sabato 31 agosto 2024

La destra peggiore della storia d’Italia



I principali giornali di destra si sono subito avventati sul presunto assassino di Sharon Verzeni, che avrebbe confessato, Moussa Sangare, 31 anni, di origini nordafricane, ma cittadino italiano.

L’integrazione non funziona, perciò meglio che rimangano a casa “loro”.  Mandante morale dell’omicidio di Sharon è la sinistra, apertamente favorevole ad accogliere i migranti.

Ecco la raffinatissima tesi celebrata su giornali e social da chi vota Meloni, Salvini Tajani e batte le mani al generale Vannacci quando alla Versiliana proclama che i gay sono una minoranza statistica e che quindi devono tacere. L’eugenetica hitleriana era sulle stesse posizioni a proposito di zingari, ebrei, omosessuali, “minorati fisici”. Vannacci è sulla buona strada.

Non ci si lasci imbrogliare dalle melliflue tattiche politiche di Giorgia Meloni, apparentemente sempre pronta a mediare con i suoi alleati sull’Ucraina, sulla Nato, sull’Ue, sulla Palestina.

Il veleno fascista se lo tiene tutto dentro. Per ora. La “mamma più affettuosa d’ Italia” è la stessa che ha favorito la diffusione di una tesi sui migranti che affogano, degna degli artifici propagandistici di Goebbels: sarebbero le navi di soccorso delle Ong a mettere a rischio la vita dei migranti e non l’assenza di soccorsi, causata invece da un normativa, varata dalla destra, che vieta alle Ong di soccorrere altre “mamme affettuose” ma africane.

Semplificando al massimo: se si incontrano dei naufraghi li si deve lasciare lì, perché soccorrendoli si rischia di fare loro del male. Lo stesso Basaglia, con pazienti come Giorgia Meloni, avrebbe avuto enormi difficoltà nel curarne i problemi mentali. Perché una tesi del genere è da trattamento sanitario obbligatorio.


Eppure in molti condividono, rilanciano, celebrano i fasti di un governo, con la fiamma, che in pratica rappresenta il punto di arrivo della normalizzazione di un sentire che ha le sue radici negli pseudo-valori della tentazione fascista.
 

Un nostro amico, un caro amico, giornalista, intelligentissimo, si confidava, asserendo che anche con un governo del genere, continua a sentirsi di destra…


Forse lo si poteva essere un secolo e mezzo fa. Si pensi alla Destra storica italiana di ispirazione cavouriana, che in politica guardava a Londra e Parigi. Liberale, mai clericale, liberista in economia. Attenta a chiudere i bilanci in pareggio. Un’esperienza terminata nel 1876. Quella destra, l’unica “pulita” della storia d’Italia, aveva portato a casa l’Unità. Onore a quei Padri.

Un’unificazione politica messa poi a rischio dal fascismo, alleatosi con il nazionalsocialismo. Spesso non si ricorda che, oltre alla violenta guerra civile che divise l’Italia in due ( al Nord nazisti e fascisti, al Sud gli anglo-americani), nel dopoguerra, se non vi fosse stata la necessità di un fronte unico contro il comunismo sovietico, l’Italia avrebbe perduto la sua parte insulare. Paradossi storici: Mussolini, fanatico nazionalista, aveva ottenuto l’effetto contrario, lo smembramento dell’Italia. Cioè la morte della nazione.

Per fortuna sulla rigidità britannica prevalse la buona volontà degli americani. L’Italia risorse grazie all’opera di statisti liberali, in qualche misura eredi del riformismo giolittiano, come Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Un destra, certo molto riformista, che per alcuni guardava a sinistra, ma decente, presentabile. Degna dei Padri del 1861. Una destra che servirebbe oggi. E che purtroppo non esiste più.


Infatti, al di là delle esperienze politiche ricordate – dopo l’Unità e dopo la Seconda Guerra mondiale – non scorgiamo altre destre di cui non vergognarsi. Meno che mai attuale destra di governo, dalle radici fasciste, che nulla ha dimenticato, nulla ha imparato, se non, attraverso Giorgia Meloni, quei giochi di prestigio, in cui Almirante, tuttora venerato da Fratelli d’Italia, era maestro.

Il punto è che ai tempi di Almirante, l’eredità della disastrosa guerra fascista scatenata da Mussolini al seguito di Hitler, era ancora viva nelle menti delle generazioni degli anni Dieci e Venti del Novecento. Tra i quali molti partigiani di ogni colore politico, uniti però, al di là di ogni polemica o strumentalizzazione, sulla natura antifascista della Costituzione.

Una coesione ideale che fu di ostacolo a ciò che invece è accaduto oggi: il ritorno e la normalizzazione del sentire fascista, dall’odio verso i migranti e i diversi al nazionalismo, al clericalismo, al familismo, feticci socio-politici in cui neppure la chiesa, che pur benedì i gagliardetti fascisti, si riconosce più.

Così stanno le cose. Manca una destra decente, presentabile, di cui non vergognarsi.

Pertanto al momento non ci si può “sentire” né “essere” di destra. 

Anzi, diremo di più: si deve essere contro “questa destra” che rappresenta il lato peggiore della storia d’Italia dall’Unità ai nostri giorni.

Carlo Gambescia

venerdì 30 agosto 2024

Vannacci, il generale non dorme in piedi

 


Sembra che il generale Roberto Vannacci stia organizzando un movimento politico, che prende nome dal suo libro, Il mondo al contrario. Si parla già di numerose adesioni, per ora nell’ordine delle migliaia.

Alle recenti europee, altro errore politico del Tafazzi Salvini dalla vista cortissima, il generale ha ricevuto mezzo milione di preferenze (Giorgia Meloni due).

L’uomo è molto ambizioso. Cinquantenne, ha importanti studi universitari alle spalle, di tipo militare ovviamente, lavoro sul campo, come dicono eccellente.  Ha idee reazionarie ma molto chiare. Ha carisma. E, per ora, dal suo modo di tenere testa a Salvini (che comunque è un politico navigato), giornalisti e avversari politici, sembra possedere dialettica, forza di volontà, capacità organizzative e decisionali: qualità comprovate dall’idea di fondare un movimento. Insomma, per giocare sul titolo di un vecchio film con Tognazzi: il generale non dorme in piedi.

Sulle idee reazionarie e sulla totale assenza di remore  caratteriali nel farsi strada, come pure sul forte senso, soggettivo ovviamente, di superiorità intellettuale, a partire dai modi sbrigativi di “confezionamento” del libro, rinviamo all’eccellente sintesi del professor Luigi Spagnolo, docente di linguistica italiana all’università per stranieri di Siena (*), probabilmente il migliore testo in circolazione sul generale, intellettualmente “desnudo”.

L’idea del libro-manifesto politico ha precedenti illustri nel Mein Kampf di Hitler e ne La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide di Guglielmo Giannini, fondatore dell’Uomo Qualunque. Libri di successo scritti nel Novecento da personaggi non proprio simili: uno spiantato psicotico e un commediografo e giornalista. Momenti storici diversi: gli inizi della Repubblica di Weimar, l’immediato dopoguerra italiano. Ed esiti totalmente differenti: Hitler scatenò una guerra mondiale, Giannini autoaffondò l’Uomo Qualunque.

Però va ricordato un importante fattore comune: quello del richiamo emotivo, caratterizzato da un odio irrazionale verso la politica come leale confronto tra avversari, disposti comunque a venirsi incontro e mediare, una scelta di convivenza politica tipica delle democrazie liberali.

Hitler, Giannini, Vannacci rivelano invece la comune condivisione della politica del capro espiatorio. Scelta incendiaria che necessita non di un avversario ma di un nemico da crocifiggere. Cioè si opta per quanto vi sia di più irrazionale e pericoloso: indicare alla folla il colpevole come portatore del male assoluto. Per Hitler era l’ebreo, per Giannini, il professionismo politico, per Vannacci gay, migranti e sinistra.

La dinamica amico-nemico, pur rispondendo alle caratteristiche della regolarità metapolitica, se portata alla sue estreme conseguenze risulta sempre rovinosa. Il liberalismo, resta il tentativo storico, finora più riuscito, di ricondurre la dinamica amico-nemico nell’alveo di una normale competizione tra avversari nell’ambito delle istituzioni parlamentari.

Hitler, Giannini (che con riferimento al fascismo coniò lo slogan del “Si stava meglio quando si stava peggio”), Vannacci scorgono solo nemici da abbattere alla prima occasione. Qui il vero pericolo: il rifiuto della normale dinamica liberale

Perciò il vero problema è se Vannacci, in questa Italia devastata dal terremoto della democrazia emotiva, riuscirà a catturare il consenso di altri potenziali fanatici.

