lunedì 30 settembre 2024

Austria e dintorni. La stupidità di votare per l’estrema destra

 


La vittoria del FPO in Austria, ora primo partito, come del resto l’avanzata in tutta Europa dell’estrema destra, rimanda al tema, da noi più volte affrontato della “tentazione fascista” (*). E della stupidità dell’elettore.

Esageriamo? Si segua il nostro ragionamento.

Innanzitutto non siamo davanti – in Austria, Francia, Spagna, Italia, Germania, eccetera – a normali partiti conservatori (la destra conservatrice) che hanno fatto tesoro della lezione del 1945. Semplificando: mai più fascismo. Di qui la necessità di usare il termine estrema destra.

È estrema nel senso che il fascismo resta un peccato di gola, una tentazione superalcolica. Non si sognano “restaurazioni”, come i legittimisti durante e dopo il Congresso di Vienna (1814-1815). Insomma né parrucche incipriate né camicie nere, ma si predica comunque lo stato forte e la volontà della Nazione, proprio come durante fascismo. Al riguardo si potrebbe parlare differenze di grado non di genere. Per dirla alla buona, di dosaggio.

Per usare una metafora alcolica, per ora ci si accontenta di un bicchierino dopo i pasti. Ma il fascino di scolarsi una bottiglia alla prima occasione è sempre grande.

Purtroppo nazionalismo e statalismo, finché non si tramutano in guerre (che magari si stanno perdendo) rappresentano, come ci dicono le indagini sociologiche, fattori di grande richiamo per la gente comune. Cosa c’è di più semplice, anzi di semplicistico, da capire del classico concetto del "prima gli italiani", "prima i francesi", "prima gli austriaci", eccetera?

Resta, ovviamente, una domanda: perché ora? Dal 1945, in particolare l’ estrema destra non ha avuto alcune voce in capitolo. Puro folclore. L’estrema destra si è risvegliata intorno agli anni Novanta, sull’onda lunga della crisi fiscale della stato e dell’inasprirsi della questione migratoria. L’angoscia dell’europeo medio (diciamo così) di perdere i diritti welfaristi in favore dell’immigrato ha causato un forte spostamento a destra dell’elettorato.

In sintesi, alla base del successo dell’ estrema destra c’è la questione migratoria collegata a quella del welfare state da redistribuire a tutti, “stranieri” inclusi, a fronte però – si dice – di risorse sempre più ridotte da destinare allo stato sociale.

Però sul punto specifico le destre europee rischiano di arenarsi. Vittime di se stesse. Perché il nazionalismo, una volta tramutatosi in misure economiche, preclude o comunque rende complicati gli scambi con l’estero. Il che va a incidere, e pesantemente, sulla crescita della ricchezza nazionale in punti pil. E di conseguenza sulla famosa torta da redistribuire.

Le destre estreme lasciano che gli elettori coltivino l’illusione che una volta sbattuta in faccia la porta all’ “allogeno” ce ne sarà di più per gli “autoctoni”. In realtà, la grandezza della torta dipende dalla capacità di un’economia di competere con le altre economie.

Di conseguenza più si punta sull’autosufficienza, di risorse, merci e uomini, più si riducono le possibilità di crescita. Perché esiste una asimmetria tra risorse interne finite e risorse esterne infinite.

Risorse infinite ( o comunque di un ordine grandezza superiore a quelle interne a ogni paese), sulle quali si sviluppa, in termini di divisione del lavoro, una competizione internazionale, per lo più pacifica, che permette di accrescere la ricchezza nazionale, la famosa torta, che, se  invece privata di fonti esterne, finisce, regolarmemte, per non bastare per tutti.

Semplificando, l’autarchia nazionalista impoverisce, il mercato internazionale arricchisce. Ed è un discorso che vale anche per i grandi blocchi geopolitici (altro mitema adorato dalle destre), a partire dalla bizzarra idea di un’ “Europa fortezza”, progetto che non sarebbe altro che il proseguimento del nazionalismo con gli stessi mezzi ma su scala europea. Un specie di prolungamento continentale dell’impoverimento nazionalista.

Si dirà – i soliti critici – che l’economia di mercato arricchisce i pochi e fortunati. In realtà, la storia economica degli ultimi tre secoli prova che non è così. Per contro, il nazionalismo, ha sempre condotto a guerre e povertà. Come prova la storia della prima metà del Novecento.

Dicevamo all’inizio della “tentazione fascista” che tanto fascino esercita sull’ estrema destra, e di riflesso, senza neppure rendersi conto, sull’ elettore vittima dell’angoscia da perdita del welfare. Il concetto ponte – insomma la “tentazione” – che può collegare il fascismo di ieri a quello di oggi, facendo fermentare la stupidità dell’elettore, è rappresentato dal concetto di autarchia. Popolarissimo, prima tra gli intellettuali degli anni Venti e Trenta del Novecento in cerca di emozioni forti, poi tra i fascisti di regime.

L’ idea che l’ autosufficienza (oggi l’autarchia si chiama così) di beni, merci e uomini renda la torta più grande è un’autentica menzogna. Eppure la gente stupidamente vi crede, favorendo così la corsa verso il potere dell’estrema destra.

Il risveglio, perché non potrà non esservi risveglio quando il consumatore troverà gli scaffali vuoti, sarà molto brusco. Solo allora si capirà la stupidità di un voto, praticamente rubato. Troppo tardi, come altre volte nella storia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=tentazione+fascista .

domenica 29 settembre 2024

La “protesta planetaria” contro il regime nazionalsocialista di Maduro

 


La giornata di  protesta in tutto il mondo contro la dittatura di Maduro è  cosa buona e giusta.  La si è definita una “protesta planetaria”.

Il Venezuela, da più di trent’anni, prima con  Chávez  poi con Maduro, è ostaggio di una ideologia politica affine al nazionalsocialismo. Che pratica il totale controllo dell’economia privata, afferma il ruolo del partito unico, cancella ogni forma di opposizione che non sia teleguidata dall’alto, predica infine il nazionalismo più feroce.

Probabilmente i venezuelani sono allo stremo delle forze, però la struttura politica della dittatura sembra reggere, nonostante tutto. Un esempio è rappresentato dalla mobilitazione interna seguita alle accuse rivolte a Maduro di aver truccato le elezioni. Accuse probabilmente fondate dal momento che i risultati non sono stati resi pubblici.

Il consenso viene strappato grazie a un vigliacco sistema di tesseramento capillare: chi non è madurista non mangia. E riceve la visita dei suoi quadroni politici della morte.

Si potrebbe fare lo stesso discorso per Cuba, che però tutto sommato, negli ultimi anni si è aperta quel tanto che basta per incamerare valuta pregiata, ad esempio, attraverso il turismo. Il Venezuela, anche se volesse, allo stato attuale, depauperato moralmente e tecnologicamente, non sarebbe in grado di avviare alcuna attività del genere.

Il petrolio, tuttora prima ricchezza del paese, viene prodotto in quantità minima e grossolana (petrolio extrapesante), per assenza di capitali di investimento interni e soprattutto esterni, penalizzati dalle politiche autarchiche della dittatura.

Politiche che, per dirla alla buona, come per la famosa regola del ciuccio a scuola che teme di sfigurare con il primo di classe, rifiutano, facendo di necessità virtù, di ammodernare il sistema estrattivo e al tempo stesso di farlo ammodernare da altri ricorrendo al capitale tecnologico e finanziario straniero. Per restare in metafora, Maduro pretende che il primo e l’ultimo della classe non studino. Tutti ciucci insomma. La famosa regola socialista di tagliare le teste alle persone affinché si pervenga a un’altezza uguale per tutti.

I sostenitori di Maduro e in passato di Chávez – e purtroppo ne esistono anche in Europa – sostengono – semplificando – che Maduro vuole costruire il socialismo in un solo paese e impedire che tornino i petrolieri americani. Quindi bisogna stringere la cinghia, eccetera, eccetera.

In fondo sono le stesse tesi di Lenin e Stalin e di Fidel Castro e Che Guevara. Ma che  ricordano anche quelle delle cosiddette dittature di sviluppo (economico), come il fascismo in Italia e il peronismo in Argentina. Si può perciò parlare di una specie di socialismo nazionale. 

Di qui, come detto, le affinità ideologiche con il nazionalsocialismo, che però nacque sull’onda altissima di un feroce nazionalismo a sfondo razziale, abbattutasi con la forza di un  tifone su una  società già sviluppata economicamente.

Sono cose che  andrebbero ricordate. Ma non tutti, anche tra gli oppositori di Maduro, accettano di mettere sullo stesso piano socialismo e fascismo. Firmando così una cambiale in bianco a biechi personaggi come il dittatore venezuelano. 

Ora il punto è che le dittature di sviluppo, socialiste o fasciste che siano, non funzionano. Alla fine la verità storica ed economica si vendica  sempre, come accaduto in Unione Sovietica e nei paesi un tempo imprigionati dietro la Cortina di ferro. La stessa Argentina paga tuttora le conseguenze politiche ed economiche del peronismo. 

