mercoledì 7 dicembre 2011

La pubblicazione de La nozione di autorità di Alexandre Kojève, pensatore ricco di intuizioni e sfaccettature, merita un’attenzione particolare. Perciò proponiamo due recensioni. La prima più analitica e di taglio giuridico-politico scritta dall’amico Teodoro Klitsche de la Grange. La seconda, più attenta alla ricaduta sociologica del suo pensiero, è invece opera nostra. Buona lettura. (C.G.)
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Il libro della settimana: Alexandre Kojève, La nozione di autorità, Adelphi, 2011, pp. 143, Euro 29,00.


 
www.adelphi.it




L’autorità tra stato, diritto e politica
di Teodoro Klitsche de la Grange




Scrive Kojève nelle considerazioni preliminari: “É curioso, ma il problema e la nozione di Autorità sono stati molto poco studiati. Ci si è occupati soprattutto delle questioni relative alla trasmissione dell’Autorità e alla sua genesi, ma raramente l’essenza di questo fenomeno ha attirato l’attenzione. Eppure, in tutta evidenza, è impossibile trattare del potere politico e della struttura stessa dello Stato senza sapere che cosa è l’Autorità in quanto tale. Uno studio della nozione di Autorità, sebbene provvisorio, è quindi indispensabile, e deve precedere qualsiasi studio del problema dello Stato”. In questo seguiva de Bonald quando questi sosteneva, polemizzando con M.me de Staël, che non è possibile trattare di politica (e dello Stato) prescindendo dall’autorità.
Kojève inizia col fare un’analisi concettuale delle teorie dell’autorità, distinguendo così quattro tipi “semplici” o “puri” (analoghi agli idealtipi weberiani): la teoria teologica o teocratica, secondo la quale l’Autorità primaria e assoluta appartiene a Dio, e tutte le altre ne derivano; la teoria platonica, secondo cui l’Autorità si fonda sulla Giustizia; quella aristotelica, secondo cui appartiene a chi ha il sapere e la capacità di prevedere; infine quella di Hegel che la riduce al rapporto tra Signore e servo (vincitore e vinto), basato sulla lotta, il rischio e il riconoscimento del vincitore come autorità. Di queste, solo l’ultima – scrive Kojève “ha avuto un’elaborazione filosofica completa, che si sviluppa sia sul piano della descrizione fenomenologica sia su quello dell’analisi metafisica e ontologica. le altre non hanno oltrepassato il livello della fenomenologia”.
Ciò non toglie che anche la teoria di Hegel non sia stata capita davvero e subito sia stata dimenticata, al punto che anche “il più importante erede di Hegel, Marx” ha trascurato completamente il problema.
Nota subito Kojève – e la distinzione ricorre in tutto il volumetto – che esiste “anche una ‘teoria’ dell’Autorità che la considera soltanto una manifestazione della forza. Ma vedremo in seguito che la Forza non ha nulla a che vedere con l’Autorità, perché anzi le è esattamente opposta. Ridurre l’Autorità alla Forza significa quindi semplicemente negare, o ignorare, l’esistenza della prima. perciò fra le teorie dell’Autorità non annoveriamo questa opinione errata”.
E in effetti ciò che distingue l’autorità dal (mero) potere è proprio fare assegnamento, perché la propria volontà sia osservata nella comunità, di non dover ricorrere alla coercizione, all’impiego della forza perché i comandi siano eseguiti. Di comandare con successo (inteso in senso weberiano) senza i mezzi coattivi (dalla fucilazione, al carcere, alle confische). Il che non vuol dire che questi mezzi non debbano esistere: significa solo che un potere autorevole vi fa ricorso in modo assai parsimonioso; uno non autorevole, con dovizia. E ricorda da vicino la teoria di Donoso Cortès sullo Stato moderno: che più perdeva autorità, più ha dovuto aumentare il potere (e i mezzi) di coercizione.