Hitler riuscì, Giannini fallì. E Vannacci? Non esistono per ora studi sulla provenienza degli elettori del generale. Secondo alcuni osservatori Vannacci ha catturato consensi all’interno del mondo militare politicamente destrorso (medie e basse sfere), tra gli estremisti della Lega e di Fratelli d’Italia (il che è tutto dire), come pure – ma non è ancora certo – tra gli astensionisti nemici della democrazia dei partiti e parlamentare. Insomma per ora esiste una base elettorale, grosso modo fino a uno, due, forse tre milioni di voti (pescando nel non voto). Non sono pochi per cominciare.

Un altro aspetto interessante è rappresentato dal ruolo che potrebbero svolgere le forze armate “simpatizzanti” sotto l’aspetto operativo: dello “scossone” finale al sistema liberal-democratico. Solo per ricordarne una: la Marcia su Roma, riuscì, tra le altre ragioni, perché il Re e i circoli politici a lui vicini diffidavano della fedeltà delle forze armate, che effettivamente in non pochi casi, dopo l’improvvisa revoca a malincuore dello stato d’assedio da parte di Vittorio Emanuele III nella mattina del 28 ottobre, favorirono il pomeriggio stesso e nei giorni del 29 e 30 ottobre le milizie fasciste. Che il 1 novembre e nei giorni seguenti  sfilarono e scorrazzarono per Roma, inneggiando, senza avvedersi della contraddizione in termini, al primo Ministero Mussolini e alla Rivoluzione fascista…

Perciò, almeno per ora, considerate le potenzialità (elettorali e “militari”) del “movimento” di Vannacci, anche alla luce delle doti organizzative e decisionali del “carismatico” capo, non si può sottovalutare il pericolo insito in una situazione che almeno per un aspetto ha un contenuto inedito.

Si rifletta su un punto. Dalle imprese di Garibaldi, politicamente laico e progressista, che come dimostrò più volte non era un aspirante caudillo che desiderava sostituirsi al Re, la politica italiana, per più di un secolo e mezzo non ha più visto militari impegnarsi direttamente in politica. Bava Beccaris (poi senatore) e Badoglio (capo del governo dopo il 25 luglio)  furono semplici esecutori.

Fino al generale Vannacci. Spuntato dal nulla. Che, da come si muove, esecutore non è.  E per giunta  con  idee  reazionarie. Una specie di antiGaribaldi.

Il che è un grosso problema.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/retorica.html .

 

giovedì 29 agosto 2024

Del suicidio assistito

 


Non vorremo trattare un argomento delicatisssimo come quello del suicidio assistito, “alla” Vannacci, per battute, in termini di retorica da “Bar Sport”: tipo ci penso io, ho la soluzione eccetera.

Però non possiamo negare l’effetto tragicomico che provoca in noi leggere che “l’azienda sanitaria universitaria giuliano isontina ribadisce il suo ‘no’ a Martina Oppelli, l’architetta triestina di 49 anni che ha chiesto di accedere al suicidio medicalmente assistito” (*).

Sia subito chiaro: condividiamo totalmente la scelta di Martina Oppelli.

Ci spieghiamo meglio.

Il lato comico è rappresentato dalla commissione di medici burocrati che si riunisce per decidere della vita della morte di un individuo. Burocrati che dopo il cappuccino con il cornetto o dopo il caffè post prandiale devono prendere decisioni, intorno a un tavolo, sulla vita e sulla morte di un’altra persona, magari pensando distrattamente a quando pagare la prossima rata straordinaria di condominio piovuta sull’economia domestica.

Il lato tragico  è nel fatto  che  tutte le chiacchiere bioetiche e religiose di cattedratici, esperti  a vario titolo, teologi, giuristi – pensiamo a fior di convegni, riunioni di commissioni, dotte pubblicazioni, gettoni di presenza, rimborsi, diarie, eccetera – si riducono al sì o al no di una ASL: di burocrati con la testa rivolta ad altro. All’insegna del come se. Cioè del come se nessuno sapesse come funzionano le ASL…

E qual è il correttivo recentemente proposto, non sappiamo ancora se approvato o meno, per snellire il lavoro delle commissioni? Il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nel prendere la decisione.

Capito? Ci si muove sul piano delle penali. Del sanzionamento contrattuale, si recupera il diritto privato, dopo averlo massacrato. Come? Con l’avocazione allo stato di un diritto fondamentale dell’uomo.

Non parliamo del “diritto di morire”, curiosamente, così denominato sia dai detrattori che dagli estimatori. Ma del potere di godimento e disposizione del proprio corpo. Un diritto reale. Un diritto di proprietà del proprio corpo (risparmiamo al lettore il latinorum). Un diritto che non appartiene a un presunto “stato etico”, né a nessun’altra entità fisica e metafisica. E che precede e sovrasta, come diritto naturale, il dettato di qualsiasi carta costituzionale, conservatrice o progressista che sia.

Una volta accettato questo, viene meno tutto, a partire dalla distinzione, spesso di lana caprina, tra eutanasia e suicidio assistito. Come pure il ricorso – semplificando – alla burocrazia biomedica: parolone, che soprattutto in Italia, dove prevalgono un sistema sanitario pubblico e una visione statalista della salute, rinvia di fatto, come detto, al burocrate con il sapore di caffè in bocca e la testa altrove.

A costo di essere accusati di “vannacciate”, però liberali non fasciste, proponiamo la nostra soluzione.

Per morire liberalmente, senza mai entrare nelle motivazioni, proprio per non ricadere nell’accoppiamento poco giudizioso tra la fine esplorazione della psiche umana e la rozza burocrazia sanitaria, potrebbero bastare: 1) un semplice atto notarile, dove si dichiara che il sottoscritto, nel pieno della sue facoltà, eccetera, eccetera; 2), dopo di che, con lo stesso atto, in un contesto di depenalizzazione totale del reato di istigazione al suicidio, ci si rivolge a un medico, che tecnicamente, eccetera, eccetera. Oppure 3) si ripone l’atto nel cassetto, anche notarile (semplificando), per poi utilizzarlo, sempre su base volontaria, quando sarà il momento, magari delegandone “la notificazione” al congiunto o persona di fiducia in caso di malattia incurabile, eccetera, eccetera.

Ovviamente, il sistema può rivelare delle falle: le persone di fiducia possono approfittarne per ragioni poco trasparenti, non pochi medici (siamo in un’Italia ancora confessionale) possono qualificarsi obiettori di coscienza. Non esiste la perfezione. Però non scorgiamo altro sistema per evitare la tirannia del burocrate con potere di vita e di morte sull’individuo.

La libertà per molti è un peso. Talvolta sospettiamo che non sia un “valore” per tutti. Spesso gli essere umani, pur di essere sollevati dalla responsabilità della decisione individuale, preferiscono delegare, lasciare che siano gli altri decidere. Di qui - anche - l’origine dell’invadenza “statalista” o welfarista. Lo stato intrusivo che si occupa di noi dalla culla alla tomba. Che pretende di “regolamentare”, inventandosi un inutile sub-diritto, anche il suicidio. E invece come abbiamo visto, lo stato può essere tranquillamente fatto fuori. Ognuno di noi è “proprietario” del suo corpo. Basta un notaio.

Fermo restando, ovviamente, che in alcuni settori, anche per ragioni di natura quantitativa, la delega è necessaria, anzi vitale. Si pensi ai sistemi politici rappresentativi.

Ma, quando si tratta della vita e della morte, cioè della suprema scelta di libertà, perché non si chiede di venire al mondo, ma si è liberi di “uscirne”, deve essere l’individuo “proprietario” a decidere.

Per aprire una parentesi: non siamo davanti e fenomeni come la guerra, perfino la guerra atomica, dove l’individuo, l’individuo Mario Rossi, checché ne dicano i pacifisti, non ha la certezza di morire (pensiamo, solo per fare un esempio,  a quella parte di umanità, anche minima, ma sopravvivente, perché richiusa in bunker e grotte o residente, per sua fortuna, in zone non contaminate ) . Di qui, sia detto per inciso, la stupida idea, sempre pacifista, soprattutto se applicata alla guerra convenzionale, della guerra come di un “suicidio collettivo”.

Chiusa parentesi. Siamo invece davanti a un fenomeno, come quello del suicidio individuale, dove invece la certezza di morire esiste: "Decido io non un altro", non un generale insomma (qui si riaprirebbe la parentesi a proposito del diritto pacifista di obiezione, che rinvia al rifiuto dell'uso della violenza, e che per coerenza andrebbe esteso anche alla violenza contro se stessi. E invece non sempre è così. Spesso il pacifista è favorevole al sucidio assistito "via" ASL... Ossia allo stato armato di siringa... Ma si tratta di una  questione che  esula dall'argomento di oggi).  

Riassumendo, come detto, si deve parlare di un assoluto  e diretto  potere di godimento e disposizione della propria vita.

Si faccia attenzione, lo stesso individuo Mario Rossi può anche decidere di non suicidarsi, per sue ragioni religiose, di rimettersi alla volontà di un’entità metafisica. E per questo non va assolutamente criticato o condannato. Ma sempre  l'individuo  Mario Rossi può decidere il contrario, per altre ragioni, per lui valide.

