Sociologia di Pietro, Camilla e Gaia
La
conoscenza dei fatti non è mai facile.
La realtà è complicata, spesso impenetrabile. Pertanto dalle ricostruzione giornalistiche riprendiamo solo due “fatti” (o quasi): il primo che Pietro Genovese non era un “automobilista” modello;
il secondo che Camilla Romagnoli e Gaia
von Freymann, non erano “pedoni” modello. Un terzo fatto, che dovrebbe far
riflettere, è l’età complessiva dei tre
giovani coinvolti nell’incidente di Corso Francia: 42 anni. Una tragedia.
La
reale dinamica verrà accertata, ci si augura, dai giudici, Una delle famiglie delle vittime ha scelto un avvocato molto agguerrito,
Giulia Bongiorno, Probabilmente, anche il padre di Pietro, noto regista, opterà
per un legale di pari fama.
Il
contesto sociale dell’incidente è borghese, probabilmente alto-borghese,
comunque sia, sociologicamente parlando, si tratta di ceti medi: la principale ossatura sociale di ogni
società aperta.
E qui sorge una domanda sociologica (non giudiziaria) che al momento può apparire spietata. Perché la borghesia
affluente di oggi "produce" automobilisti e pedoni lontani dal rappresentare dei modelli sociali di riferimento?
In
argomento, la letteratura è vastissima
e non deve indurre a determinismi
sociali. Perché i comportamenti devianti (dalle regole) riguardano tutti
i ceti sociali.
Tuttavia il punto sociologico è costituito, ripetiamo, dal perché la borghesia, se si
preferisce il ceto medio, abbia rinunciato alla trasmissione sociale di valori elementari di natura endoattiva (per usare un
termine a metà strada tra la psicologia e il diritto). Per dirla altrimenti: un semaforo rosso
(o verde) rappresenta l’accettazione interiorizzata di un patto tacito di civiltà, qualcosa che rinvia al grado zero della socialità moderna,
fondata, almeno in linea di principio, sul libero consenso. Sopra di essa, vengono vigili, poliziotti,
giudici, eccetera, ossia l’apparato coercitivo, che però - ecco il punto - nel rispetto del semaforo rosso (o
verde) rimanda, come dicevamo, a una adesione “endoattiva”,
interiorizzata, che precede l’apparato coercitivo. Basta il segnale. Non servono guardie armate o meno. Nessuna esoattività.
Ora,
che un ceto borghese, lo stesso che meritoriamente ha
edificato la modernità, non riesca a
trasmettere non "il senso della vita",
come abbiamo letto, che sarebbe troppo (anche perché "il senso della vita" è
scelta individuale), ma il rispetto interiorizzato di alcune basilari regole endoattive, dovrebbe far riflettere. Perché il rischio grosso che discende dalla mancata "riproduzione" sociale di endoattività è quello della dissoluzione di un
ordine collettivo, se si vuole pubblico, di cui il ceto medio dovrebbe essere il rigoroso guardiano, a cominciare, ripetiamo, dalla trasmissione delle regole tacite, prive di coercizione materiale esterna all'individuo.
Diciamo
questo a prescindere dalle attribuzioni di colpa individuale sulle quale
sentenzieranno i giudici. Ovviamente, al di là della disamina sociologica, che può apparire fin troppo fredda perché rivolta impietosamente al fenomeno generale, resta ferma la nostra partecipazione al dolore di tre famiglie, due delle quali
toccate più duramente negli affetti.
Carlo Gambescia