degli italiani, nulla ha dimenticato.

Carlo Gambescia

(*) Qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/04/afascismo-e-anti-antifascismo.html .

mercoledì 24 aprile 2024

Afascismo e anti-antifascismo

 


Nel 1945 ebbe termine una catastrofica guerra mondiale che però salvò l’Europa dalla dittatura nazifascista. Vinsero le forze liberali e democratiche, con l’aiuto a Est dell’ Unione Sovietica, grande potenza che non era né liberale né democratica. Fu una scelta obbligata. Hitler poteva essere battuto solo se attaccato contemporaneamente su due fronti.

Il fascismo italiano uscì sconfitto da un guerra che aveva contribuito a scatenare, prima puntando su ridicoli sogni da grande potenza, che portarono alla “militarizzazione” totalitaria dell’ Italia. Poi assecondando la feroce guerra di conquista di Hitler. E infine macchiandosi di colpe incancellabili come la persecuzione degli ebrei, particolarmente feroce durante il periodo della Repubblica “sociale”, che vide i burattini fascisti tenuti per i fili degli sgherri hitleriani.

Eppure, nel dopoguerra, piano piano i nostalgici del fascismo entrarono in parlamento, poi furono sdoganati dal Cavaliere, e infine, oggi governano l’ Italia. Il che, almeno a prima vista, significa che un terzo degli elettori italiani ha perdonato o dimenticato ciò che fu il fascismo: guerra e rovine.

In nome di questo terzo, in pratica l’elettorato di Fratelli d’Italia, affiancato da quello della Lega e di Forza Italia (che però, a dire il vero, nel complesso si avvicina quasi alla metà dei votanti), qualsiasi tentativo di evocare l’ antifascismo, allo scopo di evitare che il fascismo possa ripetersi, viene liquidato in nome dell’anti-antifascismo.

Si sostiene che l’antifascista sia un comunista mascherato, che con la scusa dell’antifascismo vuole impedire alla destra di governare. Quindi l’antifascismo sarebbe un fenomeno  antidemocratico: una specie di rimasuglio  della  politica estera cominformista sovietica.

Il che non è del tutto falso. I comunisti italiani fecero dell’antifascismo, anche dopo la caduta dell’Unione sovietica e i cambiamenti di nome, un mezzo per discriminare i non comunisti di qualsiasi colore fossero. Insomma, il non comunista (quindi non solo l’anticomunista) come potenziale fascista. Ma questa è un’altra storia…

Anche perché problema di oggi, non è più il comunismo, ma questa destra che non ha mai fatto i conti con il fascismo. E qui va riconosciuto a Gianfranco Fini, almeno un tentativo, il famoso convegno di Fiuggi (anno di grazia 1995), di fare questi benedetti conti.

Per contro Giorgia Meloni ha saltato a piedi giunti l’esperienza, diciamo riformista, di Alleanza Nazionale, per ricollegarsi direttamente al Movimento sociale, come provano il suo spudorato patriottismo di partito e l’ evocazione della tesi tragicomica di un Movimento sociale democratico solo perché presente fin dall’inizio in parlamento. Anche i deputati fascisti prima dell’instaurazione della dittatura sedevano alla camera…

Ovviamente, i “fascisti” di oggi – fascisti perché si rifiutano di fare i conti con il passato fascista- non sono il clone dei bei campioni del Ventennio, ma ne hanno conservato non pochi tratti culturali e politici: la mentalità autoritaria, il gretto conservatorismo sociale, il razzismo, l’anticapitalismo, l’antiliberalismo, il nazionalismo, l’antiparlamentarismo e il culto di un esecutivo semidittatoriale.

Pertanto gli antifascisti, quando elencano, in chiave di anamnesi politica, questi aspetti, pongono questioni serie. Il pericolo esiste. Ovviamente, soprattutto quando di sinistra, gli antifascisti possono strumentalizzare i valori dell’antifascismo, ad esempio evocandoli contro Israele, ma  il grande problema – ripetiamo – del Dna cultural-fascista di  Fratelli d'Italia permane.

E rimane perché Giorgia Meloni, invece di fare i conti con il fascismo – qui viene l’aspetto strategico nuovo – ha adottato la linea dell’afascismo. Cioè di non dichiararsi fascista (anche perché scoprirebbe le sue carte), né antifascista (nel senso di una riflessione sulla lezione del 1945, quindi fare i conti con il fascismo).

E qui viene fuori il punto interessante. L’afascismo incontra il favore di molti italiani, anche di coloro che non votano a destra. Per quale ragione? Innanzitutto perché nel 1943-1945, la stragrande maggioranza degli italiani (secondo Renzo De Felice il 90 per cento) rimase alla finestra, ragionando proprio in termini di afascismo (né fascisti né antifascisti).

Pertanto nella maggioranza delle famiglie italiane si è trasmessa, di generazione in generazione, la visione della Resistenza e della Liberazione, come uno dei due opposti estremismi: il primo antifascista, il secondo fascista. Di conseguenza l’afascismo di Giorgia Meloni va a intercettare l’afascismo del 1943-1945, passato di padre in figlio. Un vera forza storica e sociologica.

Detto altrimenti: il voto che viene dato a Fratelli d’Italia è un prolungamento dello stesso quietismo sociale del 1943-1945 che spinse e spinge, prima a restare alla finestra, per poi schierarsi con il vincitore politico. Così fu nel 1922-1926, con la dittatura, così nel 1943-1948, con la Repubblica.

Si può insistere quanto si vuole sull’egemonia, esercitata dai comunisti sulla Resistenza, anche per scopi propagandistici, ma in realtà le forze dell’afascismo sono risultate più forti. Perché siamo davanti a forze potenti, molto difficili da contrastare: quelle del quietismo sociale, nel senso di un totale e ciclico abbandono, quasi cieco diremmo,  ai poteri di un governo che come un dio mortale vede e provvede.

Il quietismo è una potente forza di consenso e obbedienza sociale. Che, per dirla alla buona, può essere volta a fin di bene, come a “fin di male”.

Pertanto l’anti-antifascismo può contare sulla forza inerziale del bisogno di sicurezza, che rinvia, per dirla in parole povere, al non schierarsi, per evitare di incorrere nella vendetta dei vincitori, e così salvaguardare la propria sicurezza. Si potrebbe parlare di una specie di “donabbondismo” sociale: un misto di pavidità e indecisione che favorisce la formazione e l'obbedienza a qualsiasi ordine sociale e politico purché sia tale.

Si possono ora intuire le ragioni della crisi dell’antifascismo L’appello ai valori della Resistenza, al coraggio e alla libertà, legati alla epocale rinascita, dopo il nazifascismo sconfitto, di un ordine liberal-democratico, sono visti dai quietisti, che sono la maggioranza, come divisivi, quindi pericolosi dal punto di vista della pace sociale.

L’anti-antifascista ragiona come Don Abbondio: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. E cede a Don Rodrigo.

Se le cose stanno così sarà dura liberarsi del nuovo Don Rodrigo, con le unghie laccate di rosso, e dei suoi bravacci dell’anti-antifascismo.

Carlo Gambescia