Il punto allora qual è? Che ogni individuo deve essere lasciato libero di poter decidere se e  quando, come, dove e perché morire.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/friuliveneziagiulia/notizie/2024/08/28/nuovo-diniego-dellasl-al-suicidio-assistito-per-martina-oppelli_8cb16191-5afd-40b6-a326-95face5cb7d4.html .

mercoledì 28 agosto 2024

Niente scuse. Solo ferro per i nemici della liberal-democrazia

 


I mass media ne parlano poco, perché il pacifismo sembra ormai essere diventato una specie di saluto romano delle democrazie: scatta in automatico. Quindi Kiev può difendersi, ma…, Israele pure, ma… E così via.

In realtà, i successi di Kiev (non scontati) e di Israele (scontati) propongono un modello strategico che è l'esatto contrario del pacifismo. Quello del difendersi attaccando. Ci spieghiamo meglio.

Innanzitutto, la storiella che le società liberal-democratiche devono essere liberali fino al punto di farsi espugnare dai nemici del liberalismo è un segno di debolezza, di grande aiuto per i nemici. Attenzione: nemici non avversari.

Si tratta di pura propaganda recepita, anche dai nemici interni, per indebolire l’ossatura politica delle società liberali. Si pensi al recente caso dell’ arresto di Durov, patron di Telegram, un vero e proprio Cavallo di Troia. Quindi ben fatto. Sul punto, oltre che all’Iliade rinviamo al nostro articolo di lunedì scorso (*).

Innanzitutto la libertà ha un valore reciprocitario. Chi vuole sopprimerla, e per giunta con la forza, deve essere messo nelle condizioni di non nuocere. Cioè chi non reciproca in termini di fini e non di mezzi, perché per ideologia (fini) è tutto eccetto che liberal-democratica, va considerato pericoloso. E dunque va privato dei mezzi (del resto artatamente accettati).

Insomma delle due l’una: o si accetta di gareggiare con la liberal-democrazia, all’interno e all’esterno, aprendosi e aprendo all’altro, perché si condividono i valori liberali del “sistema”, quindi ci si comporta da leali avversari, oppure, se ci si perdona la brutalità, si viene cancellati come nemici del sistema, o comunque, come detto, messi in condizione di non nuocere.

Perché una cosa è discutere tra avversari di quanto mercato e liquidità serva a un’economia, un’altra è vedere nel mercato e nel denaro lo sterco del demonio. Perché una cosa è discutere, sempre tra avversari, di modelli di famiglia, un’altra imporre un modello unico di famiglia, magari sancito da una religione di stato. E così via.

Si ricordi: l’avversario, tratta e media, vuole convincere o essere convinto, il nemico, respinge, rifiuta, rompe, vuole solo vincere.

Ad esempio, nulla vieta a Russia, Cina, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Afghanistan, Iran, a proposito del discorso di ignorare le guerre del Presidente della Biennale di Venezia, Buttafuoco, già ammiratore di nazisti e di islamisti (quando si dice il caso), di programmare tante biennali cinesi, russe, coreane, eccetera senza censure. Aperte anche a registi e attori non in sintonia, diciamo così, con il regime.

E invece questi paesi governati da dittatori, difesi da Buttafuoco, non “reciprocano”: al massimo mettono su pagliacciate di regime. Però prontamente, aiutati da personaggi come Buttafuoco, pretendono, regolarmente, figurarsi all’interno di un festival, di impartire lezioni alla liberal-democrazia.

Ad esempio, in Afghanistan sembra che ora i talebani vogliano impedire alle donne perfino di cantare… Bene, secondo Buttafuoco, in nome della cultura, un paese così retrogrado, se avesse un cinema, andrebbe invitato a Venezia. Ma di quale cultura? Quella della sopraffazione dei più elementari diritti umani.

Dicevamo del modello ucraino-israeliano. Quello ucraino ha richiesto quasi due anni di guerra, però ora è in atto e funziona. La Russia è aggredita nel suo territorio. Prova, finalmente, cosa significa subire a sua volta un’aggressione. Era dal lontano 1941 che non accadeva. Lo stato di Israele, per contro, si è quasi sempre difeso attaccando. E con risultati di sopravvivenza  istituzionale  largamente positivi.

Inoltre Israele gode di un eccellente sistema difesa dagli attacchi dal cielo, sistema che andrebbe esteso anche a Kiev. Sicché i due filoni, diciamo così, 1)un esercito potente pronto a intervenire, anche in territorio nemico, e 2) un altrettanto potente meccanismo di difesa aerea, toglierebbero la voglia ai nemici di fare la guerra.

Ovviamente, una tesi del genere è rifiutata dai pacifisti occidentali, in buona o cattiva fede che siano. Per i quali – somma scemenza politico-esistenziale – il liberalismo per provare di essere tale, dovrebbe lasciarsi calpestare dai suoi nemici. Insomma, in nome della fallacia di non contraddizione, del  mancato rispetto di  un principio logico, il liberalismo dovrebbe fornire, principio politico, la corda liberale a russi, cinesi, coreani, eccetera, per farsi impiccare. In questo modo eviterebbe di entrare in contraddizione logica e politica con se stesso. Magnifico. Se non che la logica ne uscirebbe bene, il liberalismo occidentale male.

A questo proposito si ricorderà  la barzelletta che racconta del grande primario, che parlando con i congiunti del paziente appena operato, definisce l’intervento chirurgico perfettamente riuscito, salvo il fatto che  purtroppo il malato è morto sotto i ferri…

Capito? Secondo i nemici dell’Occidente, il liberalismo per provare di essere tale, deve morire. Deve offrire la giugulare alle zanne del nemico…

Attenzione, e lo diciamo da realisti metapolitici, per l’Occidente non è neppure questione di opporre a brigante brigante e mezzo. Il vero realismo politico non può non tenere conto di un fatto importantissimo: i nemici del liberalismo non sono avversari tradizionali che condividono gli stessi valori politici, come accade all’interno del Occidente euro-americano. Non è una guerra tra briganti. Ma tra difensori e nemici della libertà. Insomma, per capirsi: George Washington non è Napoleone; Churchill non è Hitler; Biden e Zelensky non sono Putin e Medvedev; Benjamin Netanyahu non è Yahya Sinwar.

Parliamo di una differenza fondamentale. Qualitativa.  In nome della quale  non si può, anzi non si deve, restare neutrali. I dubbi valgono per l'avversario non per il nemico. Se uno è malato di cancro, è malato di cancro. Punto.  E il cancro va estirpato.

L'atteggiamento  di fermezza  verso il nemico è fondamentale. Perché evita un processo distorsivo: quello di tramutare il realismo metapolitico in realismo criminogeno al servizio delle dittature.

Tra la liberal-democrazia occidentale e la dittatura c’è una differenza tassonomica di genere non di specie. E perciò, in caso di necessità, si deve agire di conseguenza. Senza andare tanto per il sottile. Anzi le mosse del nemico vanno sempre anticipate.

Concludendo, ma quali scuse pacifiste… Solo ferro per i nemici della liberal-democrazia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/08/capitale-e-moschetto-fascista-perfetto.html .

martedì 27 agosto 2024

Ragione e finzione. La lezione di Leonardo Sciascia

 


In questi giorni all’amico che regolarmente chiede dove siamo stati in vacanza, rispondiamo a casa di Leonardo Sciascia. Nel senso che, pur lavorando a ritmi più blandi (causa caldo), o forse proprio per questo, abbiamo riletto alcune sue opere. Esito? Meglio delle città d’arte.

Si rifletta. ln fondo il novanta per cento dell’arte è finzione. Cioè rappresentazione figlia dell’immaginazione. Il restante dieci ragione è interpretazione , riflessione sull’arte, sul canone, sul metodo. Insomma “sistemazione”.

In Sciascia, ritroviamo la stessa problematica, che probabilmente risale ai teatri antichi, poi consacrata da Pirandello: della maschera e del volto.

Finzione o realtà? Sciascia siciliano, crocevia dell’Occidente, come la sua bellissima “isola”. Sciascia come punto di incrocio intellettuale – e ci si perdoni il semplicismo della terminologia – tra illuminismo e romanticismo. Tra riflessione e finzione. O meglio riflessione sulla finzione.

Si prenda quel capolavoro, tra i suoi non pochi, che è Il giorno della civetta. Da una parte c’è la fin troppo lussureggiante antropologia romantica del mafioso, al punto di apparire finta. Si pensi, come summa, alla famosa definizione di don Mariano delle quattro fantasiose tipologie di uomini. Dall’ altra,   illuminismo spuntato del diritto. Si pensi alle false quanto ineccepibili testimonianze  (dal punto di vista procedurale) che mandano liberi esecutori e mandante, da “Zicchinetta” e Pizzuco a don Mariano Arena.