Nell’ “analisi fenomenologica”, Kojève da la propria definizione generale dell’autorità “Esiste Autorità soltanto là dove c’è movimento, cambiamento, azione (reale o almeno possibile): si ha autorità solo su ciò che può «reagire», cioè cambiare in funzione di ciò o di colui che rappresenta l’Autorità (la «incarna», la realizza, la esercita). E, in tutta evidenza, l’Autorità appartiene a chi opera il cambiamento, e non a chi lo subisce: l’Autorità è essenzialmente attiva e non passiva”; per cui il supporto reale di ogni autorità è un agente e che questo sia libero e cosciente; e ciò è complementare alla definizione dell’atto autoritario, il quale si distingue da “tutti gli altri per il fatto di non incontrare opposizione da parte di colui o coloro ai quali è diretto, E questo presuppone, da un lato, la possibilità di un’opposizione e, dall’altro, la rinuncia cosciente e volontaria alla realizzazione di questa possibilità”. Ne consegue che “l’Autorità, quindi, è necessariamente una relazione (fra agente e paziente): è un fenomeno essenzialmente sociale (e non individuale); perché vi sia Autorità bisogna essere almeno in due.
Quindi: l’Autorità è la possibilità che un agente ha di agire sugli altri (o su un altro), senza che questi altri reagiscano nei suoi confronti, pur essendo in grado di farlo”. Questa definizione evidenzia che il fenomeno dell’Autorità è affine a quello del Diritto; tuttavia se ne distingue perché “nel caso dell’Autorità, la «reazione» (l’opposizione) non esce mai dall’ambito della possibilità pura (non si attualizza mai): la sua realizzazione distrugge l’Autorità. Nel caso del Diritto, invece la «reazione» può attualizzarsi senza per questo distruggere il Diritto”; da ciò “consegue che se, in linea di principio, l’Autorità esclude la forza, il Diritto la implica e la presuppone, pur essendo tutt’altra cosa rispetto alla forza (non vi è Diritto senza Tribunale, né Tribunale senza Polizia...”. L’autorità è legale e legittima per definizione “Colui che «riconosce» un’Autorità (e non c’è Autorità non «riconosciuta») ne riconosce per ciò stesso la «legittimità». Negare la legittimità dell’Autorità significa non riconoscerla, cioè – per ciò stesso – distruggerla. Si può quindi negare, in un caso concreto, l’esistenza di un’Autorità; ma non si può opporre alcun «Diritto» a un’Autorità reale (cioè «riconosciuta»)”.
La definizione di Autorità, sostiene l’autore, può essere accostata a quella del Divino “è divino – per me – tutto ciò che può agire su di me senza che io abbia la possibilità di reagire nei suoi confronti”; il che ricorda da presso sia la teoria di Spinoza sull’onnipotenza divina (e sul rapporto con la sovranità) sia la concezione esposta da Kant nella Metaphisik der Sitten di Dio come essere che ha tutti i diritti (cioè è attivo in senso assoluto) e verso il quale si hanno solo doveri. Anche se la definizione del Divino “differisce da quella dell’Autorità: nel caso dell’azione divina, la reazione (umana) è assolutamente impossibile; nel caso dell’azione autoritaria (umana), la reazione è invece necessariamente possibile, e non esiste in ragione di una rinuncia cosciente e volontaria a questa possibilità”; è connaturale quindi all’Autorità umana sia il rischio (se non quello della conquista, almeno di perderla, all’uopo basta che ci sia reazione al comando) sia la giustificazione della sua esistenza. Per cui Kojève distingue i diversi tipi di autorità “puri” e le loro combinazioni in concreto fondati sulla spiegazione del riconoscimento dell’Autorità e delle ragioni d’essere della medesima. E’ anche interessante come Kojève critica altre teorie dell’autorità, come quelle del contratto sociale e del principio maggioritario, che affiancherebbero un altro/i tipo ai quattro individuati dal filosofo “è quello che afferma la teoria del «contratto sociale» (parlando in generale dell’Autorità sui generis che ha la Maggioranza sulla Minoranza). Dobbiamo perciò vedere se questa teoria è esatta. (Se è esatta la nostra è falsa. Se la nostra è vera, l’Autorità in questione deve poter essere ridotta o a uno dei nostri tipi «puri», o a una qualsiasi delle loro «combinazioni»)”.
Quanto alla concezione dell’autorità della maggioranza, questa si basa sulla forza (tale o presunta) della quantità ed è quindi irriducibile alla definizione di autorità (incompatibile con l’esercizio della forza o della minaccia della forza).
Quella inversa, della minoranza sulla maggioranza, “non proviene mai dal fatto che la Minoranza è una Minoranza. La «giustificazione» (la «propaganda») è sempre del tipo: «Sebbene non siamo che una minoranza, noi...». L’Autorità di cui si riveste una Minoranza è «giustificata» o spiegata dalla «qualità» e non dalla quantità... E l’analisi dei casi concreti mostra che la Minoranza si appella sempre all’Autorità o del Padre, o del Capo, o del Signore, o del Giudice (oppure delle loro «combinazioni»)” (e quindi è riducibile a quelle).