Per contro, lo sviluppo capitalistico funziona: le miracolose trasformazioni apportate da tre secoli di progresso, a meno che non si sia ideologicamente ottusi, sono sotto gli occhi di tutti. Le attuali concessioni della Cina al mercato per quanto strumentali, sono un altro punto a favore del capitalismo.

Solo Maduro sembra non capire. Si accusa Washington di imperialismo, per dare sapore al piatto di minestra e ai cerotti distribuiti, via tessera, dal regime nazional-socialista o socialista nazionale (che è la stessa cosa) venezuelano.

Una vergogna, contro la quale è giusto protestare.

Però potrà bastare, per quanto nobile, una “protesta planetaria”?

Carlo Gambescia

sabato 28 settembre 2024

Netanyahu. Averne di statisti così in Occidente…

 


Premessa. Se ci si pensa bene, sono dei veri deficienti, politicamente parlando. L’espressione non è da forbito saggio politologico (tipo Ispi, per tenersi in casa), ma crediamo renda bene l’idea di forte deficit politico di Hamas. Che, ecco il punto, ha scatenato, nel momento meno opportuno, una fortissima reazione di Israele, che sta risultando vincente. E forse risolutiva.

Potrebbe esservi dietro il Mossad? Meglio così. Bravi due volte. Gli israeliani, ovviamente.

Fatti contenti i complottisti, torniamo all’ azione comunque inopportuna di Hamas. Per quale ragione? Perché la Russia è in guerra, una guerra stupida ( che si potrebbe tramutare nelle Malvine russe, in crisi di regime), scatenata da Mosca stessa. La Russia, nelle condizioni in cui si trova, non può aiutare nessuno (anzi sono Cina e Iran ad aiutare la Russia…).

La Giordania tace. Il Libano è inerme, la Siria indebolita, l’Iraq normalizzato. La Turchia non può tradire l’Occidente (ha un debito pubblico che fa paura, e che i russi non possono comprare, mentre dei cinesi Ankara tuttora non si fida). L’Egitto non si espone. La Libia è a pezzi. Tunisia e Algeria hanno gravissimi problemi politici ed economici interni. Il Marocco si tiene al di sopra delle parti. L’Arabia Saudita, per quanto riottosa, rimane in campo occidentale. Emirati piccoli e piccolissimi hanno scelto la cautela.

Lo stato islamico azzerato. Quanto a  Houthi e "pirati"  del Golfo persico, puro folclore politico, da Tg delle 20. L’unico stato indocile, ma privo di vere risorse militari resta l’Iran, una specie di Tigre di Carta (che minaccia, proprio come Putin, ma non “attua”). L’Iran andrebbe “normalizzato”. Riportato alla condizione, anche di buona vita, precedente alla catastrofica rivoluzione islamista del 1979, che ha portato solo guerra, povertà e oscurantismo.

Siamo andati di corsa. Forse troppo. E ci scusiamo. Però venendo al punto, in queste condizioni, Netanyahu, vero statista, contando anche sull’appoggio americano e mettendo pure in conto la pavidità europea, si sarà detto: “Ora o mai più”. Anche perché, la Cina in Medio Oriente, di fatto, non vuole mettere piede.

Israele dopo aver schiacciato o quasi Hamas, dopo una magnifica operazione di Intelligence, quella sui cercapersone,( che in futuro sarà studiata nelle scuole dei servizi segreti di tutto il mondo), ora sta colpendo i terroristi Hezbollah. Benissimo, avanti tutta.

Probabilmente, fin qui, abbiamo parlato troppo di Israele. Cosa necessaria, perché l’Occidente euro-americano può trarre solo vantaggi dall’ opera israeliana di normalizzazione del Medio Oriente. Perché schiacciare la componente terrorista e fondamentalista, come è avvenuto con lo Stato Islamico, significa, riportare la pace. Pace armata, ma pace.

Dopo di che, l’unico pericolo resterebbe quello rappresentato dall’Iran. E qui servirà unità colossale di intenti in Occidente per “normalizzarlo” , o con una rivoluzione interna, o con un’azione militare, o entrambe le cose. Sempre che non ci pensi prima Israele.

Pertanto il primo pilastro di una politica estera dell’Occidente è rappresentato dall’appoggio pieno (quindi anche militare, economico, eccetera) alla normalizzazione del Medio Oriente, che Israele sta portando militarmente.

Il secondo pilastro, è costituito dall’ appoggio pieno dell’Occidente all’Ucraina, fino al punto di ridurre Mosca a miti consigli.

Il terzo pilastro, è dato dal distacco della Cina dalla Russia. Come? Lavorando sul piano delle pressioni economiche, senza però metterla per l’angolo. Sopire e troncare, troncare e sopire (come consigliava il Conte Zio manzoniano). Promettere vagamente Taiwan, senza però avere l’intenzione di cederlo. La Cina va spinta a uscire allo scoperto. Anche militarmente. Non ha grandi tradizioni militari. Anche perché la Cina rimane storicamente affetta da violenti e improvvisi processi centrifughi. Inoltre dal momento che la Cina è retta da un regime autoritario, come la Russia, può valere anche per Pechino la regola della sindrome delle Malvine. Cioè della guerra esterna che fa cadere il regime interno. Certo la Cina non è l’Argentina. Il che, però, a dirla tutta, implicherebbe tempi ancora più lunghi di riorganizzazione. Come dopo la caduta della dinastia Han (posteriori).

Dopo di che ciò che resterebbe dei cosidetti Brics (Brasile, India, e stati minori) non sarebbe più un problema per l’Occidente.

Il vero punto critico è che l’Occidente euro-americano è diviso al suo interno, ciancia di pace, soprattutto l’Europa che si illude circa il valore della politica (sbagliatissima) del chiudersi a riccio. Lo stesso discorso può essere esteso al possibile ritorno all’ isolazionismo legato a una vittoria Trump. Il magnate americano di politica non capisce nulla : 1) vuole rompere con la Cina; 3) vuole cedere sull’Ucraina, sperando che poi 3) la Russia dia una mano agli Stati Uniti sull’Iran.

Una presidenza Trump sarebbe catastrofica per la politica estera dell’Occidente. Come sono altrettanto deleterie le tendenze politiche delle destre nazionaliste europee, alcune già al potere, come in Italia. Non pochi, tra questi partiti, sono addirittura al soldo di Mosca. Una vera e proprio quinta colonna dei nemici dell’Occidente.

Li si osservi all’opera:  criminalizzano Netanyauh e condannano Israele, ma non la Russia di Putin, noto e pacifico collezionista di farfalle; parlano di pace, ma non sono contrari alla costruzione di centrali atomiche in Iran, e così via.

Purtroppo, come già detto, l’Occidente è diviso. Con nemici interni che fanno del loro meglio per alimentare le divisioni: lupi pacifisti della peggiore specie, quella che si vende al nemico. Più che disfattisti, traditori.

Non sarà facile. Perché per battersi, e qui si impari da Israele, occorre essere (pre-)muniti di spirito combattivo. Spirito che nasce dalla coesione intoro a valori e interessi comuni.

Inoltre, cosa fondamentale, l’Occidente non dispone di statisti del calibro di Netanyauh. Si narra che Clinton, disse di lui, dopo un colloquio a Washington, che si dava troppe arie. Clinton è nato nel 1946, Netanyahu nel 1949. Il primo è in “pensione” da anni. Mentre Netanyauh, tuttora in carica, fa faville politiche. Si dirà che Clinton si è bruciato per correre dietro alle gonnelle (come si diceva un tempo). Vero. Però le donne piacciono anche a Netanyauh. Con una differenza: che il Premier israeliano ha una marcia politica in più.

Averne di statisti del suo calibro in Occidente…

Carlo Gambescia

venerdì 27 settembre 2024

Claretta & Ben, Giorgetta & El

 


Gli storici scrivono che Clara (Claretta) Petacci, l’amante del duce, era molto più destra di Mussolini. “Lui” era più pragmatico e disincantato, addirittura pessimista cosmico, soprattutto negli ultimi anni di guerra civile, al di là delle recite ufficiali per i feroci illusi dell’ultimo fascismo. Claretta invece era filotedesca, anzi filonazista, “ala dura”, cresciuta fin da bambina nel culto del superuomo Mussolini e del destino progressivo dell’Impero risorto sui colli di Roma fascista. Una carnevalata finita malissimo. Per Claretta & Ben a piazzale Loreto.

A questo pensavamo, a proposito dei pettegolezzi su una storia romantica tra Giorgia Meloni, “Giorgetta”, al comando di un governo e di un partito di destra, che non vuole parlare del fascismo, perché “cosa accaduta ottant’anni fa”, e Mister Elon Musk, “El”, signor duecentocinquanta miliardi, di origine sudafricane. Un Sudafrica dove regnava una rigorosa apartheid: per inciso ci piacerebbe sapere cosa pensa tuttora Musk del Mandela in prigione quando il futuro miliardario era poco più di un fortunato ragazzo bianco, solo perché bianco. Dicevamo di Musk ricchissimo, proprietario e fondatore tra le altre cose di Tesla (auto elettriche), Space X (compagni aerospaziale) e di X (piattaforma social).