Sciascia, e in particolare nelle opere più politiche o quasi come Todo Modo, avverte che il sentimento, come necessità della finzione per credere (ritiro spirituale o albergo di lusso? Ritiro spirituale…), è più forte della ragione che taglia e cuce un abito che all’uomo starà sempre stretto. Agli esseri umani quasi mai interessa la verità, nuda e cruda. Agli uomini interessa prevalere o credere di prevalere. E se vincere, in qualunque modo, significa fare a meno della verità, tanto peggio per la verità. E per la legge come prolungamente positivo dalla ragione.

“Siamo morti che seppelliscono altri morti”. Queste le parole del procuratore generale, di Porte aperte, altro morto vivente, prossimo alla pensione, che pure ammonisce il “piccolo giudice”, contrario alla pena di morte. E, nonostante tutto pena di morte sarà. I morti seppelliranno altri morti. Se non sul patibolo vero e proprio, sul patibolo della vita. La finzione produce sempre conseguenze. Reali.

Cercare in Sciascia una risposta alla grande questione dell’uomo come essere sociale e antisociale al tempo stesso è praticamente impossibile. Sciascia scorge all’interno stesso della ragione la maledizione della carne. Si finge, rischiando di essere scoperti. Ma si finge. Si pensi a quel capolavoro storico che è Il Consiglio d’Egitto. Una finzione, una dottissima finzione, può essere utile. Ma non può esserlo per sempre. Prima o poi si viene scoperti. E nonostante tutto altri continueranno a fingere, per poi essere scoperti a loro volta e così via.

Qual è può essere il ruolo della finzione in un mondo in cui si rappresenta tutti i giorni la sconfitta della ragione? Quello di illudere il credente laico che l’ultima parola sarà sempre quella della ragione. Così come il credente cristiano ritiene che sarà di dio. Razionalizzazioni. Maschere per sopravvivere.

L’opera di Sciascia si sviluppa intorno a una sociologia della finzione: della maschera e del volto. O meglio del come la ragione (volto) si scontra con il sentimento di credere per vincere (maschera). Per Sciascia il diritto è finzione maltrattata da una realtà magmatica, da sembrare finta, ma posseduta dalla brama di sbaragliare l’altro, seppellirlo come morto, fino a quando non verrà il nostro turno di essere seppelliti.   

Inciso. Sarebbe tesi da approfondire, anche in relazione al suo amato Maggiore, il Pirandello dell'uno, nessuno, centomila. Nonché, accogliendo l'acuta suggestione  di un lettore, rispetto al  Borges degli specchi che rimandano ad altri specchi.  Sciascia e Borgese, due  parallele ( Sciascia recensì Finzioni, già negli anni Cinquanta, prima che esplodesse la Borgesmania), condannate  però  a non incontrarsi  mai: il piano è lo stesso ma il realismo vigile di Sciascia è una cosa, quello  fantastico di Borges un' altra. Parliamo ovviamente di maestosi custodi della letteratura. 

Per tornare  sul "seppellire", siamo convinti che Sciascia ritenga l’evangelico “lasciare che i morti seppelliscano i morti”(Matteo 8, 18-22), una gigantesca finzione per andare avanti. Nessun regno dei cieli da annunciare, solo un ricompattare le schiere, dagli angeli ai demoni, dai magistrati ai criminali , per riempire le fosse di morti. Morti alla ragione. Quella vera, che sconquassò l’antico regime. E liberò il mondo. Per poi tuttavia venire a patti con il mondo. E non poteva non essere così, primum vivere. La carne è debole.

E la scienza? A cominciare da quella giuridica, finzione della ragione in un mondo che si nutre di finzioni mosse dal desiderio profondo di prevaricare. Finzioni che interpretano altre finzioni. E forse per questo utili. Ma solo in un mondo di finzioni.

Crediamo, questa, sia la lezione di Sciascia. Di una ragione che coabita con la finzione, fino a mescolarsi con essa.

Nessun vinto, nessun vincitore. Solo morti che seppelliscono altri morti. Volto e maschera sepolti insieme nella fossa.

Eppure al male ci si deve opporre. E questa è l’altra lezione. Più sommessa, di Sciascia. Come il capitano Bellodi de Il giorno della civetta che esce sconfitto, dopo aver fatto tutto il possibile per sconfiggere il male. Un uomo in divisa, già partigiano, che, nonostante tutto, “sapeva di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. – Mi ci romperò la testa – disse a voce alta”. Così la chiusa.

Rompersi la testa o riempire le fosse? Ecco quel che si può chiamare  lo stramaledetto  dubbio amletico di Sciascia. Nella sua opera non c’è risposta definitiva.

Ragione, comunque mescolata a volontà? O finzione che è volontà di fingere?

Carlo Gambescia

lunedì 26 agosto 2024

Capitale e moschetto fascista perfetto?

 


Non abbiamo le competenze digitali per giustificare o condannare l’arresto di Pavel Durov, fondatore con il fratello di Telegram. Quelle giuridiche però sì. E cosa dice la legge? Almeno quella francese?

Che una piattaforma, dalle dimensioni mondiali come Telegram, deve “moderare” il flusso di informazioni spesso false per evitare di diventare veicolo di messaggi estremisti, razzisti, criminali, pedofili, eccetera, seminascosti magari nelle righe digitali delle chat private.

Non piace il termine “moderare”? Troppo delicato. Bene. Allora si usi quello forte: censurare. Però, prima di giudicare, il lettore segua il nostro ragionamento.

Innanziutto, e crediamo che questa sia giustamente la ragione principale, in Russia Telegram è attivo, funzionante, operante. Il che è sospetto. Perché se un regime dittatoriale consente a Telegram di esistere, evidentemente ha il proprio tornaconto in termini di disinformazione e spionaggio.

E con la Russia, piaccia o meno, siamo in guerra. Ergo il giro di vite ci sta tutto.

Inoltre, il lettore, autenticamente liberale, non dimentichi una cosa fondamentale. Esistono due usi della libertà di pensiero e parola.

Il primo come veicolo di libertà. Il secondo per sopprimerla. Cioè, in questo secondo caso, si rivendica il diritto di libertà di pensiero e parola, per agguantare il potere e poi sopprimerlo. Siamo davanti a una nota tecnica rivendicativa utilizzata da fascisti, comunisti e altri nemici della libertà. Ai quali perciò, il liberalismo, per ragioni di sopravvivenza, non può, anzi non deve, concedere il minimo spazio di libertà. Anche digitale, quando tecnicamente possibile. Proprio per evitare il rischio del Cavallo di Troia.

C’è un principio giuridico che riassume bene il secondo caso: “Summum ius summa iniuria «il sommo diritto è somma ingiustizia»). Cosa voleva dire Cicerone (De Officiis I, 10)? Che l’uso rigoroso e indiscriminato di un diritto o l’applicazione rigida di una norma può diventare un’ingiustizia.

A riprova di quanto diciamo va letta la dichiarazione di Musk, molto amato da Fratelli d’Italia. Magnifico esemplare di “ricco” che adora il libro e il moschetto ” Si legga qui:

«”E’ il 2023 e in Europa si viene giustiziati per il like a un meme”, scrive Musk. X è sotto i riflettori dell’Unione Europea, e in particolare del commissario Thierry Breton, per le attività di contrasto all’odio online e alla disinformazione. Musk, anche nelle interazioni con gli utenti, fa spesso riferimento al ‘free speech’, la libertà di poter esprimere pensiero e opinioni. Ora, l’arresto di Durov accende ulteriormente il dibattito. Il numero 1 di Telegram rischia “20 anni…” di carcere, osserva Musk, che definisce i tempi attuali “pericolosi” e si schiera tra i sostenitori dell’hashtag #FreePavel prima di ironizzare sulla posizione della Francia in relazione ai diritti: “Liberté. Liberté! Liberté?”. Quindi, risponde con un perentorio ”100%” a chi afferma che ”oggi tocca a Telegram, domani tocca a X”. Quindi, il riferimento al secondo emendamento, che negli Stati Uniti sancisce che “il diritto dei cittadini di possedere e portare armi non potrà essere violato”. E’ l’unico motivo, dice Musk, per cui il primo emendamento – che tutela la libertà di parola – sarà rispettato» (*).

Si notino le false informazioni: nessuno in Europa viene giustiziato per un like o un meme. Che poi ciò sarà possibile in futuro è una pura e semplice illazione di Musk. I 20 anni di prigione, se ricordiamo bene, rinviano al massimo della pena. Infine il collegamento improprio tra la libertà individuale di portare le armi e la difesa armata delle libertà di pensiero, oltre a essere minaccioso, è potenzialmente fascista.

Insomma, libro (digitale, la piattaforma, con la scusa del primo emendamento) e moschetto (secondo emendamento) fascista perfetto. Come dicevamo: “Summum ius summa iniuria”.

