Piero Visani, un
liberale mancato?
Mi ha
colpito, però fino a un certo punto, l’ afflusso, sulla Pagina
Fb dell’amico Visani, di così tante persone. Lettori che evidentemente apprezzavano la serietà del polemologo e dello storico
militare, scomparso domenica scorsa. Altra prova, mi sono detto, che intelligenza e
cultura non hanno confini. E soprattutto che non
dipendono da cattedre non sempre meritate.
Ho invece constatato, per ora, il silenzio, con poche eccezioni, dei non pochi che lo conobbero e frequentarono proprio negli anni fondativi della Nuova Destra. Quando, semplificando, alcuni giovani intellettuali missini (non tutti), alcuni di ascendenza rautiana, si cimentarono - riprendendo intuizioni debenoistiane - con l’immaginario sociologico della sinistra. La scommessa era quella dell’ apertura alle moderne scienze sociali, per conquistare, una volta impadronitisi degli strumenti, un’egemonia culturale capace di cambiare dall’interno prima il Movimento Sociale, poi la cultura, infine la politica e la società italiane. Un progetto prometeico, ma non privo di intendimenti seri, soprattutto in un ambiente politico, come quello missino e postmissino, tuttora diviso sul primato dell'azione rispetto alla teoria.
Visani, che ha insistito, fino a pochi giorni dalla morte, sull'importanza del lavoro metapolitico (culturale), all’epoca - è agli atti - partecipò con interesse alle iniziative, e per alcuni anni. Dopo di che, grosso modo nella seconda metà degli anni Ottanta (forse prima, forse dopo), Visani riprese il suo solitario cammino, probabilmente per ragioni di carattere, natura esistenziale e professionale. Che qui è inutile indagare. Ragioni, soprattutto, avanzo un'ipotesi, di dirittura. Che forse spiegano il silenzio di alcuni protagonisti di quella stagione in occasione della sua scomparsa, evidentemente, carni assai deboli.
Il ricordo che ho di Visani, persona che ripresi a "frequentare" ( e conoscere meglio) proprio sulle pagine di Fb, resta quello di un intellettuale rigoroso, formatosi a una severa tradizione torinese di storici militari ( certo, tutti azionisti, ma preparatissimi): un uomo dal temperamento aristocratico, lontano anni luce dal plebeismo della destra neofascista e populista, ma - nessuno è perfetto - non immune da una sua idea negativa dell’Occidente. Un mondo, al tramonto, così egli scriveva per ogni dove, sempre con il consueto rigore. Una "decadenza" analizzata attraverso la fosca lente d’ingrandimento del rifiuto - condivisibile però - di un liberalismo dominante, molliccio e dolciastro, un “pensiero unico” statalista, intrusivo, welfarista, fiscalista, che proclama di sapere ciò che è bene per ogni singolo cittadino, tradendo così l’essenza stessa del liberalismo.
Questo tradimento finale probabilmente sfuggiva a Visani. Però il suo rigoroso antistatalismo - anche legato, come ho letto in questi giorni, a questioni personali - era ed è un elemento importante del suo pensiero. Innanzitutto, perché dettato non dall’impoliticità, ma al contrario dalla puntualissima discriminazione concettuale tra politico e stato: tra ciò che resta e ciò che passa, tra il politico, come regolarità metapolitica, fondata sulla distinzione amico-nemico, e lo stato, quale incarnazione storica, quindi realtà transeunte, del politico.
Cosa voglio dire? Che Visani, proprio grazie alla sua formazione (severissima) e al carattere (selettivo) avrebbe sicuramente apprezzato ciò che altrove ho definito visione archica del liberalismo (contrapposta alla concezione macro-archica del liberalismo statalista). Con questo termine - archico - indico un approccio realista, aristocratico, politico al liberalismo, se si vuole una visione prudenziale, attenta al confronto intellettuale (quindi non "pensiero unico"). Insomma, un approccio non riduttivo di questo o quell’aspetto dell’’agire umano, ma attento alle leggi del politico. Un liberalismo tipico di figure come Burke, Tocqueville, Pareto, Mosca, Ferrero, Croce, Weber, Ortega, Röpke, De Jouvenel, Aron, Freund, Berlin.
Una volta dialogando con Piero Visani, credo proprio su Fb, forse in privato, gli chiesi bruscamente se aveva letto questi autori, o almeno alcuni di essi. Candidamente - credo questa fosse un’altra dote caratteriale - mi ripose di no. Ma che lo avrebbe fatto o almeno tentato.
Forse la sua fu risposta di cortesia… O più verosimilmente - ritengo - uno spontaneo atto di umiltà, degno di uno studioso serio, vero, preparato con un suo metodo di lavoro e di lettura. Un atteggiamento, diciamo, forzando un po’ le cose, da liberale “archico”, attento al politico ma anche al confronto, se rigorosamente inteso. Quasi da liberale mancato...
Carlo Gambescia
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