Tra Giorgetta & El, prima tutto, come per la coppia Ben & Claretta, c’è grande affinità ideologica. Per dirla alla buona: “chi si somiglia, si piglia”. Meloni e Musk condividono idee di estrema destra su nazione, diritti civili, immigrazione. Musk, solo per dirne una, in ottobre sarà ospite speciale di Salvini a Pontida (come in passato della Meloni), in compagnia di Le Pen, Orbán e altri leader della destra dura europea. Inoltre Musk appoggia apertamente Trump, pericoloso disadattato politico di estrema destra che potrebbe essere eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti. I popoli sono stupidi. Ma questa è un’altra storia.

Tuttavia nel caso di una relazione romantica, del resto per ora solo ipotizzata (ufficialmente “Giorgetta & El si sarebbero visti solo tre volte, compresa la “seratina” occhi negli occhi), Elon Musk assumerebbe il ruolo di Claretta. Mentre Giorgia Meloni, astuta, camaleontica, opportunista, quello di Ben. Il Mussolini, che da vero camaleonte fino all’ultimo, per salvare la pelle, tentò un abboccamento, fallito definitivamente negli ultimi giorni dell’ aprile del 1945, con la componente socialista del Comitato di Liberazione, calpestando il delirio politico delle brigate nere alle quali aveva promesso un’ultima resistenza nel mitico “ridotto della Valtellina”.

Anche sotto l’ aspetto economico si può rilevare una certa somiglianza, però a parti rovesciate, Mussolini gratificò economicamente la Petacci e la sua famiglia. Per contro, qui sarebbe Musk-Claretta, a gratificare Meloni-Ben investendo in Italia. Quindi nulla di personale. Però il meccanismo amoroso-economico sarebbe lo stesso.

Va tuttavia sottolineato che in luglio la Commissione europea ha accusato il social media X di violare le regole europee sui servizi digitali, Musk-Claretta rischia una multa fino al sei per cento del fatturato. E qui Meloni-Ben potrebbe, almeno in teoria, favorire un ammorbidemento della Commissione.

Come si può intuire, tra Meloni-Ben e Musk-Claretta ballano i miliardi.

Ovviamente i nostri ragionamenti sono fondati su una pura ipotesi, quella della storia romantica. Se però così fosse, si spera, non solo per loro ma per tutti noi, che non finisca come l’altra volta. A piazzale Loreto.

Carlo Gambescia

giovedì 26 settembre 2024

Quem Iuppiter vult perdere dementat prius (Quell’ “Occidente” che rema contro Israele)

 


Piccola premessa. Esiste una regola tacita, praticata nel giornalismo: anche il più illustre dei collaboratori, rischia il posto, se come incipit usa una frase in latino. Peggio ancora nel titolo. 

Per quale ragione? Perché si dice che il lettore volti subito pagina, temendo di non riuscire a capire tutto il ragionamento che deriva dal latinorum.

Insomma, si rischia l’ editoriale senza lettori. Noi proviamo lo stesso: “Quem Iuppiter vult perdere dementat prius”… Espressione di incerta attribuzione. Comunque sia, cosa significa esattamente? Detto alla buona: che spesso ci si rovina con le proprie mani.

Un passo indietro. Si prenda la crisi medio-orientale. I palestinesi, per dirla fuori dai denti, non se li fila più nessuno. Se mai qualcuno se li è filati. Perfino tra i paesi arabi e islamici. Ovviamente, a parte l’Iran e i soliti noti, diciamo, Hamas e Hezbollah (l'Olp, se viva, batta un colpo...), organizzazioni paramilitari, con spiccati profili terroristici, di derivazione sunnita la prima, sciita la seconda. Dietro i primi si scorgono gli aiutini dell’Arabia Saudita, dietro i secondi quelli dell’Iran. Tutto qui .

Per contro, non pochi mass media dell’Occidente euro-americano sono schierati con i palestinesi. Oggi, si pensi solo ai giornali italiani, si grida all’invasione, alla guerra addirittura atomica (*).

Siamo dinanzi a uno schieramento trasversale che va dalla destra alla sinistra. I sinceri amici di Israele in Occidente sono pochi. Sembra prevalere un forte dissenso, mediatico-politico interno, naturalmente ben visto (e foraggiato secondo alcuni osservatori) da Russia e Cina, nemici dell’Occidente euro-americano. Soprattutto Mosca per ora.

Al di là dei valori, pur importantissimi, quale sarebbe il vero interesse dell’Occidente? Che Israele, bastione dell’Occidente in Medio Oriente, unico stato liberal-democratico dell’intera area, continui a giocare – per dirla brutalmente – il suo fondamentale ruolo di avamposto armato, in stile Fort Apache. In attesa di tempi migliori. Cioè fino a quando i suoi nemici non si rassegneranno. Con le buone o con le cattive. Perché Israele è più forte militarmente. E deve restare tale. Quindi va sempre sostenuto. Sarebbe stupido non farlo.

E invece cosa succede? Che l’Europa in particolare fa il gioco dei nemici di Israele. Invece di appoggiare apertamente il necessario lavoro di bonifica dal terrorismo. Si badi non è in atto una guerra, come si legge sulla stampa italiana, europea e perfino americana, né è in corso un’operazione speciale alla russa, che viola una sovranità, che invece in Libano e nei territori palestinesi non esiste, da un pezzo nel primo caso, da sempre nel secondo.

Dicevamo una specie di operazione di polizia, su larga scala, con implicazioni ovviamente di tipo militare. E quindi perdite tra i civili, usati come scudi umani dai terroristi. Sono morti che purtroppo “fanno” propaganda politica anti-israeliana. Prontamente ripresa dai mass media occidentali, che si producono nella sadica “conta” giornaliera dei bambini uccisi.

Ad esempio, subito appoggiata dai suoi giornali, Giorgia Meloni ha ambiguamente dichiarato che vanno protetti i civili. Come si può proteggere uno scudo umano? Certo, si può fare, solo però rinunciando a una necessaria operazione di polizia. Israele non vuole “genocidizzare” nessuno (altro argomento propagandistico), ma solo mettere al sicuro, eliminando i terroristi, i suoi confini interni ed esterni. Punto.

Questo atteggiamento, “alla Meloni”, rilanciato dai media, per capirsi, “Stiamo con Israele, ma…”, è deleterio . In Europa ci  comportiamo, in modo anomalo, contro il nostro stesso interesse. In modo stupido. E qui si viene alla spiegazione dell’incipit: "Quem Iuppiter vult perdere dementat prius". Tradotto: "Giove toglie prima il senno a colui ch’egli vuol mandare in rovina".

Si parla di guerra causata da Israele, come se il 7 ottobre fosse un giorno come un altro. Prima stupidaggine, che se ripetuta, funziona come la famigerata menzogna di Goebbels, ripetuta mille volte che si tramuta verità. Si grida anche al lupo al lupo della guerra atomica, facendo così un favore ai russi, altri aggressori, che da par loro minacciano, un giorno sì l'altro pure,  l’uso di armi non convenzionali, per difendersi dall’ “aggressivo imperialismo” dell’ Occidente. Seconda stupidaggine, che se, ripetuta, eccetera, eccetera.

Insomma, si contribuisce a creare un clima sfavorevole intorno a Israele. E a far crescere la stupidità collettiva in quantità industriale. Il tutto avviene in Europa dove la destra antisemita sta tornando al potere. E dove la sinistra, purtroppo, in non pochi casi, si nasconde dietro l’antisionismo, che non è altro che la prosecuzione dell’antisemitismo con altri mezzi dialettici.

Insomma, la ragione dice Israele, la stupidità dice Hezbollah e Hamas. Sì, “Quem Iuppiter vult perdere dementat prius”…

Carlo Gambescia

(*) Qui (per la stampa italiana): https://www.giornalone.it/. Qui (per quella estera): https://es.kiosko.net/ .

mercoledì 25 settembre 2024

Il decoro come utopia. “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti

 


Ieri sera ho visto in tv “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti. La prima cosa da notare è che il luogo comune sulla somiglianza da vecchi tra genitori e figli è vero. Oggi Nanni Moretti è quasi uguale al padre Luigi (nella foto sotto).

Venendo alla critica del film, non ho competenze tecniche, ma sociologiche sì. E sotto questo aspetto la pellicola è interessante per mettere a fuoco la figura del dolente post comunista di oggi (per citare “La terrazza” di Scola). Si pensi all’intellettuale di sinistra, con origini borghesi, dalla luna perennemente storta, che non si riconosce più non solo nel partito comunista ma in tutti quei partiti che provengono dal mondo del post comunismo italiano.

Si sogna ancora la rivoluzione d’Ottobre del 1917 ma non si riesce a dimenticare il 1956: l’invasione dell’Ungheria liquidata dai russi come sordido teatro di una controrivoluzione. Si continua a vedere in quei fatti l’ occasione perduta per farla finita con l’abbraccio mortale dell’Unione Sovietica, opportunità che i comunisti italiani non colsero. La pellicola ruota intorno a un appuntamento mancato con la storia. Di qui la luna storta. Per ciò che non fu.