Qui sorge il problema del ricco che ha sposato la causa fascista. Trump, Musk, probabilmente Durov, usano la libertà di parola per sopprimere la libertà di parola. La destra, che non ha mai smesso di odiare con tutte le sue forze il miliardario Soros accusandolo di finanziare i movimenti politici antifascisti (atteggiamento, al contrario, meritorio), ora ha i suoi miliardari che incoraggiano il movimenti fascisti. Mettendo a disposizione delle camicie nere digitali, l’arma fortissima delle piattaforme.

Amore corrisposto: si noti l’apertura filoDurov (e soprattutto filoMusk) del “Secolo d’Italia”, che dietro la foglia di fico della Fondazione Alleanza Nazionale, fa da soffietto quotidiano a Fratelli d’Italia. E per estensione da Guardia Bianca a Musk, Durov e Trump. I nostri  complimenti e auguri alla destra sociale…

Un marxista ci accuserebbe di aver fatto la scoperta dell’acqua calda: i capitalisti sono fascisti per Dna. Per riformulare quanto sopra: “Capitale e moschetto fascista perfetto”.

Non è così. Che dire di Soros e di tanti miliardari di sinistra da Gates fino a De Benedetti? Si pensi a questo proposito alla Lettera di Davos dei duecentocinquanta ultraricchi fieri di essere tassati (“Proud to Pay”) (**).

A dire il vero la celebrazione dell’agente delle tasse è troppo. Però indica che dietro ogni grande fortuna non si nasconde il fascismo. Molto spesso c’è il filantropo. Insomma, il fascismo non è una scelta in automatico, come sostengono i marxisti.

Però è altrettanto vero, come visto, che esiste il ricco che si fa fascista. E questo oggi può essere un problema.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/telegram-durov-arresto-musk-cosa-dice_7ufmwxrDLHvB8XzKajS4Bg .

(**) Qui: https://www.rainews.it/articoli/2024/01/davos-lettera-di-250-miliardari-vogliamo-essere-tassati-fieri-di-pagare-08589a90-e69d-4305-b36f-286cf91f668f.html .

domenica 25 agosto 2024

Kamala Harris, Donald Trump e l’indecenza politica

 


Alla destra Kamala Harris non piace. Pensiamo alla destra pseudoculturale dei Socci, dei Veneziani, che parla, con battute da avanspettacolo, di "Kamaleontismo". Si  ride della  sinistra italiana  alla quale invece Kamala piace. E allora, pur di svergognare i post comunisti (guai però a toccare i post fascisti…), giù insulti, risalendo fino a Togliatti, eccetera, eccetera.

Crediamo, che al di là delle grandi questioni che pone e porrà sempre il realismo politico, anzi metapolitico, esista una fondamentale questione di decenza politica.

Intanto che cos’è la decenza? Ecco la definizione da vocabolario: “Decoro, convenienza, pudore, in armonia con il rispetto dovuto alle esigenze morali e del vivere civile: vestire, parlare, comportarsi con decenza; offendere la decenza pubblica”.

E sul piano politico? La decenza politica fu storicamente introdotta dal liberalismo. Si chiama anche rispetto per l’avversario. Dicesi pure tolleranza. Constant, seppure diagonalmente, dedicò pagine interessanti alla questione, come pure Tocqueville. Ma vanno rilette le opere di Norbert Elias sull’origine della moderna civiltà della buone maniere. Infine restano tuttora valide le divagazioni di Elena Croce sullo snobismo liberale.

La decenza politica consiste nell’evitare accuratamente di ricorrere all’insulto politico. Nell’evitare toni e argomenti triviali. Per dirla in altro modo: la decenza politica implica il rifiuto di delegittimare l’avversario. La decenza politica rifiuta l’indecenza della riduzione dell’avversario a orrida macchietta. E qui si pensi, ad esempio, agli stereotipi antisemiti. Anche perché, come prova la storia dell’estremismo politico novecentesco, si comincia con l’irrisione e si finisce con l’eliminazione fisica dell’avversario politico, liquidato, ridendo e scherzando, come nemico assoluto. 

Insomma chi pratica l'indecenza politica è  politicamente indecente. E si è indecenti politici perché si pratica l'indecenza politica.  Cerchio chiuso.

Detto questo si apre un’altra questione. Quella di come si possa sostenere (al di là delle conseguenze negative di tipo politico) un candidato indecente come Donald Trump e irridere una candidata decente (al di là della scelte politiche che possono piacere o meno) come Kamala Harris.

Da una parte c’è un pazzo invasato, che ha già tentato un colpo di stato, dall’altra una normalissima donna con idee di sinistra, liberal come si dice negli Stati Uniti. Due pesi, due misure (potrà pensare il lettore)? Chi invita all’assalto di Capitol Hill, condivide una cultura della violenza politica che non ha nulla a che vedere con la pur antipatica cultura del politicamente corretto. Un cosa è fare, un’altra è dire.

Probabilmente, nel mondo di oggi, dove i comici, assurti a leader politici o comunque a consiglieri del principe, fanno oggetto di derisione in televisione e sui social tutti e tutto, la decenza politica è andata a farsi benedire.

Donald Trump, pur non essendo un comico, ha un passato di conosciuto e focoso conduttore televisivo. Negli ultimi anni la scienza politica, dopo avere studiato a fondo il ruolo del mass media e dei social nella trasformazione della comunicazione politica, ha confermato ciò che è sotto gli occhi di tutti (ovviamente di coloro che “vogliono” vedere): che la retorica comunicativa si è fatta violenta e volgare. Indecente in una parola. E Donald Trump ne è un classico esempio. Ma si pensi pure a Grillo in Italia. Il leader delle grandi manifestazioni di piazza all’insegna del “vaffa”. Un uomo che ha creato da zero un movimento, poi tramutatosi in partito di governo, che ha fatto dell’indecenza politica la propria bandiera.

Diciamo allora, per tornare alla destra, che Socci e Veneziani (ma che dire di un “fine” storico dell’arte, come Vittorio Sgarbi?) sono due consumati esempi di un giornalismo che ignora il concetto di decenza politica. Va detto che Veneziani, il “filosofo”, così dice di se stesso, ha dietro di sé una “tradizione” di indecenza politica che risale a Pitigrilli, scrittore satirico molto apprezzato nell’Italia di Mussolini.

Insomma, essere dalla parte di Kamala Harris, i cui programmi politici, ripetiamo, possono piacere o meno, significa comunque stare dalla parte della decenza politica.

Dicono però che anche Kamala Harris, come molti democratici, non sia proprio tenera verso Trump.

Cosa diceva Montanelli? Grande giornalista liberale che conosceva, e perciò voleva evitare, sia i fascisti che i comunisti? Turarsi il naso e votare i partiti dalla parte della liberal-democrazia. E di riflesso della decenza politica.

Trump, la cosa è innegabile, ha delle pericolose potenzialità fasciste.  

Donald va evitato come la peste. Perciò, turarsi il naso e simpatizzare.

Kamala val bene una messa nel politicamente corretto. 

Carlo Gambescia

sabato 24 agosto 2024

A proposito di liberal-socialismo…

 


Le riforme liberali del presidente Milei  stanno incontrando fortissimi ostacoli in Argentina (*), società che ha inventato il peronismo, succedaneo del fascismo. Quasi inevitabile insomma.

Del resto, al punto in cui siamo, disintossicarsi dallo stato è difficilissimo. Forse impossibile.

Per le società non occidentali, che neppure conoscono il liberalismo, il ruolo del potere politico, e della sua principale incarnazione lo stato, è qualcosa di naturale. Ovviamente con correzioni associative ( familistiche o castali) di tipo geopolitico e storico che rimandano al recepimento o meno dell’individualismo moderno. In Cina, Giappone, India l’individuo ancora oggi non è al centro della scena politica, sociale, economica. Naturalmente stendiamo un velo pietoso sul mondo islamico.

In Occidente il pericolo è un altro: lo statalismo. Si potrebbe parlare di un vero e proprio nemico interno, che ha contagiato anche il liberalismo. Esiste infatti, ed è egemonico in campo politico, il cosiddetto liberal-socialismo, con il trattino che unisce ideologie un tempo opposte.

Anche se,  a dire il vero, saremmo davanti a una forma di socialismo-liberale che scorge nello stato, a differenza del liberalismo, il supremo regolatore degli interessi individuali. Una resa incondizionata del liberalismo al socialismo. Ne abbiamo scritto in un nostro libro, al quale rinviamo il lettore (**), definendolo liberalismo macro-archico, per diversificare da altre forme di liberalismo (an-archico, micro-archico, archico).

Per inciso, il liberal-socialismo o il socialismo-liberale di oggi è cosa assai lontana dall'arioso socialismo liberale (senza trattino) di Carlo Rosselli, assassinato dai fascisti con il fratello Alberto, che designava nello stato non una specie di suprematista politico ma un gruppo politico tra gli altri. Cosa non facile da realizzare, come mostra la sorte del ghildismo britannico divorato dallo statalismo laburista del secondo dopoguerra.

