giovedì 17 luglio 2025

I mille giorni di Giorgia Meloni

 


Mille giorni. Che dire? cercheremo di essere obiettivi.

Coloro che non si  pongono problemi ideologici, diciamo di postura ideologica, i pragmatici insomma, gli analisti per tutte le stagioni, parlano di governo prudente che tutto sommato, nonostante i mari in tempesta (politici, economici, bellici, eccetera), si è tenuto a galla. La situazione, dicono, è sotto controllo. Non male quindi.

Ovviamente, per le opposizioni politiche, pensiamo alla variopinta sinistra, vale l’esatto contrario: governo incapace e autoritario, dalle venature razziste, sottomesso a Stati Uniti, Nato, Nato Israele, nemico dell’Europa socialdemocratica. Un disastro.

Per le frange lunatiche, a destra come a sinistra, che impazzano sui social, neppure fossero maggioranza nel Paese, i mille giorni sono quelli della svendita dell’Italia: un Paese reso vassallo delle grandi potenze, dagli Stati Uniti alla NATO, passando per Israele e, incredibilmente, perfino l’Ucraina. L’apocalisse. E cosa curiosa, culture di guerra e rivoluzione (all’estrema destra come all’estrema sinistra), liquidano il governo Meloni come un governo di guerrafondai. Insomma i fascio-comunisti in particolare, per usare un termine giornalistico, hanno scoperto la cultura della pace del Gruppo Abele. Quando si dice il caso...

Di fatto, i risultati dei mille giorni sono controversi.

Sul piano economico, l’Italia cresce poco (confindustriali alla finestra, inflazione in calo ma consumi fermi, investimenti pubblici zoppicanti, (il che non è del tutto un male), ma almeno non retrocede. Il PNRR arranca, tra burocrazia e riforme rinviate. Sul piano sociale, si invoca l’ordine ma si taglia il reddito di cittadinanza (il che non è un male) senza creare alternative credibili. I salari restano bassi, e la tanto difesa natalità pure. Si continua a invocare la “nazione che fa figli”, ma senza investimenti strutturali ad esempio in asili nido, sostegni al lavoro femminile. Si fanno figli, certo, ma solo nelle conferenze stampa.

Sul fronte dei diritti civili, dopo il Ddl Zan contro l’omotransfobia, affossato nella scorsa legislatura, si respira un’aria di gelo istituzionale: ostilità implicita verso femminismi, diritti LGBTQ+, immigrazione che fa sinonimo con deportazione, guerra totale alle Ong.

Quanto alla libertà, si nota un certo attivismo muscolare: il caso Scurati alla Rai, le pressioni sui media pubblici, la riforma della giustizia in senso fortemente punitivo, il decreto sicurezza che introduce 14 nuovi reati e 9 circostanze aggravanti.

In politica estera, si naviga a vista sotto l’ombrello NATO, con toni atlantisti a prova di Washington, in versione MAGA però, mentre l’Europa è trattata come una zia arcigna da sopportare. Un giorno si firma il Patto di Stabilità, il giorno dopo si invoca l’interesse nazionale.

Qual è il nostro giudizio? Che Giorgia Meloni, dotata di una discreta intelligenza politica — certamente superiore a quella di Fini e, per certi versi, paragonabile a quella di Almirante, maestro nel galleggiare tra identità missina e istituzionalità (cioè tra appelli identitari e realismo  contabile) — appare,  almeno per ora, più interessata a durare che a governare davvero.

In questo senso ha rispolverato una cultura di governo democristiana. E qui si pensi all’occupazione di tutti i posti di sottopotere disponibili: Rai, dove la lottizzazione è tornata a livelli Prima Repubblica; banche, vedi il caso MPS, e scalate varie, le nomine pubbliche pilotate dal MEF; enti e società partecipate, dove il merito spesso cede il passo alla fedeltà partitica.

Però, a differenza della Balena Bianca, non è un partito antifascista. Qui ha ragione la sinistra. Diciamo che al momento finge di essere afascista: non prende posizione, al di là di qualche generico riferimento non positivo alla dittatura. Si pensi invece alle malcelate nostalgie per Mussolini, ovviamente quello in versione legge ordine ecassa mutua (non Repubblica Sociale, quella la si lascia alle frange lunatiche e ai momenti di convivialità privata), che aleggiano all’interno di FdI, addirittura tra i giovani, o all’assenza strategica dai luoghi simbolici del 25 aprile, sostituita da un silenzio “istituzionale” che la dice lunga. Qui il pericolo.

Un governo che resiste, certo, ma non convince. Che naviga, ma senza bussola ideologica se non quella della durata. Che occupa, ma non costruisce. Che rassicura chi vuole stabilità, ma preoccupa chi chiede libertà. In politica, durare non è governare. E governare non è solo galleggiare. Prima o poi, il conto arriva.

Sempre che gli italiani, popolo dalla memoria spesso corta, non si lascino ancora una volta distrarre da qualche slogan ben congegnato.

Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

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