Ciò che colpisce, più del silenzio dei ragazzi, è il rumore degli adulti. L’esame di maturità diventa pretesto per proiettare le proprie ansie: la sinistra vede lo studente “resistente” alla scuola tornata a calcare le orme della reazione sempre in agguato; la destra, il ribelle viziato che disprezza l’impegno, il dovere, dio, patria e famiglia.
Due stupidi santini politici.
In realtà questi studenti non vogliono abbattere l’istruzione pubblica. Semplicemente, forse, non ci credono più. Né nella scuola, né in quello che rappresenta. E questo, francamente, è un sentimento molto più diffuso e profondo di quanto piaccia ammettere.
Diciamo che la protesta ci ricorda che viviamo in un’epoca in cui si parla troppo di scuola. E per giunta idealizzandola. Si pontifica sull’ istruzione come sinonimo di educazione: si celebra una specie di nuova religione civile.
L’idea è antica. Risale a Socrate: si crede e pretende che la conoscenza formi il carattere, renda liberi, migliori le persone. Il che può valere, forse, per una élite fortemente motivata. E fino a certo punto come vedremo più avanti.
Però, soprattutto nella scuola di massa, si insegnano “competenze”, come se la vita fosse un modulo da compilare. Il che non è del tutto falso, perché le nozioni servono. Però è sopravvalutato. Gli esseri umani sono quel che sono. Soprattutto non sono angeli e mai lo diverranno. I miracoli lasciamoli ai santi.
Per citare un esempio attuale: basti pensare agli Stati Uniti, dove persino il Federalist, monumento di saggezza politica e costituzionale, scritto da uomini colti e consapevoli del limite umano, da 250 anni letto, citato, commentato o comunque orecchiato, non ha impedito l’emergere di figure come Donald Trump. E non parliamo di un outsider privo di istruzione — ha frequentato ottime scuole — né di un elettorato analfabeta. Tutt’altro: molti suoi sostenitori sanno leggere, scrivere, votare, partecipare. Eppure questo non li ha resi più responsabili o più civicamente e politicamente maturi. Il punto non è solo l’individuo, ma l’illusione che la conoscenza basti a formare coscienze. Non è così.
L’istruzione, per quanto importante, non vaccina contro la demagogia, la superficialità o la paura.
Insomma, ci dispiace per Socrate, ma l’istruzione, anche quando promossa a cultura, non è virtù. Si può essere colti e meschini, ignoranti e leali. La conoscenza non redime. Non salva l’anima. Non garantisce né felicità né giustizia. E la scuola, con tutto il rispetto, non è il laboratorio del futuro. È un’istituzione. Serve, certo. Ma non è sacra e neppure salvifica. Si deve prendere atto di questo.
Pertanto uno studente che tace non va né applaudito né sanzionato moralmente. Ha agito secondo coscienza. Bene. Il che è profondamente liberale. Ma non si pontifichi, celebrando la rivoluzione. Lo studente che resta zitto non è un nuovo (e mitizzato) Pasolini. E nemmeno un arcinemico dello stato come presume la destra
Forse è solo un giovane che ha smesso di credere in una certa pedagogia morale, quella in cui tutto deve essere valutato, verbalizzato, votato, incasellato.
E in fondo, come potrebbe essere altrimenti? Una scuola di massa non può che adottare logiche di massa. È il limite strutturale delle democrazie liberali nelle società di massa: l’impossibilità di conciliare quantità e qualità.
Si potrebbe persino parlare della tragedia di un liberalismo che si illude socratico ma resta, in fondo, scarsamente realista.
A questo si aggiunge un dato ancora più radicale e disarmante: gli esseri umani sono ciò che sono. E la maggior parte, anche con un diploma o una laurea in tasca, non diventa per questo moralmente migliore. E di questo il liberalismo, per non farsi utopico, deve tenere conto.
Gli studenti, forse, si limitano a dire — col silenzio — che non si identificano né col docente, né con l’antidocente. Né con la scuola, né con l’antiscuola. Forse.
In realtà, se c’è una lezione, è questa: abbiamo sopravvalutato la parola istruzione che non è sinonimo di educazione, per giunta civile e politica. Di esseri migliori insomma.
Continuiamo a chiedere troppo alla scuola: di salvarci, di formarci, di indicarci il bene. E magari, ogni tanto, un ragazzo che volontariamente tace davanti alla commissione ci sta solo ricordando che sapere non è essere.
Tuttavia, proprio per non cadere nel disincanto sterile, si potrebbe provare — almeno — a distinguere tra ciò che possiamo aspettarci dalla scuola e ciò che dobbiamo costruire altrove: nel lavoro, nella politica, nella vita pubblica. Forse così, anche il silenzio dei ragazzi, diverrebbe occasione per riformulare meglio le nostre domande.
In fondo, ripetiamo, sapere non è essere.
E si può anche non parlare, senza per questo voler distruggere tutto.
Carlo Gambescia

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