I regimi attuali di welfare, che si distinguono per la crescente regolazione di ogni tipo di diritto anche il più bizzarro, sono di tipo liberal-socialista (scegliamo quest'ultima definizione, pur con le riserve di cui sopra sull'intrusività socialista). Si pensi a Sánchez in Spagna, Macron in Francia, Scholz In Germania e forse Starmer in Gran Bretagna. Per carità, sempre meglio delle destre populiste o neofasciste, comunque altrettanto stataliste. Come del resto scrivevamo ieri (***).

Però il governo liberal-socialista con la scusa di tutelare l’individuo favorisce una crescente legificazione, su tutti e tutto (ultimamente l’assillo principale è quello ecologico), erodendo la libertà individuale in nome dell’ individualismo assistito. Per capirsi, si pensi al più classico dei principi liberal-socialisti, recepito anche dalla nostra Costituzione (art. 42): si riconosce il diritto di proprietà ma lo si sottopone all’interesse generale. Con una mano si dà, con l’altra si toglie.

Il veleno è nell’interesse pubblico, qualcosa di indefinito che riflette linee ideologiche, di volta in volta differenti, e che viene implementato da costose e inefficienti burocrazie, che sono tali proprio perché burocrazie, e non perché gestite male.

La sintesi del nostro discorso è la seguente: a ogni nuovo diritto corrisponde una nuova burocrazia. Si vuole morire? Perfetto, si creano commissioni che decideranno, eccetera. Si vuole cambiare sesso? Perfetto, si creano commissioni, eccetera. E così via.

Ecco il modo di ragionare del liberal-socialismo. E, ripetiamo, si tratta di individualismo protetto, si fa per dire, dalle burocrazie statali.

La burocrazia, dal momento che è una struttura gerarchica, verticale, che risponde a regole rigide e fisse, ha tempi di realizzazione degli obiettivi lunghi rispetto ad esempio alla brevità realizzativa del sistema delle imprese che si muove all’interno di strutture orizzontali come quelle di mercato.

Anche un’ impresa, può al suo interno rispondere a criteri gerarchici, ma all’esterno deve rispondere a un’economia di mercato che si muove su criteri mobili e non rigidi come i prezzi ad esempio, quindi orizzontali. E i prezzi dipendono dalla produttività e la produttività dalla libera concorrenza. Si tratta di un circolo virtuoso, estraneo alle burocrazie pubbliche che si comportano come gelose monopoliste di un mercato che controllano in modo ferreo. Ovviamente anche il mercato può sfociare in forme monopolistiche e oligopolistiche. Ecco il mercato “può” sfociare. Per contro lo stato “è” monopolista dalla nascita, per così dire.

La burocrazia è irriformabile proprio perché nasce e vive in regime di monopolio. Il che significa che quanto più si riduce il monopolio dello stato e della burocrazia, tanto più ci si avvicina a una società concorrenziale e liberale.

Per contro lo stato dovrebbe fare più di un passo indietro e tornare alle sue funzioni basiche, difesa e polizia interna. Lasciando che le persone regolino da sole i propri interessi. Per morire o cambiare sesso, basta un notaio. Si dirà che qualcuno potrebbe approfittarne. Vero. Purtroppo, non esistono società perfette: prive di truffatori, ladri e violenti. Si tratta di un rischio che ogni società liberale, se vuole essere tale, non può non correre.

Lo stato “dovrebbe”. Abbiamo usato il condizionale. Perché, e qui nasce un problema che è lo stesso in cui si è incagliato Milei. Anni e anni di welfare, vero cedimento liberale alle idee socialiste, frutto velenoso di un inutile mea culpa . Solo per dirne una al riguardo: se nel Settecento la Gran Bretagna fosse stata impregnata di idee liberal-socialiste mai avremmo avuto la Rivoluzione industriale. Perciò zero scuse. Andrebbe invece fatto un monumento all' "industrializzatore".

Dicevamo di anni e anni e di welfare. Purtroppo la welfarizzazione liberal-socialista ha provocato una specie di mutamento antropologico: la gente comune, oggi come oggi, alla libertà preferisce la sicurezza. Pertanto, anche la Signora Thatcher, se tornasse in vita, avrebbe i suoi problemi. Inoltre, cosa non secondaria, le burocrazie pubbliche, nel frattempo si sono fatte ancora più forti. Perché le burocrazie welfariste, delle Asl, dei ministeri, della scuola, ma anche dei comuni, delle regioni,eccetera, dovrebbe rinunciare ai propri privilegi? Insomma, non basterebbe, se ci si passa la battuta, il lanciafiamme.

Va detto che qualsiasi timido tentativo di riforma del welfare state, per evitare la crisi fiscale dello stato, anche da parte di liberal-socialisti in qualche misura consapevoli come Macron, ha condotto a feroci reazione populiste. Pertanto, allo stato attuale, il welfare occidentale, se per un verso continua a incrementare le spesa pubblica, rischia lo strangolamento da debito pubblico; se per l’altro prova a ridurlo, rischia reazioni populiste, con pesanti e pericolose derive politiche fascio-comuniste (per usare un termine giornalistico). Insomma un vicolo cieco.

Ieri scrivevamo della casa che brucia. Purtroppo la welfarizzazione sociale si è spinta troppo avanti. Leggevamo di Kamala Harris, candidato decente e comunque preferibile a Trump, che parla di controllo dei prezzi. Una misura liberal-socialista…

Cadono le braccia. Si accetta in pratica la dinamica autodistruttiva di cui parlavamo ieri: più la società liberale cede alla critiche dei suoi nemici (populisti, fascisti, comunisti), più si affida al welfare state, rischiando di tramutarsi in una società totalitaria, perché il dolciastro individualismo assistito, non ha nulla in comune con l’individualismo eroico dei marinai, dei mercanti, degli artigiani di genio, degli scienziati, degli imprenditori, che ha fatto grande l’Occidente. E più i suoi nemici giocano al rialzo. E così via. Fino a esaurimento di scorte e diritti.

Sì, la casa brucia. E sarà molto difficile, forse impossibile, spegnere l’incendio.

Carlo Gambescia

(*) Si legga qui: https://www.lanacion.com.ar/politica/la-amenaza-de-la-ampliacion-del-antimileismo-nid22082024/ .
 

(**) Carlo Gambescia, Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin, Edizioni Il Foglio, 2012.
 

(***) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/08/la-casa-brucia-sul-totalitarismo.html .

venerdì 23 agosto 2024

La casa brucia. Sul “totalitarismo” liberale

 


Gli storici delle idee fanno risalire la critica al liberalismo, e in particolare ai suoi presunti contenuti dittatoriali, al pensiero controrivoluzionario dell’Ottocento, fiorito durante e dopo la Rivoluzione francese. Allora i termini totalitario e totalitarismo ancora non erano conosciuti sul piano politico.

Augusto Del Noce, acutissimo filosofo, sostenne, in modo documentato, che molte delle critiche del pensiero reazionario, critiche che vagheggiavano il ritorno all’ antico regime, furono recepite pari pari dal pensiero rivoluzionario, in particolare da Marx e in seguito da alcuni epigoni, sviatisi, come Sorel.

Se per Joseph de Maistre, il liberalismo era frutto del cupo demonio libertino, per Marx era figlio del geniale satana borghese. Semplifichiamo. Ovviamente per aiutare il lettore a capire meglio.

In realtà, il liberalismo, mescolandosi sempre più alla democrazia, apportò progresso, benessere, pace, grazie anche allo sviluppo della società di mercato (“capitalistica”, per i suoi nemici).

Nonostante ciò, i suoi nemici, a destra e sinistra, continuarono a proclamare la totale falsità delle libertà borghesi, politiche, economiche e civili.

Negli anni Cinquanta (ma in parte anche prima), dopo la Seconda guerra mondiale che aveva sancito, almeno sul campo, la sconfitta dei nemici a destra del liberalismo (fascisti e nazionalsocialisti), si diffuse, in particolare a sinistra (ma non solo, Del Noce parlò in seguito, questa volta a sproposito del consumismo come di una fase profana del totalitarismo), l’idea che fascismo e liberalismo non fossero che i due volti del totalitarismo borghese. Quindi alla prossima fermata dell’autobus della storia si doveva scaraventare fuori il passeggero liberale.

Di conseguenza, durante e dopo il Sessantotto, grande momento di trasformazione culturale che però accanto al lato libertario ne affiancò un altro decisamente rivoluzionario e terroristico, si contestarono, anche in modo violento, le inutili e pericolose libertà borghesi. Era una menzogna, ma in pochi ( e inascoltati) se ne accorsero.

Già prima del Sessantotto erano fioriti sul piano intellettuale numerosi studi ( si pensi, ovviamente a un livello molto alto, alla Scuola di Francoforte), che dottamente o meno, sottolineavano i presunti aspetti totalitari della società occidentale, che, prigioniera del consumismo e di un falso benessere, opprimeva gli uomini, tramutandoli in automi economici.

