Cento anni di Cioran
Venerdì ricorrevano i cento anni della
nascita di Émil Cioran, avvenuta l’8 aprile 1911. Ne parliamo soltanto oggi,
perché il grande scrittore non avrebbe gradito celebrazioni in pompa magna e
soprattutto interessate, se non addirittura dispensate per pelosa carità
ideologica. Come per l’appunto sta avvenendo da almeno una settimana. Ne
abbiamo infatti lette di belle: tutti pronti a “intruppare” Cioran, dai
cattolici agli atei. Insomma, a fargli indossare una divisa: quella
dell’impegno o del disimpegno, secondo necessità di cucina giornalistica. Di
certo, uno spettacolo non edificante: dall’ Avvenire
al Secolo d’Italia , passando
ovviamente per i giornaloni laici… Indubbiamente, Cioran, scomparso sedici anni
fa, resta una delle figure più significative di una cultura, come quella
novecentesca, travolta dai totalitarismi e dalla “bomba” (atomica). Un mondo,
purtroppo, popolato di spaventapasseri delle idee. Proprio ciò che non fu mai Cioran. Parliamo
di mercanti delle idee che tuttora passeggiano tra le macerie, compiacendosi di
un “postmoderno” che sembra annunciarsi più lungo del “moderno” . E quindi
lucroso per chi faccia affari con l’industria culturale e massmediatica. In
realtà, Cioran non è “inquadrabile”, proprio perché si è sempre rifiutato di
concepire risposte collettive e salvifiche alla crisi. Cioran non è mai stato
un venditore di santini e salvezze facili. Se si ripercorre la sua opera si
avverte una fortissima opposizione a tutto ciò che è sociale o sociologico, se
si vuole finalistico. Come qui: « Se potessimo vederci con gli occhi
dell’altro, scompariremmo all’istante» . Una scelta segnata da una segreta e
mai compiutamente espressa nostalgia per l’assoluto. Un assoluto tuttavia particolare:
non di tipo teistico o ateistico. Ma segnato da modalità proprie, oggi diremmo
cioraniane: asciutte ed epigrammatiche : «Dio era una soluzione (…) non ne
troveremo mai una altrettanto soddisfacente». Anche perché «il futuro è sempre
stato atroce». Del resto: «Niente e tragico, tutto è irreale (…) L’uomo è così
e sarà sempre così» (citazioni tratte da L’inconveniente
di essere nati).
Ma allora di che assoluto si tratta? Del
vuoto assoluto. Ci spieghiamo: tutta l’opera di Cioran non è che un immenso
corpo a corpo con se stesso, con Dio, con gli altri. Non c’è nulla di sacro
neppure l’amicizia: «L’amicizia è interessante e importante solo quando si è
giovani. Per un anziano, è evidente come ciò che teme di più è che i suoi amici
gli sopravvivano». (Confessioni e anatemi).
Ma allora perché vivere? E nel nome di chi vivere? Dell’ irrealtà del mondo:
«Per concepire l’irrealtà e compenetrarsene. Bisogna averla costantemente
presente nella mente. Il giorno in cui la si sente, la si vede, tutto diventa
irreale, salvo questa irrealtà, l’unica a rendere tollerabile l’esistenza» ( Paleontologia da I nuovi dei, Edizioni del Borghese
però…). Oppure: «Si dirà che sostituiamo un fantasma all’altro, che le favole
dell’età dell’oro non valgono meno dell’eterno presente al quale pensiamo, e
che l’io originario, fondamento delle nostre speranze, evoca il vuoto e in fin
dei conti vi si riconduce? Sia pure! Ma un vuoto che dispensa la pienezza non
contiene forse più realtà di quanta non ne possieda la storia nel suo insieme»
(Storia e Utopia)… Ancora: «
Quando si è usciti dal circolo di errori e illusioni all’interno del quale si
svolgono gli atti, prendere posizione è una quasi-impossibilità. Occorre un
minimo di stupidità per tutto, per affermare e anche per negare »(Confessioni e Anatemi). Vuoto assoluto,
che paradossalmente illumina l’ innocenza ritrovata del e nell’errore. O se si
preferisce, un vuoto che impone l’assurda (per il mondo) consapevolezza di una
condizione precaria, capace però di dispensare pienezza e calore vitale a chi
ne sia, anche solo per attimo, cosciente.
La nostalgia cioraniana per ciò che non è
stato e non sarà mai si trasforma quindi in forza profonda. Perciò è sbagliato
definirlo nichilista, almeno nell’accezione classica del termine, quale svalutazione
della realtà. Siamo certamente davanti all’accettazione di un vuoto metafisico
e fisico, ma non di quello interiore, nel senso di ciò che sta “addentro”
l’uomo. Ovviamente, questo vale solo per chi sia disposto, a ferirsi a ferire,
fustigando e fustigandosi. O detto altrimenti, disposto ad attraversare
l’irrealtà della realtà. Come giustamente ha osservato Nicola Vacca ( http://nicolavacca.splinder.com/post/23763862),
da sensibile poeta quale è (forse solo i poeti, quelli autentici, possono
cimentarsi con l’inquietudine cioraniana...) : «L’ebbrezza di ferire è la condizione che Cioran esplora
per esprimere unicamente ciò che pensa e non ciò che ha deciso di pensare. Non
possiamo chiedere nient’altro a uno scrittore immenso come Cioran, che ha
sempre pensato ai suoi libri come ferite che devono cambiare in qualche modo il
lettore e la sua vita. Libri nati dai suoi malesseri, dalle sue sofferenze,
scaturiti dall’inconveniente di essere nati. Scritti soprattutto con l’intento
di fustigare e di svegliare. La singolarità e l’immediatezza della sua
esperienza lo rendono uno scrittore insostituibile con il quale saremo
costretti, per molto tempo ancora, a fare i conti ».
Che aggiungere? Nulla. Cioran è Cioran.
Prendere o lasciare.
Carlo Gambescia
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