 

L’ elemento tragico – innegabile – è nel contrasto tra grandezza passata, il 1917, e l’impotenza presente, che deriva dall’ “errore” del 1956. Una specie di  traversata del deserto, mai finita. Il Vittorio Gassman di Scola  che si veste un poco meglio,  ma rompe sempre i coglioni (pardon).

Si badi bene, un mare di sabbia , privo di oasi, dove però, nonostante la scarsità di acqua, gli abiti a brandelli, eccetera, l’intellettuale Moretti, cerca puntigliosamente di mantenere la sua igiene quotidiana. 

Come? Evocando, nonostante tutto, il valore dell’utopia, o se si vuole di un inconsapevole principio blochiano di speranza, filtrato però attraverso una chiassosa e fellinania morale da Cinecittà, come prova nelle ultime battute del film la sfilata in stile Quarto Stato con tecnici, figuranti e attori, elefanti e quant’altro. Mancava solo la musica di Nino Rota.

 


Un decoro che si chiama utopia. Come dire? Levatemi tutto ma non il ferro da stiro. Un film che dal punto di vista di una antropologia dell’italiano può essere oggi definito sub-culturale. Chi si cura più del dolente comunista postmoderno? Una minoranza di impietriti (secondo altri, di impettiti), che come i soldati britannici del famoso “ The Bridge on the River Kwai”, con divise consunte ma pulite  e stirate o quasi, cerca ormai solo di salvare le apparenze. Il decoro appunto.

Come? Ripetiamo, tornando al valore dell’utopia. Del ferro da stiro.

Il che potrebbe essere se non  giustificato, perdonato. 

Ma che c’entra, e qui pensiamo al finale del film, la gigantografia di Trotsky? Portata in giro come quella della Madonna? Un comunista che era più duro di Lenin e Stalin messi insieme? E che agli ungheresi, avrebbe fatto il pelo e il contropelo?

Carlo Gambescia

martedì 24 settembre 2024

Giorgia Meloni e i due occidentalismi

 


Dobbiamo ammettere un certo imbarazzo. Almeno a prima vista. Nel discorso all’Onu e poi per così dire nel tête-à-tête con Musk, in occasione della consegna del Global Citizen Award (*), Giorgia Meloni ha detto cose non liberali, ma sicuramente “dalla parte dell’Occidente”. Che possono colpire l’attenzione anche di un liberale: multilaterialismo e critica dell’ autocrazia.

Però, solo per un attimo. Dal momento che Giorgia Meloni in realtà non ha speso una  parola sul significato dell’atlantismo, come  apportatore storico dei valori liberal-democratici.

Si rifletta su un punto, non secondario. Non si è parlato, partendo dal 1776, di un’ era  "atlantica" delle rivoluzioni democratiche  (il grande libro di Palmer, scritto sessant’anni fa, con pochi lettori in Italia), sedimentata negli Stati Uniti e nella Francia del 1789. Per giungere  al galoppo al 1945 e al 1989-1991. Anni spartiacque, in e per l’ Occidente: tra i difensori della libertà e i suoi nemici.

Esageriamo? "Roba" troppo da intellettuali, che vedono ovunque astrusi collegamenti?

Diciamo intanto, che ancora prima dei suoi elettori, è la stessa Giorgia Meloni a mostrare grandi limiti culturali, moltiplicati dall’analfabetismo illuminista dei consiglieri che la circondano, a partire da personaggi come Sangennaro, autore di prefazioni per sentito dire, e lo stesso Giuli, per il quale la storia comincia e finisce con Roma antica, meglio se arcaica e tribale.

Di conseguenza nei suoi discorsi all’Onu e alla Ziegfeld Ballroom, Giorgia Meloni non poteva volare alto. Oggettivamente. Perciò ha parlato, imbrogliando le carte, come gli studenti poco preparati di ciò che  sapeva o ricordava. Pertanto che ha fatto? Per dirla alla buona, si è buttata su ciò che conosce meglio, per eredità politica: il nazionalismo. Però sganciando la nazione, come prova il suo silenzio argomento, dalle Carte illuministe dei diritti dell’uomo e del cittadino: le vere radici dell’Occidente, grande difensore della società aperta.

Si vola troppo alto? Gli interessi della Meloni sono terra terra? E dettati dal giorno per giorno.?

Può darsi. In realtà, ammesso e non concesso lo sgrammaticato pragmatismo meloniano e dei suoi sodali, la difesa dell’Occidente sbandierata dinanzi all’Onu e davanti a Musk ( con un plusvalore di occhi dolci), è una difesa a metà (anche meno). Perché, si rifletta, che relazione possono avere le Carte dei diritti dell’uomo e del cittadino con i campi di concentramento per i migranti? Oppure con il Ddl sicurezza, appena approvato alla Camera, che tratta i detenuti nelle carceri, non pochi in attesa di giudizio, con criteri punitivi di epoca pre Beccaria. Detto altrimenti: in perfetto allineamento con una visione autocratica del diritto penale. O comunque ben avviata, per ora, verso il modello Orbán.

Si scorge il lato oscuro dell’Occidentalismo meloniano. Quale? Si riduce l’Occidente al concetto di nazione. Separandolo dalle Carte dei diritti. Prima viene la nazione poi l’individuo.

Ad esempio, il piano Mattei viene citato come un esempio di multilaterismo. Ora, a parte l’ inconsistenza economica del progetto (**), la sua articolazione  è basata sul più classico dei ricatti del potere: il rapporto di scambio  protezione-obbedienza: “Io stato italiano proteggo Te stato africano (stiamo semplificando) se impedirai ai tuoi cittadini di traferirsi in Italia”. Che poi, se trasposto sul piano europeo, significa la stessa cosa. “Io Europa, Tu Africa, eccetera, eccetera.

Il multilateralismo vero si svolge su un piano di parità. Di conseguenza il Piano Mattei è tutto eccetto che un esempio di multilateralismo.

Si noti poi un’altra cosa. Giorgia Meloni nei suoi discorsi non ha assolutamente speso una parola sul progetto di mercato transatlantico, di cui si era tanto parlato, e giustamente, tranne che negli ambienti nazionalisti, all’inizio degli anni Dieci del Duemila, durante la presidenza Obama.

Un presidente e un progetto che Trump ha sempre liquidato, da quel che complottista che era ed è, come il subdolo piano di un arcinemico degli Stati Uniti. Giorgia Meloni, come ogni buon nazionalista scorge nell’economia di mercato un fattore di dissoluzione dell’identità nazionale, figurarsi perciò un mercato Atlantico. Il che spiega il suo silenzio di occidentalista per caso o necessità.

Allora, concludendo, a cosa si riduce l’Occidentalismo di Giorgia Meloni? A una declamazione di quel che ha rappresentato la  grandezza e la rovina dell’Occidente: la nazione.

Grandezza, se collegata ai diritti dell’uomo, quindi pronta ad aprirsi all’ubi bene ibi patria. Rovina se sposata a idee razziste, quindi antilluministe e reazionarie, che vedono nella nazione il trionfo armato della razza.

Ovviamente sul piano giornalistico, dell’informazione rivolta alla gente comune, le nostre distinzioni risultano fin troppo sottili, addirittura incomprensibili, comunque petulanti e noiose.

Però, per capirsi, una volta per tutte: esiste un occidentalismo che pone i diritti prima della nazione e un occidentalismo che pone la nazione prima dei diritti. Il primo parla e si apre al mondo, il secondo parla a se stesso e si chiude al mondo.

Il primo può essere definito occidentalismo liberale, il secondo occidentalismo nazional-razziale. Giorgia Meloni e le nuove destre razziste difendono quest’ultimo.

Carlo Gambescia

(*) Per i testi dei discorsi, qui: https://www.governo.it/it/articolo/unga-lintervento-del-presidente-meloni-al-vertice-del-futuro/26616 e qui: https://www.governo.it/it/articolo/cerimonia-di-conferimento-del-global-citizen-awards-lintervento-del-presidente-meloni/26631 .

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/06/piano-mattei-tremila-trattori.html .

 

lunedì 23 settembre 2024

Zelensky e Netanyahu, ultimi centurioni dell’Occidente

 


Il romanzo di Jean Lartéguy, Les Centurions, pubblicato nel 1960, rimanda all’universo della decolonizzazione e alla debolezza di una Francia che mandava a combattere i suoi soldati – i romantici centurioni dello scrittore francese –  in Indocina e in Algeria, disarmati ideologicamente.

Un problema, non solo francese, che l’Occidente euro-americano non ha mai più risolto. Al suo interno, prevale tuttora la tesi dei suoi nemici: che l’Occidente in fondo difenda solo stesso, come accaduto per tutti gli altri cicli di civiltà. Con l’aggravante – sempre secondo i suoi nemici – di una società profondamente ipocrita che nasconde dietro lo sfavillante individualismo liberale una cupa volontà totalitaria. 