Nei decenni successivi, sulla scia dell’antieconomicismo, si saldò di nuovo un’alleanza, ovviamente non di tipo politico diretto, tra la critica di destra e di sinistra alla società liberal-democratica. In Francia e in Italia, si pensi al ruolo di Toni Negri, ma anche alla aperture di Alain de Benoist nei riguardi di Costanzo Preve (e viceversa), la sinistra anticapitalista ritornava all’irrazionalismo moralistico di Georges Sorel, pensatore dei primi del Novecento, che alimentò, con i suoi scritti – Mussolini per primo ne riconobbe il debito – quel catastrofico marasma intellettuale che fu il fascismo.

Insomma, alla base di questo comune e rinnovato attacco al liberalismo, si può ritrovare una specie di anticapitalismo etico, anzi moralistico, giustizialista. Si tratta di una pericolosa eredità oggi raccolta dai movimenti ecologisti. Sotto questo profilo il cammino politico di un Serge Latouche, dal comunismo all’ecologia profonda, resta esemplare. L’ecologismo, in particolare nelle sue forme più estreme, tra l’altro oggi abbastanza diffuse, rappresenta una specie di continuazione dell’antiliberalismo ottocentesco, in nome non più del ritorno alla società di antico regime o del trionfo del comunismo, ma della salvezza della Terra.

Non va dimenticato che accanto all’anticapitalismo si è sviluppato un robusto statalismo, frutto di un atto di fede nel ruolo dello stato come grande giustiziere antiborghese, antiliberale, anticapitalista. Lo stesso liberalismo, cedendo ai suoi nemici e ammettendo colpe inesistenti, si è adeguato favorendo l’edificazione nel XX secolo dello stato assistenziale. Sotto questo profilo il welfare state non è altro che il frutto velenoso di un gigantesco e immotivato senso di colpa.

L’aspetto inquietante è che coloro che accusano il liberalismo di essere totalitario, poi si affidano all’opera allo stato, che invece nei suoi sviluppi totalitario lo è davvero. Per non parlare dell’ inevitabile e odiosa simpatia dei nemici del liberalismo per le dittature nemiche dell’Occidente.

Insomma, oggi, si assiste al paradosso di una società che gode di una meravigliosa libertà priva di precedenti storici, costretta ad arrancare sulla difensiva dai nemici della libertà che la accusano di essere totalitaria.

Si tratta di una vera e propria dinamica autodistruttiva: più la società liberale cede alla critiche, più si affida al welfare state, più rischia di tramutarsi in una società totalitaria, dando così ragione ai suoi nemici.

In realtà il welfarismo non è un prodotto del liberalismo, ma di un inutile mea culpa che dà vilmente ragione alle correnti politiche, a destra e sinistra, che criticano il totalitarismo di una società che invece non è totalitaria.

La casa brucia. E noi assistiamo impotenti a un rogo sempre più devastante.

Una tragedia politica.

Carlo Gambescia

giovedì 22 agosto 2024

Da Giorgio a Giorgia. Il libro intervista di Marco Tarchi

 


Non è bello, ma probabilmente onesto, ritenere che Le tre età della fiamma (*), libro intervista di Antonio Carioti a Marco Tarchi, non dica, almeno a noi,   nulla di nuovo. Detto altrimenti, nulla toglie nulla aggiunge, se non nel numero delle pagine, a Cinquant’anni di nostalgia, degli stessi autori, uscito trent’anni fa a ridosso dello sdoganamento berlusconiano (**).

Insistiamo. Non è bello dire certe cose. Tarchi, oggi settantenne, ha dedicato la sua vita di accademico allo studio del fascismo e del postfascismo, perciò può giustamente dispiacersi. Chiediamo scusa in anticipo al nostro direttore, dal quale tanto abbiamo appreso.

Di Tarchi, abbiamo sempre apprezzato, rispetto a figure, intellettualmente frivole, come Alessandro Campi e Marcello Veneziani, il vivere appartato dagli onori del mondo. Per usare un termine che sarebbe piaciuto al Renzo De Felice, giovane studioso del giacobinismo, ancora oggi ammiriamo il suo spartanismo intellettuale.

Si citano Campi e Veneziani, perché Tarchi, proviene dall’universo missino, prima che professore universitario fu giovanissimo dirigente, espulso, con altri, da Almirante, che gli preferì, come dirigente apicale del movimento giovanile il mediocre Gianfranco Fini. Di qui la scelta tarchiana per l’accademia e per l’attività metapolitica, nel senso del lavoro culturale, con alcune notevoli riviste da lui fondate.

In qualche misura, Tarchi, come intellettuale deluso dalla politica, non ha mai sposato la causa del realismo politico, come di solito accade. Su “Diorama”, in particolare, rivista di punta del tarchismo metapolitico, da quasi cinquant’anni, la cosiddetta cultura della “nuove sintesi”, seppure con una certa classe,  non ha mai disconosciuto tematiche romantiche, talvolta diluite, talaltra no, care al fascismo di sinistra: antiliberalismo, antiamericanismo, anticapitalismo.

E qui veniamo ai contenuti della nostra affermazione iniziale.

Una brevissima premessa. Un sistema politico non è qualcosa di astratto. Il mondo occidentale, euro-americano pratica da almeno due secoli la democrazia parlamentare, l’economia di mercato, lo stato di diritto. Tre fondamentali componenti del sistema liberal-democratico. Quindi qualcosa che è esistito ed esiste. Sotto questo aspetto nazionalsocialismo, fascismo e comunismo hanno rappresentato una durissima reazione antisistemica. Nel senso di voler sostituire con la violenza al sistema liberal-democratico un sistema basato su valori opposti.

Ora, fascismo e post fascismo (diciamo pure i fascisti dopo Mussolini) non hanno mai smesso di essere tali. Vi è stata sì, una accettazione del sistema liberal-democratico, ma per ragioni tattiche. Da un punto di vista strategico-culturale il Movimento Sociale (ripetiamo il partito dei fascisti dopo Mussolini) ha continuato ad attingere alle fonti della cultura della tentazione fascista, nel senso degli stereotipi indicati nel bel libro di Tarmo Kunnas (*). Mentre su quello politico ha avuto la meglio una specie di pragmatismo mussoliniano, in parte culturalmente ereditato, in parte ambientale, quale esito del fumo passivo del tatticismo parlamentare repubblicano. A tale proposito si è parlato di integrazione passiva, prima del Movimento Sociale, poi di Alleanza Nazionale, nel sistema liberal-democratico.

Cosa rimprovera Tarchi a Fratelli d’Italia? Non l’integrazione attiva in un sistema politico che la destra postfascista ha sempre avversato, e che lo stesso Tarchi, già movimentista missino, ancora contrasta seppure con eleganza e tatto accademico, ma di non essersi trasformata in una forza politica capace di superare il discrimine destra-sinistra. Vecchio cavallo di battaglia del fascismo di sinistra.

Ad esempio, alla Meloni (ma le stesse critiche sono e furono rivolte ad Almirante, sempre da Tarchi, già cinquant’anni fa) si rimprovera il pragmatismo rispetto alle linee forti del né destra né sinistra del cosiddetto fascismo antisistemico.

Cioè, in buona sostanza, Tarchi rimprovera alla destra post fascista la perdita della sua identità antisistemica. Il tema dell’integrazione sistemica passiva si tramuta nel  tema della disintegrazione missina. A Tarchi non sembra interessare la questione dell’integrazione attiva. Perché, ecco il punto, continua a civettare, seppure in modo forbito, con la cultura della tentazione fascista. Insomma a non apprezzare di fatto la cultura liberale. Si dirà che non è un reato. Certo.  Però uno studioso non può indagare il sistema liberale con gli  strumenti euristici del sistema non liberale. A ogni sistema la sua euristica. Ferma restando, in prospettiva, la necessità di una comune cassetta (concettuale)  degli attrezzi. Cosa, è vero, non facile da perseguire.

Questa incomprensione del sistema liberal-democratico  porta Tarchi  a sottovalutare, come accade sul fronte politico ai neofascisti duri e puri, la pericolosità di una integrazione passiva nel sistema liberal-democratico di un partito, che, per dirla alla buona, non ha mai fatto i conti con fascismo. Fratelli d’Italia incarna, come sistema di mentalità, l’anima profondamente autoritaria, tipica del fascismo-stato. Che Tarchi, come fascista di sinistra (semplifichiamo), quindi movimentista, detesta.

Non solo questo però. La cultura delle “nuove sintesi”, da lui reinventata e capace di inverare per dirla con Del Noce destra e sinistra, resta agli antipodi del sistema liberal-democratico, fondato invece sulla distinzione destra-sinistra.

Come del resto non è assimilabile alla liberal-democrazia l’autoritarismo ben coltivato da Fratelli d’Italia.