Un’analisi approfondita è dedicata da Kojève al problema della distinzione dei poteri, alla sua relazione con l’Autorità (e ai di essa tipi); se l’Autorità possa essere divisa e se e a quale tipo vadano ricondotte le istituzioni così “separate” (e come). Il tema dell’Autorità è così la chiave per valutare la forma – e la vitalità – del potere statale.
Chiudono il volume due appendici, scritte nel 1942. Nella prima l’autore si dedica a un’analisi della natura dell’autorità del maresciallo Pétain, a capo del governo collaborazionista di Vichy. Nella seconda propone una sorta di progetto per la “Rivoluzione nazionale” francese”, allora. dibattuta, anche perchè la legge costituzionale del 10 luglio 1940, aveva conferito il potere costituente al governo.
Si conclude quindi con un’applicazione al caso concreto delle teorie sull’autorità: un’occasione troppo interessante per il filosofo, dato il carattere del tutto particolare e quasi esemplare, del “principato nuovo” che sembrava si dovesse organizzare per la Francia, e del maresciallo Pétain, che impersonava la nuova Autorità.
Dato l’impegno di Kojève nella resistenza francese, non sembra che il tutto possa ridursi ad una sorta di captatio benevolentiae dei governanti di Vichy.
Soprattutto perchè l’indagine sul regime collaborazionista è coerente con le idee di Kojève sull’autorità e non appare influenzata da opinioni (o occasioni) politico-partitiche. E’, insomma, condotta sine ira ac studio. In conclusione, come scrive il curatore nel breve saggio “Sebbene Kojève riconosca che, prima di lui, molti altri pensatori hanno affrontato il tema, lamenta il fatto che nessuno di essi abbia indagato in maniera approfondita e completa l’essenza del fenomeno autoritario”; e, indubbiamente, le pagine di Kojève sono un valido tentativo di colmare (in parte) la lacuna.
Teodoro Klitsche de la Grange
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Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di culturapolitica"Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009)..



Chi dice autorità…
di Carlo Gambescia
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Chissà, se fosse tra noi, cosa direbbe Alexandre Kojève della crisi italiana… Che in fondo, e non da oggi, dipende da un deficit di credibilità istituzionale. A questo pensavamo leggendo La nozione di autorità (Adelphi, 2011, pp. 144, euro 29,00). Un ghiotto testo scritto nel 1942 dal più chirurgico e discusso interprete novecentesco di Hegel, Kojève appunto. Filosofo e funzionario al tempo stesso. E non è un critica. Un « incarico», quest’ultimo, come ricorda il curatore Marco Filoni, «da lui brillantemente ricoperto nell’amministrazione francese dal 1947 fino alla morte», avvenuta nel 1968 a sessantasei anni. Il suo compito - prosegue - era quello di definire le tattiche da adottare nelle negoziazioni economiche internazionali. Se gli obiettivi erano stabiliti dall’Eliseo, i mezzi per raggiungerli erano affidati alle argomentazioni e alle abili manovre del filosofo (…). Ben presto divenne una sorta di “bestia nera” per i membri delle altre delegazioni. Specie per gli americani che lo soprannominarono la “serpe nell’erba” ».
Riportiamo tutto questo, non per fare del puro colore, ma per mostrare come in Kojève, l’attento studio dei problemi filosofici, politici e giuridici, nella loro essenza (tecnicamente, si chiamava e chiama fenomenologia…), fosse sempre strettamente collegato alla comprensione e “gestione” degli eventi storici. Parliamo, insomma, non di un volgare burocrate delle idee, bensì di un filosofo prestato alle istituzioni. O per dire meglio: un uomo che pur essendo del mondo (il funzionario) non rinuncia a parlare al mondo (il filosofo).
Ad esempio, ne La nozione di autorità, scritto nella Francia del Maresciallo Pétain, si fa seguire all’acuta dissezione del concetto, la sua applicazione alla realtà storica. Di quale natura è l’autorità del Maresciallo? E con quali modalità essa influisce sulla Rivoluzione nazionale? Ecco le domande cui Kojève cerca di rispondere in un’ appendice che, per qualità esplicativa, vale veramente l’intero e pur notevole libro.