Sicché, a meno che l’Occidente non rinunci ai suoi valori, prima o poi si accartoccerà su stesso come un castello di carte. In sintesi l’Occidente deve smettere di essere Occidente. Per appagare una specie di relativismo assoluto e strumentale propugnato da un pacifismo autodistruttivo, ovviamente incoraggiato dall’esterno da russi, cinesi, hezbollah e altri “partiti di dio”, pieni zeppi di fondamentalisti e reazionari di ogni genere.

Sono idee diffuse, veicolate, e in modo martellante, appellandosi ai valori della pace e della giustizia. Si può essere contro la pace nel mondo? Non sia mai… In realtà sono pure razionalizzazioni-giustificazioni per nascondere – altro che i valori liberali … la scarsa voglia degli occidentali di battersi, se non, per dirla brutalmente, per assicurarsi pensioni più alte, servizi sociali di ogni tipo, cibi succulenti e altri piaceri, senza voler pagare alcun prezzo.

Di conseguenza, gli ultimi centurioni difensori dell’Occidente, uomini politici, se non addirittura autentici statisti come Zelensky e Netanyahu, sono visti in patria – nel senso del mondo euro-americano – come i paracadutisti francesi di Lartéguy: ospiti sgraditi, apportatori di sventura. Gente che turba il tranquillo tran tran quotidiano fatto di cappuccini con latte scremato, decaffeinato, cappuccini scuri, cappuccini chiari e cappuccini con latte freddo e caffè caldo…

Latérguy svela e punisce in modo icastico questa mentalità. Pensiamo in particolare a una pagina indimenticabile del suo romanzo.

Il capitano Boisfeuras, di ritorno dall’Indocina, giunto a Marsilia, prende un tassì. Il lettore non perda una sola parola dei dialogo che segue.

« “Dunque, signor capitano, è finalmente finita quella schifosa guerra?”.
“ Si è finita”.
“Noti bene che, personalmente , io rispetto le idee di tutti, ma quell’Indocina non potevamo davvero tenercela, dal momento che quelli che ci abitano non volevano più saperne di noi”.
Il tassì si era fermato davanti a un grande edificio moderno […].”
“ Ecco, signor capitano, è arrivato a casa dove la mogliettina l’aspetta. Non è meglio questo, della guerra? Sono 380 franchi. La mancia non è compresa. Se glielo dico, non è per offenderla, ma c’è di quelli che dimenticano, dopo essere rimasti tanto all’estero, le usanze della nostra bella Francia”.
L’autista aveva dato a quelle ultime parole tutto il loro peso.
Boisfeuras impacciato pensò. “Da disgustarti della ‘Bella Francia”.
Pagò, diede la mancia […]»
(*).

Con questo tipo di mentalità, non si può vincere alcuna guerra. Né armare altri, perché ci difendano. Al di là delle critiche, più o meno giuste, che si possano fare a Zelensky e Netanyahu, rimane, come dicevamo all’inizio, la questione del disarmo ideologico. Si badi bene non si tratta di tramutarsi in militaristi. Ma di comprendere, per dirla alla buona, che anche la libertà di cappuccino va difesa. Rischiando anche la vita.

Una necessità già avvertita, da Raymond Aron, grande pensatore liberale, che non era assolutamente un bellicista, quando asserì, si era nell’aprile del 1941, che «il futuro sarà delle democrazie rigenerate, militanti, virili, che credono in se stesse e nella loro missione» (**).

Non crediamo sia necessario aggiungere altro.

Carlo Gambescia

(*)J.Lartéguy, Né onore né gloria (Les Centurions, 1960), Garzanti, Milano 1966, p. 175.

(**) Citato in J. Molina, L’immaginazione del disastro. Raymond Aron realista politico, Il Foglio (di prossima pubblicazione), p. 71. Molina cita a sua volta da R.Aron, Chroniques de guerre. La France Libre, 1940-1945, Gallimard, Paris 1990, p. 439.

domenica 22 settembre 2024

Gli amici americani di Giorgia Meloni

 


Giorgia Meloni, zitta zitta (si fa per dire), si sta riposizionando verso Trump. La lunga marcia, non solo sua, potrebbe culminare in novembre con la vittoria elettorale del magnate statunitense e la conseguente svolta a destra, destra dura, isolazionista in politica estera e protezionista in economia.

La foto pubblicata su Fb da Giorgia Meloni, in compagnia di Mel Gibson, non è una cosa simpatica, uno scherzo, opera di due mattacchioni. Gibson, attore e regista, è la figura più rappresentativa del fondamentalismo religioso anti-Hollywood. Inutile dire che è un fans di Trump. Diciamo che è una specie di Steve Bannon con il pallino del cinema. Una cosa tremenda. Selfarsi con Gibson racchiude una vera e propria scelta politica per il lato peggiore degli Stati Uniti. A terrific bang…

Inoltre domani, 23 settembre,  Giorgia Meloni riceverà dalle mani di Musk, altro pericolosissimo disadattato politico, amico e finanziatore di Trump, un prestigioso premio: il “Global Citizen Awards”. Incredibile, una nazionalista sfegatata, per non dire di peggio, come la leader di Fratelli d’Italia, assurge a cittadina del mondo. Dispiace dirlo ma negli Usa si continua a capire poco (per usare un eufemismo) delle cose politiche italiane. Sembra che gli americani abbiano dimenticato che il fascismo fu inventato in Italia.

Si dice  che la Meloni abbia preteso la presenza di Musk, già suo ospite politico ad Atreju.  Al voto manca poco più di un mese.  Non è molto.  Che dire?  Se questa non è una scelta politica poco ci manca.

Capito? Questi sono gli amici americani di Giorgia Meloni: Gibson, Musk. E a breve Trump.

In Italia, i soliti melliflui commentatori politici parlano di prudenza meloniana verso Kamala Harris. Di posizione di equilibrio tra i due candidati. Si chieda, allora, alla Harris se è disposta a farsi un selfie con Gibson, da Hollywood bollato come fascista, o ricevere  un premio dalle mani di un nevrotico politico (per non dire altro) come Musk…

La destra, sempre a caccia di uomini forti, da idoleggiare, non sembra rendersi conto che l’elezione di Trump avrebbe conseguenze gravissime per l’economia mondiale e italiana in particolare. Perché la stretta protezionista colpirebbe le nostre esportazioni verso gli Stati Uniti: una cinquantina di miliardi all’anno. Inoltre il quadro geopolitico generale, vittima del neo-isolazionismo di Trump, andrebbe a peggiorare. Si pensi solo ai possibili danni per la voce turismo:  circa un centinaio di miliardi da tutto il mondo. In tutto, centocinquanta  miliardi l’anno. Il Pil italiano è di milleottocento miliardi. Quindi andiamo oltre la  diciottesima parte. Non poco.

Trump presidente sarebbe veramente una disgrazia (iattura avrebbe detto mio nonno). E non solo per l’Italia.

Un uomo, incostante di carattere ma dalle idee fondamentaliste, accentratore, violento, sospettoso, pronto a credere a qualsiasi fandonia complottista, una volta eletto, quindi al secondo mandato, perciò ancora più sicuro di sé, potrebbe addirittura apportare mutamenti istituzionali, volti a rafforzare i poteri presidenziali, con l’intenzione, per sua stessa ammissione, di punire i nemici politici. Trump è un presidente da guerra civile. Con conseguenze inenarrabili per tutto il mondo civile e liberale.

Per contro a trarre vantaggio dal vuoto politico americano sarebbero i nemici dell’Occidente: Russia, Cina e fondamentalismo islamico.

La cultura woke, il politicamente corretto, eccetera, fenomeni di costume, che l’imbastitura propagandista della destra dipinge come un pericolo, sono niente rispetto alla valanga politica reazionaria rappresentata negli Stati Uniti da Trump e Musk e in Europa da Meloni, Salvini, Abscal Conde, Orbán, Le Pen, Beck, Wilders e altri ancora.

In Italia, addirittura, la propaganda antiamericana, sotterranea o meno, è riuscita a presentare Biden come un rimbambito. In realtà, l’anziano presidente americano, che comunque ha fatto bene a passare la mano, ha fronteggiato molto bene l’aggressione russa all’Ucraina. Tanto di cappello.

Insomma, il nemico dell’Occidente liberale è ben oltre le porte della città, e lei, Giorgia Meloni, si fa un selfie con l’attore e regista politicamente più retrogrado degli Stati Uniti.

Se non è un  chiaro messaggio questo… Altro che il woke.

Carlo Gambescia

sabato 21 settembre 2024

Sul 20 Settembre

 


La ricorrenza è passata, proprio ieri, ma come ormai accade da decenni non se ne accorge più nessuno. Ovviamente parliamo del 20 Settembre 1870. Della liberazione di Roma dal potere temporale dei papi. Momento culminante di quel processo di unificazione politica che si chiama Risorgimento italiano. Che secondo alcuni storici, tra i padri dell’Interventismo democratico del 1915, ebbe la sua consacrazione definitiva con la Quarta Guerra d’Indipendenza e la liberazione di Trento e Trieste. Dopo di che nazionalismo e fascismo devastarono tutto.