Cosa significa autoritarismo? Imporre con intransigenza la propria volontà politica. Siamo perciò davanti al rifiuto della mediazione liberale, del riconoscimento dei diritti dell’avversario, della tolleranza in genere. Sotto questo aspetto Fratelli d’Italia, che guarda al plebiscitarismo, caricaturizza la sinistra, demonizza il migrante,  è decisamente fuori del sistema liberal-democratico.

Non siamo noi a dirlo, ma Tarmo Kunnas, quando enumera le caratteristiche della “tentazione fascista”. Non solo autoritarismo, ma irrazionalismo, sfiducia nell’uomo, negazione del progresso, lotta per la vita, antiegualitarismo, e così via. La destra di Fratelli d’Italia è eversiva.

Che poi, per dirla con il Belli, “chi amministra amminestra”, vi sia un elettorato moderato che si riconosce nell’ abile influencer Giorgia Meloni o che la stessa si serva  astutamente  del concetto di afascismo, rinvia alla comunicazione politica. Cioè alla carta più o meno colorata con cui viene impacchettato e infiocchettato l’autoritarismo a sfondo fascista e antiliberale di Fratelli d’Italia.

Oggi purtroppo la scienza politica attribuisce un’importanza esagerata alla retorica comunicativa, che in realtà non è altro che forma rivolta a nascondere contenuti in realtà eversivi del sistema liberal-democratico, come nel caso di Fratelli d’Italia. Su questi aspetti oscuri si veda l’eccellente libro di Luciano Cheles, Iconografia della destra. La propaganda figurativa da Almirante a Meloni (Viella, Roma 2023). Ci si ritrova davanti a una spaventosa continuità di contenuti fascisti “profondi”. Quasi a livello subliminale

Riassumendo, sulla tentazione fascista ( per capirsi) Tarchi tace o ripete, sebbene in modo più elegante, le critiche della destra extraparlamentare alla destra parlamentare.

Probabilmente, non gli piace l’autoritarismo, ma non è neppure liberale. Vagheggia “nuove sintesi”. Il che sarebbe pure un passettino avanti rispetto al “né destra né sinistra”. Ma verso quale direzione? Non per nulla molti fascisti di sinistra passarono armi e bagagli al comunismo. Altra forza antisistemica.

Un libro, ripetiamo, che nulla toglie nulla aggiunge, soprattutto per chi abbia letto l’altro volume, quello del 1995.

Carlo Gambescia

(*) Marco Tarchi con Antonio Carioti, Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni, Solferino, Milano 2024.

(**) Marco Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra dopo il fascismo, intervista di Antonio Carioti, Rizzoli, Milano 1995.

(***) Tarmo Kunnas, La tentazione fascista, presentazione di Marco Tarchi, Akropolis, Napoli 1981.

mercoledì 21 agosto 2024

In fuga dalla libertà. I pellegrini politici di Putin

 


Putin è così fiero dei valori tradizionali russi, al punto di invitare a trasferirsi in Russia tutti coloro, in particolare gli studenti, che li condividono e si sentono nei loro paesi “perseguitati” dal “globalismo liberista”. A tale proposito ha approvato un decreto che ne faciliterà l’ingresso, eccetera, eccetera (*).

A prima vista non c’è nulla di male. Anzi da un punto di vista politico la misura può essere interessante per scoprire il numero di veri ammiratori tra i giovani, del sistema politico russo. Si pensi a un gigantesco sondaggio d’opinione “con i piedi”.

Molti lettori ricorderanno il caso, per ora unico, della studentessa Irene Cecchin, trasferitasi a studiare in Russia, bisognosa, come pare, del “sostegno umanitario” di Mosca (**).

Un paese liberale, a meno che non sia in stato di guerra, diciamo ufficialmente, non può impedire ( anzi non deve) ai suoi cittadini di trasferirsi ovunque essi desiderino. Come pure è tenuto a mantenere aperte le sue porte a tutti. La logica liberale è ubi bene, ibi patria. Purtroppo, ecco un aspetto interessante, nel caso di Mosca non vale la reciproca: ai russi, giovani o meno, è vietato trasferirsi all’estero, per condividere i valori occidentali. I russi non sono liberali.

Che cosa possa spingere un giovane a riconoscersi nei “tradizionali valori” russi non è di facile individuazione. Probabilmente la causa è nello spirito di contraddizione che caratterizza il conflitto intergenerazionale tra padri e figli. Semplificando: il padre dice A, il figlio risponde B, e così via.

Quanto agli adulti si tratta chiaramente di forme di disadattamento sociale, di mancato inserimento nell’ambiente socioculturale di nascita e di provenienza. Cioè “no” e “fuga” sono quasi sempre frutto di un fallimento sociale che si tramuta in scelta politica, spesso radicale e irrazionale nel senso della sua finalizzazione (si predica la libertà per poi finire in carcere).

Del resto credere che la stessa Russia che ha aggredito l’Ucraina sia interessata alla pace del mondo ha dell’incredibile. Quasi come ritenere  che gli asini possano volare, o, stessa cosa,  credere nella natura pacifista del movimento terrorista  Hamas.  Sono idee contrarie al senso comune. Eppure.

Esiste comunque un problema di fondo, che rinvia all’altra faccia della medaglia liberale.

Il sistema liberale occidentale per un verso è fondato sulla libertà, per l’altro i suoi cittadini sembrano non esserne fieri. Per contro, i russi che da secoli neppure sanno cosa sia la libertà si mostrano fieri di essere schiavi.

Non è facile contrastare il concetto politico di servitù volontaria. Lo schiavo che vuole essere schiavo difficilmente cambia le sue idee. Ovviamente, come dicevamo ieri, idee frutto di una razionalizzazione-giustificazione, che nel caso russo si risolve nella celebrazione dei valori tradizionali, eccetera, eccetera.

La stessa logica della schiavitù volontaria può essere estesa ai pellegrini politici che sognano di trasferirsi in Russia. Si pensi, come precedente storico-politico (ma anche sociologico), agli ammiratori della Germania nazista, dell’Italia fascista e della Russia comunista tra le due guerre mondiali. Entusiasti di visitare e addirittura trasferirsi nei paradisi totalitari.

Che fare? Si dice che l’ Occidente debba nutrire più rispetto e orgoglio per i propri valori. Ma come? Purtroppo la libertà ha come controindicazione il rifiuto della libertà. Si può usare la forza, come una specie di trattamento politico obbligatorio, per impedire ai pellegrini politici  di commettere atti di autolesionismo politico?

Sarebbe una misura ripugnante.

Cosa pensare allora? Che la libertà rappresenta al tempo stesso il punto di forza e di debolezza dell’Occidente. Magari ci si può consolare con il fatto che i pellegrini politici, cioè gli aspiranti schiavi, al momento siano pochissimi.

Può bastare? No. Perché esiste a livello di massa un atteggiamento di diffusa indifferenza verso la liberal-democrazia e l’idea stessa di libertà. Un impiegato, un artigiano, un commesso, una cassiera, un tassista, un agricoltore, eccetera, non sono toccati dalla soppressione di un giornale, dal licenziamento di un professore universitario, dall’imprigionamento di un dissidente politico.

Per quale ragione? Perché il “popolo” liquida l'esercizio della libertà di pensiero come un’ occupazione da ricchi sognatori o da intellettuali sfaccendati: “Io mi alzo presto ogni mattina, non ho tempo per occuparmi di politica”.

Si tratta dello scivoloso terreno sociale che favorisce la nascita delle dittature: “Che importa votare se un buon tiranno si occupa del mio bene perché sa quel che è bene per me?”.

Sotto questo aspetto il principale rischio del nostro tempo è la fuga dalla libertà (“Io mi faccio i fatti miei”) che può favorire la possibile saldatura politica tra i pellegrini della schiavitù e l’ indifferentismo politico di massa. Pura dinamite metapolitica.

Attenzione, non si tratta della fuga dalla libertà “psicanalizzata” da Fromm, in uno sciagurato e fin troppo fortunato libretto, in cui si mettono sullo stesso piano capitalismo, comunismo e fascismo, ipotizzando, come alternativa alla società occidentale , un mondo perfetto e irrealizzabile basato su una miracolosa riforma della personalità individuale.

Il vero rischio, che tutti corriamo, è quello di una fuga dalle libertà concrete dell’Occidente, frutto di un preciso sistema politico ed economico, sicuramente imperfetto, che può piacere o meno, ma che può essere definito, in modo altrettanto certo, migliore di tanti altri sistemi. A cominciare dall’autocrazia moscovita.

In definitiva l’autentico punto della questione è il seguente: come veicolare all’interno della società occidentale, soprattutto tra le masse (perché i pellegrini politici sono irrecuperabili), il senso collettivo, e prima ancora individuale, di una libertà imperfetta, che proprio perché tale è superiore all’assenza di libertà?

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.lastampa.it/esteri/2024/08/20/news/putin_asilo_agli_occidentali-14569506/ .
(**) Qui: https://www.lastampa.it/cronaca/2024/02/22/news/studentessa_irene_cecchini_putin-14090122/
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