Prima però occorre fare un passo indietro. Kojève distingue «quattro tipi irriducibili di Autorità umana»: 1) di derivazione teologica ( il Dio-Padre creatore della scolastica, quale causa di tutte le cose, da cui discende l’autorità del padre di famiglia); 2) di derivazione hegeliana (l’autorità del Signore, che accetta il rischio della battaglia per il riconoscimento, al contrario di coloro, i futuri servi, che preferiscono non battersi per paura della morte); 3) di derivazione aristotelica ( del Capo, che viene seguito perché ritenuto superiore, in quando artefice di un progetto), 4) di derivazione platonica (del giudice, portatore di un’ autorità che discende dalla sua natura, pubblicamente riconosciuta, di uomo giusto).
Sono quattro tipologie, che possono combinarsi tra di loro, fino a un totale, scrive Kojève, «che esaurisce tutte le possibilità», «di 64 tipi di autorità (4 puri e sessanta combinati, oppure 15 (4 puri e 11 combinati), se non si tiene conto delle varianti» . Complicato? Addirittura macchinoso? Prima di qualsiasi giudizio vediamo come Kojève, impiegandole, se la cava con Pétain.
L’autorità del Maresciallo, a suo avviso, cumulava quelle del Signore («il vincitore di Verdun»), del Capo («Vi guido, seguitemi»), del Giudice ( l’ «onesto», «l’imparziale», «Ho donato la mia persona alla Francia»), del Padre ( quel suo «atteggiamento paterno», così amato dai francesi). Cosicché «nel 1940 c’è stata una genesi spontanea (“non manifestata da un voto di fiducia”) di Autorità politica totale, perché il Maresciallo funge da “supporto” (individuale) a tutti e quattro i tipi “puri” di Autorità (sotto una forma politica) » . Dopo di che però - Kojève, ricordiamolo, scrive nel 1942 - Pétain perde l’autorità del Signore (la guerra è comunque persa…), ma mantiene quelle del Padre, del Giudice, del Capo. Tuttavia, ecco il punto, «si può anche dire che allo stato attuale l’Autorità del Maresciallo rappresenta un ideale politico, Ma ogni ideale svanisce se non si realizza, o se almeno non si tenta di realizzarlo. Ora, un ideale in via di realizzazione si chiama idea; si intende: idea concreta e costruttiva che, generando l’azione, trasforma il dato in funzione dell’ideale ( e quest’ultimo, in conseguenza della sua realizzazione, si trasforma tanto quanto il dato). Bisogna quindi che il Maresciallo smetta di essere un ideale per diventare un’idea politica. Il che significa che deve formulare e mettere in atto un programma di Rivoluzione nazionale» .
Un progetto politico che però mai decollerà, per ragioni esterne (i progressivi successi militari degli alleati) e interne ( l’umiliante peso delle intromissioni tedesche). E probabilmente Kojève, già all’epoca attivo nella Resistenza, ne era consapevole. Eppure - o forse proprio per questo - da bravo “chirurgo” delle idee tagliava, asportava e ricuciva. Forte, probabilmente, di una grande consapevolezza: il male anche se lo si demonizza, fino al punto di non nominarlo, resta tale. Di qui - crediamo - l’importanza da lui attribuita alla “chirurgia” filosofica a tutto campo. Insomma, siamo davanti a un’analisi estremamente ricca ed elegante. Altro che macchinosità concettuale… Perciò che senso ha definire disdicevole l’ interesse di Kojève per il Maresciallo? Qui siamo d’accordo con Marco Filoni (che riprende la tesi di Danilo Scholz): «Con il testo sulla nozione di autorità, Kojève avrebbe iniziato ad abbozzare la concettualizzazione di una politica dello Stato Francese. Che passava non soltanto per la Resistenza, ma anche per il regime di Vichy» . Nel “chirurgo”, pardon, fenomenologo della politica, pulsava già il cuore del funzionario filosoficamente attento ai destini ultimi della Repubblica francese.
A proposito, per ritornare, concludendo, alla crisi italiana, l’ autorità di Berlusconi a quale tipologia potrebbe appartenere? Escludiamo il Padre e il Giudice… Forse il Signore, o più semplicemente il Capo: “Vi guido, seguitemi”. Benché ultimamente, proprio all’interno del suo partito, sembra che non tutti siano disposti ad ascoltarlo…
Carlo Gambescia
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