giovedì 18 aprile 2013

Il libro della settimana: Philippe Nemo e Jean Petitot ( a cura di), Storia del liberalismo in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 1246, Euro 56,00.

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Finalmente, dopo quasi novant’anni, è uscita una storia del liberalismo che può reggere il confronto con quella classica di Guido De Ruggiero. Parliamo della Storia del liberalismo in Europa, a cura di Philippe Nemo e Jean Petitot, pubblicata in Francia nel 2006 e ora in Italia per i tipi di Rubbettino Editore.
In che cosa somigliano e differiscono le due opere? La principale differenza è rappresentata dall’approccio. La Storia del Liberalismo europeodel De Ruggiero, pubblicata nel 1925, ruota intorno al rapporto tra liberalismo e politica, mentre la  Storia del liberalismo in Europa di Nemo e Petitot ha come fulcro la relazione tra  liberalismo e società.
Ci spieghiamo meglio: De Ruggiero si concentra sullo sviluppo storico delle istituzioni politiche liberali, o se si preferisce sull’organizzazione politica quale fattore visibile di azione;  Nemo e Petitot, sul liberalismo quale  portato di una invisibile  auto-organizzazione sociale e  delle idee.   Detto altrimenti: De Ruggiero privilegia la mano visibile dello stato liberale mentre Nemo e Petitot la mano invisibile della società di mercato. Se in qualche misura la storia del liberalismo del primo subisce l’influenza filosofico-politica, anche contrastante, di Gentile e Croce, l’opera dei secondi si muove nell’alveo della tradizione liberale austriaca e in particolare della teoria hayekiana dell’ordine auto-organizzato del mercato, anche delle idee.   Si vedano ad esempio  i cinque corposi capitoli (pp. 935-1068) dedicati al pensiero di Hayek. Dove tra l’altro spicca la critica sociologica, in controtendenza rispetto al taglio scelto dai curatori, di Jean-Pierre Dupuy ( pp. 1009-1049). Il quale nell’impostazione hayekiana, tutta rivolta a valorizzare i processi mimetici, emulativi e selettivi (delle idee istituzionali ), scorge un’istanza puramente utilitaristica. Ma si leggano anche le notevoli repliche di Nemo e Petitot, tese a dimostrare l’esatto contrario: la natura creativa, a tutto tondo, della mano invisibile ( pp. 1050-1059).
Le somiglianze invece sono, come dire, di risultato. Perché consistono nella capacità finale delle due opere di offrire un vivido affresco storico del pensiero liberale europeo. Un vero e proprio valore aggiunto che nel lavoro di Nemo e Petitot si manifesta nell’ approfondimento dei liberalismi meno conosciuti: spagnolo, portoghese, svedese e dei Paesi Bassi  (pp.1153-1221). Mentre come è noto il lavoro del De Ruggiero resta incentrato soltanto sul liberalismo inglese, francese, tedesco e italiano. Va inoltre ricordato che il libro di Nemo e Petitot non affronta il liberalismo britannico e, ovviamente, come da titolo, quello statunitense, se non nelle interazioni con il liberalismo continentale.
Indubbiamente, il libro, proprio perché opera di più autori e frutto di attività seminariali, può apparire poco organico. In realtà, il numero di pagine largamente superiore (il rapporto con l’opera del De Ruggiero è quasi di tre a uno) consente una ghiotta e  corposa trattazione monografica dei principali  liberalismi: al liberalismo francese sono dedicate più di trecento pagine (pp. 177-494); all’italiano più di duecento (pp. 497-732); al tedesco più di centocinquanta (pp. 735-902); all’austriaco, con due ricchi inserti sul liberalismo ceco e sul rapporto tra austriaci e libertari americani, circa duecentocinquanta pagine (905-1150).
Alcuni rilievi.