Va detto che all’indomani della “Presa di Roma” (la famosa carica dei bersaglieri a Porta Pia), lo stato italiano impiegò venticinque anni per proclamare con una legge il “XX Settembre” festività nazionale: anno di grazia 1895.

Sono gli stessi anni dei lavori di sistemazione del Belvedere, al colle Gianicolo, con l’edificazione del monumento equestre dedicato a Garibaldi. O “Roma o morte”, vi si legge. Era Crispi al governo, uomo politico autoritario e mangiapreti. Ma già all’inizio del Novecento, a parte la fiammata libertaria ai tempi del sindaco Nathan (1907-1913), il 20 Settembre lo si celebrava in sordina.

Il fascismo addirittura cancellò la celebrazione e la legge delle Guarentigie (1871) , le cui disposizioni avevano scontentato sia clericali, che parteggiavano per il confessionalismo, sia gli anticlericali che sognavano la separazione netta tra stato e chiesa. La si sostituì con la celebrazione dell’11 di febbraio, ricorrenza della firma dei Patti Lateranensi, che in Vaticano è tuttora celebrata ogni anno.

Nel 1984 i Patti Lateranensi con alcune modifiche, soprattutto di ordine economico, furono sostanzialmente recepiti attraverso un “accordo-quadro”da Craxi, che colmo dell’ironia era collezionista di reperti garibaldini. Il  precedente finanziamento diretto venne sostituito con l’8 per mille.

Va premesso che nel secondo dopoguerra, con due chiese politiche, una al potere, l’altra all’opposizione, Democrazia cristiana e Partito comunista (inutile qui rispolverare le polemica sulla firma congiunta, per così dire, dell’articolo 7 della Costituzione), la celebrazione del 20 Settembre, divenne ricorrenza celebrata, da quattro gatti anticlericali. Che non avevano (e non hanno tuttora) perdonato al liberalismo moderato la Legge delle Guarentigie, da Croce ricordata giustamente come “monumento di sapienza giuridica”.

Il punto è che la celebrazione del 20 Settembre, già negli anni successivi alla “Presa di Roma”, veniva considerata una ricorrenza divisiva. Si diceva che il paese era cattolico e la classe politica liberale. Di conseguenza si doveva avere pazienza, mediare, smussare gli angoli. Soprattutto per difendersi dai primi movimenti socialisti. La classe politica liberale, soprattutto quella più conservatrice, vedeva nel cattolicesimo un alleato politico in chiave di instrumentum regni.

La pressione politico-sociale, soprattutto dal basso, era talmente forte che lo stesso Giolitti, liberale che guardava a sinistra, si tutelò scegliendo la strada degli accordi elettorali con i cattolici, per attutire gli effetti di un suffragio quasi universale, da lui stesso promosso, in vista delle politiche del 1913 (Patto Gentiloni).

Insomma, con questi precedenti, non c’è da meravigliarsi che oggi del 20 Settembre si siano dimenticati quasi tutti. O che se ne siano impossessati gli ultimi anticlericali in circolazione (altro reperto politico-archeologico).

Chi scrive, oltre ad accompagnare al Gianicolo gli amici non romani in visita durante l’anno per rievocare insieme la Roma liberale e repubblicana del 1849, il “XX Settembre”, solo soletto, se ne va in Corso Italia, nei pressi di Porta Pia. Ma non per visitare il gigantesco monumento al Bersagliere (1932, opera di Publio Morbiducci), voluto dallo stesso ipocrita dittatore che aveva firmato i Patti Lateranensi, ma 100 metri prima. Per soffermarsi ( con il permesso delle automobili parcheggiate) dinanzi al più sobrio monumento alla “Presa di Roma”, proprio dove fu aperta la “breccia”. Opera degli scultori Giuseppe Guastalla e Adolfo Apolloni, che risale alla fine dell’Ottocento.

E vi resta qualche minuto, in silenzio. Pensando all’Italia che  non fu. E che forse mai sarà.

Carlo Gambescia

venerdì 20 settembre 2024

Paragrafo 8. Il disfattismo italiano

 


Non è la paura della guerra atomica. O comunque non solo.  Il voto di ieri al Parlamento europeo sul sostegno dell’Ue all’Ucraina aggredita dalla Russia ha evidenziato un bel pezzo di storia politica italiana, da sempre contro gli Stati Uniti, la modernità, il liberalismo, il capitalismo. Diciamo l’Occidente.

In sintesi, l’Italia, con poche eccezioni, non votando a favore del paragrafo 8 della risoluzione ( quello sulla revoca delle restrizioni all’Ucraina sull’uso delle armi in territorio russo), ha provato ancora una volta di non aver capito una cosa fondamentale: che se non si darà una lezione a Mosca, accettando di correre il rischio – attenzione “rischio” (poi spiegheremo perché) – di un conflitto con armi non convenzionali tra Occidente e Russia, la prossima volta toccherà all’Europa libera.

Dicevamo di un bel pezzo di storia italiana. Prima si rifletta però.

I parlamentari di Forza Italia, del Partito Democratico, Fratelli d’Italia, eccetera, eccetera hanno comunque una preparazione superiore a quella del cittadino medio, che ha paura e basta. Quindi hanno conoscenze storiche che dovrebbero consentire di giungere alla semplicissima conclusione che cedere alla Russia significa solo aumentarne l’appetito storico. Detto brutalmente: bandiera bianca a Kiev significa solo rinviare il problema. Non risolverlo.

Perché invece di ragionare, e far ragionare la gente, la nostra classe politica si nasconde dietro la bandiera pacifista? Contribuendo così a una smobilitazione socio-culturale che può fare solo il gioco della Russia?

La ragione è molto semplice. Esistono effetti culturali di lunga durata. In Italia, nonostante la modernizzazione liberale, tra il 1860 e il 1914, culturalmente parlando, le classi politiche non hanno mai saputo apprezzare i valori della modernità. Sulle classi dirigenti il discorso sarebbe più complesso. Fermo restando che la società civile italiana è sempre andata più o meno a rimorchio della politica.

Comunque sia, si possono individuare tre filoni politici predominanti: il cattolicesimo, il socialismo-comunismo, il fascismo.

Da Pio IX a Fanfani, Moro, Andreotti (unica eccezione De Gasperi ) i cattolici hanno sempre visto negli Stati Uniti una specie di Satana. Le stesse idee , magari con accenti più materialistici, hanno avvelenato il socialismo (perfino craxiano), il comunismo, da Togliatti e Berlinguer fino Zingaretti, che ieri, quando si dice il caso, ha votato contro il paragrafo 8. Come del resto Fratelli d’Italia, che ha origini opposte, fasciste, e che perciò è altrettanto antiamericano come la sinistra.

Pertanto, al di là dei distinguo in politichese (“ Non abbiamo votato contro l’intera risoluzione ma solo contro l’articolo 8”), da una parte abbiamo Meloni, Tajani, Zingaretti, Salvini, Conte, dall’altra, stando ai sondaggi d’opinione, i due terzi degli italiani, impauriti e addirittura favorevoli alla resa dell’Ucraina alla Russia.

Un bel combinato disposto in cerca di guai. Un polo politico-sociale contro l’Occidente che in alto si nutre del riflesso culturale antiamericano, e in basso vive della diffusa paura della guerra atomica.

Ora, che all’uomo della strada non piacciano le guerre, è un dato di fatto. Però, che un’intera classe politica, sfrutti questo atteggiamento per appagare il suo antiamericanismo, favorendo, in alcuni casi Mosca, e neppure indirettamente, non è accettabile.

Si  potrebbe  spiegare alla gente che “rischio” non significa guerra atomica “in automatico”, ma più semplicemente che sussiste la possibilità, che non significa probabilità, che si verifichino eventi non voluti o imprevisti che possano avere conseguenze negative o dannose, come una guerra atomica tra Occidente e Russia.

Si immagina un disastro possibile ma non probabile. Perché poco probabile? Perché, se il quadro a tinte fosche dipinto dai pacifisti fosse vero, da una guerra atomica non uscirebbero né vinti né vincitori, quindi non avrebbe alcun senso politico scatenarla. Se invece fosse falso, allora una guerra atomica avrebbe un senso politico, perché stabilirebbe un vincitore.

Però in questo secondo caso, dal momento che di guerre atomiche “lunghe”, a parte la fase finale della conflitto contro il Giappone, non ve ne sono state altre, non esiste alcuna base storico-empirica per tramutare il possibile in probabile. Certo, si possono tracciare scenari, che però restano tali. Giochi da “testa d’uovo”.

Di conseguenza il rischio politico rinvia alla possibilità non alla probabilità. Detto più chiaramente: in teoria esiste la possibilità di una guerra, ma è poco probabile che avvenga.

Per il pacifismo antiamericano, nonostante l’assenza di una base empirica (la “guerra lunga”), la guerra atomica è possibile. Per i difensori dell’Occidente, la guerra è probabile ma non possibile Di qui l’accettazione di un rischio che invece i pacifisti respingono. Dal lato dei pacifisti si parla di immaginare un disastro possibile, dal lato dei difensori dell’Occidente, di un disastro probabile.

