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All’editore Gordiano Lupi piace il cinema. E proprio quello che,
ingiustamente, viene chiamato di Serie B. Basta sfogliare il
catalogo delle piombinesi Edizioni Il Foglio, di cui è il patron, per
viaggiare con l’immaginazione tra Zombi all’amatriciana, robusti vampiri
della Val Trompia, tettone platinate con spiccato accento
siculo, poliziotti di Testaccio nati a L'Avana.
In realtà, Lupi è una specie di Zeman dell’editoria, anche
se molto più giovane e colto. Pubblica libri che ti fanno divertire e gioca
all' attacco come il boemo. E pubblica “a più non posso”,
riabilitando registi, sceneggiatori, attori, attrici, altrimenti malgiudicati e
dimenticati dalla storia del cinema di Serie A (?). Oltre ovviamente a editare
tostissimi saggi di letteratura, cultura, politica e varia umanità, nonché
ottimi romanzi, con straordinarie aperture verso una cultura cubana che
finalmente sembra avere messo le ali (della libertà), per volare via
da un Fidel Castro, che ormai rischia di assomigliare al protagonista
di un cannibal movie.
A questo proposito - e non ci scusiamo con
Castro... - va segnalata l’ultima fatica del Lupi-Zeman
editore e scrittore (ma, in passato, anche calciatore e arbitro): Storia
del cinema horror italiano. Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato,
Umberto Lenzi e il cannibal movie, (il terzo dei sei previsti), dove,
aprendolo, ci siamo subito buttati a corpo morto su Pupi Avati. Di
cui ricordavamo un avvicente film horror: Zeder (1981), con Gabriele
Lavia, bravissimo protagonista. E, infatti, colpito e affondato. Ma lasciamo la
parola a Lupi: «Avati crea un originale gotico italiano ambientato in epoca
contemporanea e scava nella paura prodotta da antiche credenze popolari […], e
gira una convincente versione personale del mito degli zombi […]. Il film è
originale anche per l’ambientazione sulla riviera romagnola, in una colonia
marina location insolita per un film horror». E giustamente si
sottolinea la scena più macabra del film: «la sequenza della
resurrezione del prete». Chi scrive, mai dimenticherà, l'inquietante
ghigno dipinto sul volto del morto vivente in clergyman, che con feroce
agilità scivola via dal sepolcro, mentre una telecamera lo sta riprendendo… Ma
quel che colpisce del capitolo-Pupi Avati è la particolarissima rilettura
della sua opera: i film di successo, quelli del cantore
introspettivo del piccole cose, sono considerati quasi incidenti di percorso.
Mentre vengono valorizzati, e giustamente, i film più in
sintonia, citiamo alla rinfusa, con la vena ctonica del regista bolognese:
la sua opera prima Balsamus, l’uomo di Satana (1968), La casa dalle
finestre che ridono (1976), Tutti i defunti tranne i morti (1977), Zeder,di cui
abbiamo detto, L’amico d’infanzia (1994), L’arcano incantatore (1996).
Approccio, "a rovescio", che potrebbe essere la griglia per una
rilettura, non conformista, dell’ intera opera cinematografica di Pupi Avati.
Insomma, come dicono gli accademici di storia del cinema: per una...
monografia. Ovviamente, non passano neppure inosservati i corposi ritratti di Joe
D’Amato, al secolo Aristide Massaccesi, un Ed Wood italiano, nonché del geniale
Ruggero Deodato, passato, per dire, da Cannibal Olocaust (1980) a Incantesimo 8
(2008), fiction televisiva di successo. E in che modo? Quasi
miracoloso: Deodato sembra attraversare i diversi
generi con lo stesso scioltissimo passo con cui il Prof.
Dott. Guido Tersilli-Alberto Sordi, primario di Villa Celeste, faceva il giro
mattiniero dei malati.
Proviene sempre, per così dire, dalla scuderia Lupi, Matteo
Mancini, laurea in legge e, altra laurea, anzi un vero e proprio dottorato in
cinefilia (si dice così?) sul campo. Autore di Spaghetti Western. L’alba e
il primo splendore del genere (anni 1963-1968), un ponderoso volume, il primo
di una trilogia in argomento il cui obiettivo è « di avvicinare il pubblico
giovane a un genere che al giorno d’oggi (insieme al peplum e al c.d. macaroni
combat ) è il più sconosciuto e sottovalutato dalla cinematografia italiana». E
ingiustamente, perché, come si legge, «dal 1964 al 1978 in Italia furono
realizzati quasi seicento film western». E qual è il filo conduttore di un'
impresa così nobile e difficile? Cosa resta impresso nella
zucca del lettore? Presto detto: oltre alla accuratissima
ricostruzione (tra l’altro ottima la scelta di inserire l' Indice finale
dei film trattati), si intuisce che dietro lo spaghetti
western c’è la progressiva americanizzazione europea (e italiana) dei
costumi culturali e sociali. Ma, attenzione, come spiega Mancini, non in
chiave di una banale imitazione di modellli, ma di creativa
interazione, per dirla in sociologhese, tra cultura americana della
frontiera e cultura italiana - siamo a metà degli anni Sessanta - di una
protesta sociale e politica via via sempre più consistente. Insomma, lo
spaghetti western, anche se può sembrare paradossale, permetteva di dire a
registi e sceneggiatori, si pensi ai film rivoluzionari di ambientazione
maccheronico-messicana, cose che non si potevano dire nei film di Serie
A. Cosicché - e sarebbe un'ipotesi da esplorare -
con il forte consolidamento del cinema politicamente
impegnato degli anni Settanta, post-1968 (dei Rosi, dei Maselli, e
così via), che diceva le cose fuori dai denti, lo spaghetti western
diverrà inutile e perciò costretto al letargo. E qui si
pensi, ad esempio a Lizzani, il quale, probabilmente, anche per
«contropartita», come scrive Mancini, aveva girato negli anni Sessanta due
western; uno dei quali però Requiescant (1966), addirittura con Pier Paolo
Pasolini come guest star letteraria. Lizzani girò quei
film solo per motivi alimentari? Su questi temi si veda il bel film
documentario di Gianfranco Pannone, L'America a Roma, (1998), dove
parlano i protagonisti dell' epoca, a partire
dagli spericolati stuntman promossi attori sul campo . Solo
per fare alcuni nomi: Guglielmo Spoletini (William Bogart), Gino
Marturano (Jin Martin), Remo Capitani (Ray O'Connors). Giovanni Cianfriglia
(Ken Wood).
Insomma, sarebbe interessante indagare, nuovamente, nome per
nome, la biografia politica e l’itinerario cinematografico di sceneggiatori,
registi e anche attori dello spaghetti western (Spoletini, ad
esempio, era un acceso militante comunista), per scoprirne, in
particolare, il destino politico: un lavorare
per frammenti esistenziali, mettendo insieme, Quentin Tarantino e Roland
Barthes. Detto altrimenti, e giriamo al bravo Matteo Mancini una domanda, solo
apparentemente surreale: che lo Spaghetti Western
sia culturalmente alle origini del cinema impegnato degli Anni
di Piombo?
Carlo
Gambescia
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