Il libro del De Ruggiero inizia il suo cammino storiografico, muovendo da dietro l’angolo: il secolo XVIII. Per contro quello di Nemo e Petitot si propone, più ambiziosamente, di individuare le origini del pensiero liberale, a livello di fonti, nel mondo antico e medievale, nonché in quello scolastico e in particolare nelle opere di Juan de Mariana e della seconda scolastica spagnola e, dulcis in fundo, di Grozio e Bayle (pp. 55-173). Diciamo che l’ “argomento-radici”, sempre interessante, è svolto molto bene. Tuttavia il rischio delle preistorie concettuali resta quello di risalire troppo indietro e perciò di diluire eccessivamente  significato e senso  storico di un’idea. Ad esempio, il liberalismo senza le quattro erre (rivoluzione inglese, americana, francese e industriale), difficilmente sarebbe divenuto tale e soprattutto avvertito come tale dagli uomini dell’Ottocento, ai quali perciò non può non andare il copyright  storiografico, concettuale e lessicale dell'idea liberale.   Ora, Nemo e Petitot, pur non trascurando questi aspetti,  tendono a  ricondurre le quattro erre nell’alveo creativo  di una specie di   liberalismo  "per caso" (frutto di azioni inintenzionali), in linea con l'approccio hayekiano. Insomma,  nel libro  il  "caso" sembra talvolta  condizionato  dalla    "necessità"  di  pervenire a una specie di liberalismo perenne,   pronto a   consacrare   liberale  solo quel che anticipa e/o rientra,   a  livello concettuale,  nello schema della mano invisibile. Come del resto non convince del tutto la svalutazione della sfera politica che pare attraversare tutta l'opera.  Addirittura si conia, seppure a margine, un termine specifico “«sindrome di Pareto» (p. 795 e p. 1058) per svilire certo  liberalismo che si vuole per forza trucemente hobbesiano e perciò  stregato dall’idea di stato forte.
Atteggiamento, a dire vero impolitico, perché confina il politico nell’ asfissiante recinto  delle attività dello stato. Che ovviamente, come ogni buon liberale sa bene,  vanno tenute a bada. Ma il  "politico" non si esaurisce nello stato. E  non può essere affrontato solo in termini di contenimento o di teoria critica negativa.    Il che  spiega la liquidazione  nel libro  di pensatori  attenti alle costanti del politico (di cui lo stato moderno è solo una delle forme egemoniche)   come Montesquieu. E che dire, sempre per le stesse ragioni,  del   severo giudizio su Pareto (al quale  è  però dedicato un interessante capitolo)? E dell’assenza di Tocqueville e del suo prestigioso erede novecentesco, Raymond Aron ( esclusioni che non possono essere giustificate con l’eccessivo numero di monografie loro dedicate…)?  Ma anche  di Mosca, Ferrero, de Jouvenel?   Insomma, se ci si passa l'espressione, "si buca"   quel  liberalismo triste,  malinconicamente consapevole, con Max Weber (altra figura che avrebbe meritato approfondimento), che si comanda alle politica ubbidendo alle sue leggi o costanti.  E qui va ricordato che Guido  De Ruggiero dedica  la seconda parte della sua Storia proprio al tragico rapporto del liberalismo  con  la straripante  politicità di alcune istituzione  moderne:   democrazia, socialismo,  rapporti  fra stato e  chiesa,   nazione,  capitalismo.
Sotto questo aspetto, per tornare al volume di Nemo e Petitot, va però molto apprezzata la magistrale trattazione del liberalismo tedesco. Proprio per l'interessantissima  ricostruzione delle diverse correnti dell’ordoliberalismo, dell’umanesimo economico del liberalismo sociale di mercato, tutte attente al ruolo, non tanto dello stato, quanto del  politico come elemento ordinatore (pp. 801-864).
Comunque sia, siamo dinanzi a un’opera di  grande  valore, che probabilmente lo stesso Guido De Ruggiero avrebbe letto e  apprezzato. Come del resto abbiamo cercato di spiegare proponendo un ideale confronto tra due lavori di altissimo livello. Un  luminoso  affresco  da non perdere,  che  integra, completa e aggiorna la laterziana Storia del liberalismo europeo. Merito che va totalmente ascritto a Rubbettino, casa editrice calabrese che nel 2012 ha celebrato i suoi quarant’anni di attività ( http://www.rubbettinoeditore.it/chi-siamo/1972-2012-quarantanni-di-idee-libere.html  ). E che sembra oggi svolgere quel ruolo creativo  che un tempo fu di Laterza.  Per giunta, senza un novello Benedetto Croce alle spalle… Complimenti e di nuovo auguri.

Carlo Gambescia

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