Si dirà che sono concetti difficili da spiegare alla gente comune. Giustissimo. Però esiste una cosa che si chiama onestà intellettuale.

Ci spieghiamo meglio: Perché non  ammettere che l’aggressione russa all’Ucraina non è che il portato di una politica che fin dall’Ottocento ha designato nell’Occidente prima europeo poi euro-americano, un nemico culturale prima che politico? 

Pensiamo  a qualcosa di culturalmente atavico che spinge la Russia a odiare l’Occidente. Un fatto storico e sociologico che non può essere ignorato, né sottovalutato, né perdonato se messo in pratica. Proprio nel nome di una immaginazione del disastro, autentica, che preconizza  l’Europa sotto il tallone russo.

Si tratta dello stesso riflesso condizionato antiamericano di cui è prigioniero l’antiamericanismo politico italiano. Che però, come una malattia contagiosa, attraverso il pacifismo del rifiuto assoluto del rischio, alimenta tra la gente comune uno spirito disfattista che può indebolire non solo l’Italia ma l’ intero Occidente. 

E sul quale la Russia gioca, per dividere il campo nemico, agitando il fantasma di una guerra atomica, che per prima, sa bene di non poter scatenare, perché, come dicevamo, la guerra atomica resta un’incognita storica per tutti gli attori politici. Il che la fa probabile ma non possibile. 

 Di qui, ripetiamo il rischio, che non significa guerra “in automatico”, che la Russia accetta, di fronte a un Occidente, che sempre sul rischio, si mostra invece titubante.

Con l’Italia capofila. Dei disfattisti.

Carlo Gambescia

giovedì 19 settembre 2024

Il Draghi light della stampa europea

 


Colpisce la scarsa rilevanza mediatica del Rapporto Draghi sulla competitività. Dopo poco più di una settimana già non se ne parla più. Sia in Europa che in Italia. E questo al netto della scontata e iniziale celebrazione ufficiale. Tipo festa di un capufficio cha va in pensione. Con un tocco di triste, solitario y final, per dirla con Soriano.

La cosa più strana è che nessuno degli interlocutori, politici e mediatici, sembra aver colto il forte accento protezionistico, a livello europeo, racchiuso nel Rapporto (*). Attenzione, “sembra”, perchè in realtà le cose son ben diverse. Il messaggio è arrivato al destinatario. Che però si è messo a fischiettare, facendo finta di nulla.

Detto altrimenti, si è preferito dipingere un ritrattino di maniera. Un mezzo “santino”. O se si preferisce, un Draghi light: pillole solubili di economia, che si sciolgono in un attimo. Perché?

Probabilmente, il protezionismo europeista delineato da Draghi, non piace a Germania, Francia, Italia, Spagna, solo per fare alcuni nomi.  

De Gaulle, per fare una battuta, è vivo e lotta insieme a noi. Ma si potrebbe risalire ai foschi tempi di Mussolini e Hitler, nemici assoluti del libero mercato. De Gaulle, almeno era antifascista.Per non parlare, dell’Est Europa, cooptato in Ue, che sembra rimasto ai tempi del generale Pilsudski e dell’ammiraglio Horty. Quest’ultimo fascistissimo.

Di qui la rimozione dal dibattito pubblico della perorazione di Draghi. Nessun attacco, neppure indiretto, ma silenzio o quasi. Dal momento che l’ex Presidente della Bce, se ci si passa l’espressione che potrebbe apparire irriguardosa, resta “una vacca sacra”. Davanti alla quale ci si ferma e si cede il passo.

Perché non piace la proposta di Draghi? Per la semplice ragione che tra gli stati nazionali sembra prevalere la vecchia idea, che, una volta ammesso il principio protezionista, l’unico protezionismo che valga la pena sposare sia quello nazionale. Per capirsi: ognuno per sé, dio per tutti. E amen.

Del resto il protezionismo suggerito da Draghi, imporrebbe misure, dalla messa in comune del debito all’introduzione di leggi e regolamenti a livello europeo, che andrebbero a colpire, intralciando e rallentando, il circuito dell’import e l’export dei singoli stati nazionali. Sul quale, come direbbe Berlusconi, “ballano i miliardi”.

Si tratta di una vittoria del libero mercato? Dell’imprenditoria liberale europea? Assolutamente no. Hanno vinto – semplificando – gli egoismi nazionali. O meglio ancora: da una parte si può scorgere l’egoismo europeo (Draghi), dall’altra l’egoismo nazionale (di sovranisti e non). Per ora, la prevalenza dell’egoismo nazionale ha fatto sì che sul Rapporto Draghi venisse steso un velo di silenzio. Insomma, il Draghi light.

Ma sia Draghi, sia i redivivi De Gaulle, Horty e Pilsudski, non sono dalla parte del libero mercato. Dietro la rimozione mediatica dell’idea di un protezionismo a livello europeo si scorge la vecchia idea autarchico-nazionale, che tanta fortuna ebbe tra le due guerre.

In pratica, per usare una terminologia più alla moda, siamo davanti a un rifiuto del multilateralismo, come creazione di regole norme e istituzioni comuni a più stati associati, per puntare sul bilateralismo, o peggio ancora sull’unilateralismo, come scelta esclusiva di uno stato nazionale che rivendica le mani libere,  costi quel che costi,  soprattutto sotto il profilo economico.

Un passo indietro verso quei pericolosi conflitti nazionalistico-economici che nella prima metà del secolo scorso mutarono geneticamente in militari.

Sotto questo profilo sarebbe interessante scoprire di cosa abbia parlato Draghi, prima con Marina Berlusconi poi con Giorgia Meloni. Di sicuro non di libero mercato e multilateralismo.

Purtroppo, così vanno le cose.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/09/draghi-e-la-via-europea-al-protezionismo.html .

mercoledì 18 settembre 2024

La vista corta di Ursula von der Leyen

 


Desideriamo insistere su un punto. Quale? Ne scrivevamo giorni fa: il mancato appuntamento con la democrazia parlamentare delle istituzioni politiche europee (*).

Anche perché questa mattina non si riesce a leggere un articolo decente in argomento. Giornalisti e studiosi, in nome di un realismo politico a breve termine, schiacciato sul presente (a quo), danno per scontate criticandole o approvandole le alchimie nazional-parlamentariste di Ursula von der Leyen. In Italia la destra gioisce per il successo, la sinistra recrimina. E così nel resto dell’Europa.

Del resto ai critici la von der Leyen potrebbe rispondere così: “Faccio funzionare le cose”. E di seguito: “Le regole sono queste, nella scelta degli incarichi di vertice il criterio nazionale non può essere ignorato, e io mio adeguo”.

In realtà ciò che prevale, come in ogni organismo politico, è la logica della sopravvivenza, o se si preferisce della durata. Ursula Von der Leyen – per dirla brutalmente – come Franz von Papen e i conservatori weimariani che optarono per Hitler, ha imbarcato Giorgia Meloni e Orbán. Servono voti, quindi tutto fa brodo.  Salvo un fatto:  che  la verità politica, come nella Germania dopo il 1933, finisce sempre per vendicarsi delle menzogne. Sono cose che possono capitare quando si ignora il realismo che guarda al futuro (ad quem), capace di andare oltre la stretta del presente (**).

Un passo indietro: la logica del durare il più possibile non può non concernere anche le istituzioni parlamentari. Esiste infatti un fenomeno come il trasformismo che ha preceduto e spesso accompagnato la storia delle istituzioni politiche liberal-democratiche. Nessuna istituzione è perfetta.

Va però ricordata una differenza: il trasformismo, come dirottamento verso il centro, è un fenomeno politico. Che si spiega, ripetiamo, con il ricorso, nella democrazia parlamentare, alle formule politiche di centro, capaci di cooptare uomini di buona volontà, diciamo, di destra e di sinistra. Si fa politica.

Nel caso von der Leyen, non c’è alcuna volontà di voler formare un centro forte, riformista come si dice, proprio perché il criterio nazionalistico, viene usato come risorsa politica per “far funzionare” le cose. Anche in questo caso la risposta della von der Leyen sarebbe la seguente: “Dovevo cooptare un “italiano”, dovevo cooptare un “ungherese”, perché la prassi e il bisogno di voti imponevano eccetera, eccetera.

Questo micidiale combinato disposto tra nazionalismo, parlamentarismo, e diciamolo pure, fatalismo, continuerà a impedire la nascita di una normale dinamica parlamentare, basata su distinzioni politiche e non nazionali. Insomma, una cosa è un centro politico, con una sua propria volontà riformista, un’altra un centro frutto di velenose alchimie nazional-parlamentariste che mettono insieme tutto e il contrario di tutto. Proprio come nella disgraziatissima esperienza di Weimar.

Del resto è la stessa Giorgia Meloni, quando parla di giusto riconoscimento al ruolo dell’Italia, a sottolineare il criterio nazional-parlamentare e non quello parlamentare. Certo, oggi sembra tornato in auge il termine patriottismo. Ma, si badi bene, il patriottismo, se disgiunto dalle istituzioni parlamentari ( e qui si pensi al grande eredità del liberalismo del XIX secolo), sfocia inevitabilmente nel nazionalismo. E alle spalle di Giorgia Meloni non si intravedono le sagome di Cavour, Giolitti, De Gasperi, ma l’ombra, degna di un film di Dreyer, di Mussolini.

Sotto questo aspetto anche il nazionalismo è un fenomeno politico. Però storicamente parlando, i nazionalisti hanno sempre visto nelle istituzioni parlamentari un pericoloso ostacolo al “ dispiegarsi delle energie nazionali”. Nel Novecento, ogni volta che sono andati al potere hanno sempre soppresso le istituzioni parlamentari. Dopo aver trattato le elezioni come un taxi per entrare in parlamento e poi distruggere tutto.

Perciò, sarà difficile fare un passo indietro. O meglio in avanti, verso la repubblica parlamentare europea. Almeno fino a quando le istituzioni europee – cosa veramente difficile al punto in cui siamo – non funzioneranno come quelle di una repubblica parlamentare, con partiti sovranazionali, maggioranza politiche, governi che dipendono realmente dal voto parlamentare – voto politico – e non dai capricci nazionalisti, incorporati, nelle istituzione europee, come ora. In pratica, servono regole nuove. Un’ impresa sisifea. Almeno per ora.

Ovviamente, il rischio è che “anche” in una repubblica parlamentare europee le destre nazionaliste riescano, prima o poi, ad agguantare il potere. La cosa non si può escludere. Tuttavia la parlamentarizzazione, se autentica, implica la civilizzazione liberale dei rapporti politici, che include la trasformazione del nemico in avversario, con il quale condividere le linee di fondo.

In qualche misura il nazionalismo, come è accaduto, per i regionalismi, attraverso la parlamentarizzazione potrebbe essere addomesticato, addolcito, comunque diluito. Il che, pur non significando la sua morte, sarebbe già qualcosa. Comunque preferibile al realismo politico dalla vista corta di Ursula von der Leyen e al pasticciato nazional-parlamentarismo di oggi. Che, mai dimenticarlo, è il vero nemico del genuino parlamentarismo.

I giornali di oggi, ripetiamo, sul punto non dicono un bel nulla. Molto retroscenismo e nazionalismo da quattro soldi. Pardon “patriottismo”… Nella migliore delle ipotesi si ragiona dell’esistente. 

Il che, può anche essere comprensibile. La lungimiranza appartiene a pochi. Però non è così che le istituzioni europee fermeranno la marcia distruttrice delle destre, marcia che vede il criterio nazionalistico rafforzarsi ogni giorno di più.

Per farla breve, invece di andare verso il parlamentarismo l’Europa va verso il suo contrario, il nazionalismo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/09/lunione-europea-e-lappuntamento-mancato.html .
(**) Sulle varie tipologie di realismo rinviamo al nostro Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Il Foglio, Piombino (LI) 2019.

martedì 17 settembre 2024

La rana, lo scorpione, l’Occidente e Giorgia Meloni

 


Titolo criptico. Il suo perché sarà svelato alla fine.

Diciamo subito che Giorgia Meloni non è dalla parte dell’Occidente. E mai lo sarà. Intanto ieri al cospetto del Primo ministro britannico, ha detto no sui missili a lungo raggio all’Ucraina. Si noti però il giro di parole.

Per noi è importante che Kiev costruisca le migliori condizioni possibili per un tavolo di pace. È quello che noi abbiamo fatto aiutando l’Ucraina dall’inizio e quindi quello che ritiene di fare e quello che riesce a fare per garantire condizioni migliori possibili è benvenuto. Per quello che riguarda il tema dell’autorizzazione ai missili di lungo raggio chiaramente queste sono decisioni che prendono le singole nazioni, i singoli Paesi che forniscono questi armamenti, anche tenendo in considerazione quelle che sono le loro legislazioni di riferimento, la loro Costituzione […]. “In Italia, come voi sapete, questa autorizzazione oggi non è in discussione ma sono tutte decisioni che noi condividiamo ovviamente con i nostri alleati. Lo dico semplicemente per dire che non va letto, come invece mi è sembrato che in alcuni casi si facesse, come un indietreggiare rispetto al sostegno all’Ucraina. Chiaramente ognuno ha i propri riferimenti per prendere queste decisioni, e noi abbiamo preso la nostra, ma penso che si veda e si continui a vedere come il sostegno italiano all’Ucraina sia un sostegno a 360 gradi, che andrà avanti fin quando è necessario che ci sia quel sostegno” […]. “Anche questa posizione – ha concluso – è perfettamente condivisa anche all’interno di tutta la maggioranza di governo” (*).

Parleremmo di abilità morotea. Ma di democristiano resta solo il dire e non dire. Che poi, per dirla alla buona, è un prendere per scemo l’altro. Che a sua volta, prima o poi scopre “l’inghippo”. Come insegna un signore in tuba, 16° presidente degli Stati Uniti, che purtroppo non ce la fece a diventare vecchio: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre.” Insomma la verità si vendica sempre.

Inoltre sotto l’aspetto logico-argomentativo il valore di una dichiarazione del genere è nullo. Cosa significa "tenendo in considerazione quelle che sono le loro legislazioni di riferimento, la loro Costituzione"? . Che l’Italia "ripudia la guerra", eccetera (art. 11)?

Perfetto. Ma allora, logicamente parlando, secondo il principio di non contraddizione, A (l’Italia ripudia la guerra) non può essere uguale a B (cedere armi all’Ucraina). Come logica impone. L’articolo 11 non può valere una volta sì, una no. Altrimenti si cade nella politica della logica. Si cambia regola argomentativa di volta in volta, secondo le convenienze politiche. Bel modo di sostenere un alleato “ a trecentosessanta gradi”…

Ma lasciamo stare. E' fin troppo facile cogliere in contraddizione un politico.

Il vero punto della questione è un altro. Che al di là del fatto di tenere buoni gli alleati di governo, in particolare il filorusso Salvini, Giorgia Meloni, dal momento che proviene dal  Movimento Sociale, partito che a sua volta rinacque dalle ceneri del fascismo, per tradizione politica non è sicuramente dalla parte dell’Occidente. 

Se inizialmente si è schierata dalla parte dell’Ucraina, lo ha fatto per pura convenienza politica. Finge. In realtà, non “sente” l’aggressione russa come una minaccia all'Occidente, prima che geopolitica, culturale. Il suo “istinto” politico dice no. Quindi  dissimula. Arte in cui è abilissima.

Si rifletta su un punto. La Russia di oggi si proclama tradizionalista. A dire il  vero i tradizionalisti seri potrebbero offendersi. In realtà si rifiuta il pluralismo del mondo moderno. Sarebbe più corretto parlare di reazione politica. Di ritorno ai valori pre 1789. Sulla questione, la Russia, come del resto, prova la sua storia, a parte il piccolo incidente di percorso sovietico, è coerentissima. E di conseguenza odia l’Occidente, simbolo della modernità liberale. E Giorgia Meloni non difende gli stessi valori? Dio, patria e famiglia? Nel senso reazionario e antipluralista del solo un dio, solo una patria, solo una famiglia. Pertanto – il lettore prenda nota – Giorgia Meloni prima o poi tornerà a casa. Casa Russia.

Ovviamente, non sarà subito. Però una vittoria di Trump potrebbe favorire un cambiamento di scenario, in chiave filorussa, anche in Italia e in Europa.

Trump è un altro tradizionalista (a parole ovviamente… ), pardon reazionario, e quel che peggio un isolazionista: una forma di nazionalismo che affligge le grandi potenze, quelle che hanno i requisiti economici per farcela da sole. Però – ecco la controindicazione – sfasciando tutto il resto: commercio mondiale, pluralismo politico e sociale, e così via. Trump ritiene di poter costringere l’Ucraina a cedere alla Russia. Anche per Trump la parola Occidente è una parola vuota.

Giorgia Meloni perciò prende tempo. Resta in attesa.  Si noti, lei sempre pronta ad aggredire Macron, leader liberale e occidentalista, ha subito senza fare un fiato l’ordine di cattura russo contro due giornalisti italiani che svolgevano semplicemente il proprio lavoro. Se Macron si fosse preso, diciamo, la stessa libertà, la Meloni avrebbe ammassato truppe italiane al confine.

 Si dirà che sono dettagli. Però significativi.

Quel che stiamo per dire può apparire banale. Cosa rispose lo scorpione alla rana, dopo averla punta?  “ Non posso farci nulla, è la mia natura!”. E così rana e scorpione finirono in fondo al fiume.

Ecco, come lo scorpione, senza badare alle conseguenze, Giorgia Meloni, era ed è  contro l’Occidente. È la sua natura. Di fascista.  


Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.lapresse.it/politica/2024/09/16/meloni-starmer-bilaterale-a-roma-tra-i-premier-di-italia-e-regno-unito/ .