Urbanizzazione e capitalismo
Nostalgia delle "zone depresse"
Franco Battiato in una canzone degli anni Ottanta, Zone
depresse, colse molto bene il problema. Quale? Quello dell’arrivo “della
modernità” e del conseguente fugone verso le grandi città. Nel Sud italiano,
nota Battiato, la fine della cultura tradizionale, giunse quando qualcuno
chiese per la prima volta “un po’ di vino con l’idrolitina”... Con le bollicine
arrivarono la città, la cultura urbano-consumistica e il lavaggio dei cervelli:
la città è ricca, la campagna povera; la città è bella, la campagna brutta; la
città è moderna, la campagna antiquata; il cittadino è sveglio, il contadino
stupido, e così via…
Stando a libri molto belli, come quello di Mike Davis (La città degli slum, Feltrinelli 2006), nel Sud del Mondo le cose sarebbero andate proprio così: in Asia, Africa, America Latina, l’ultimo mezzo secolo, o giù di lì, avrebbe visto i contadini impoveriti, richiamati, come zanzare impazzite, dalle luci della città, trasferirsi in grandi centro come San Paolo, Nairobi, Phnom Phen, sovraffollandoli. Dove non hanno trovato una “vita facile e moderna”, ma solo fatiscenti bidonville. Si tratta di un miliardo di persone.
Con chi prendersela? Col capitalismo? Certo. Il modello di urbanizzazione selvaggia, oggi in atto, è lo stesso che i contadini inglesi, provarono sulla propria pelle, durante la rivoluzione industriale, tra il Settecento e l’Ottocento. Nelle fasi di avvio, il capitale ha sempre necessità di manodopera a buon mercato e batte le campagne, svuotandole. Pertanto nulla di nuovo sotto il sole. Se fosse tutto così semplice, si potrebbe sperare nel lieto fine: come inglesi ed euroamericani, anche i cambogiani, tra un secolo, o giù di lì, potrebbero godersi i frutti del capitalismo maturo. E invece no. Perché la rivoluzione industriale in Occidente non conobbe avversari, mentre i poveri cambogiani dovranno vedersela un po’ con tutti. Perciò campa cavallo mio…
Insomma, fin quando durerà il mito della città, alimentato culturalmente dall’immaginario capitalista, che su di esso prospera, sarà molto difficile che le baraccopoli mondiali svaniscano. Per chi è povero, rinunciare alla città, significa far cadere anche la speranza in quella vita migliore che promette, la suadente pubblicità, ieri dell’idrolitina, oggi di un telefonino, domani di una vacanza su Marte.
Il gioco è al rialzo. E difficilmente un capitale sempre più globalizzato, smetterà, a sua volta, di vendere sogni a rate. Per due ragioni: uno ci guadagna; due, chi consuma o spera di consumare, vuole godersi, in ogni caso, i fuochi d’artificio, e raramente si prende la briga di disturbare l’artificiere.
Stando a libri molto belli, come quello di Mike Davis (La città degli slum, Feltrinelli 2006), nel Sud del Mondo le cose sarebbero andate proprio così: in Asia, Africa, America Latina, l’ultimo mezzo secolo, o giù di lì, avrebbe visto i contadini impoveriti, richiamati, come zanzare impazzite, dalle luci della città, trasferirsi in grandi centro come San Paolo, Nairobi, Phnom Phen, sovraffollandoli. Dove non hanno trovato una “vita facile e moderna”, ma solo fatiscenti bidonville. Si tratta di un miliardo di persone.
Con chi prendersela? Col capitalismo? Certo. Il modello di urbanizzazione selvaggia, oggi in atto, è lo stesso che i contadini inglesi, provarono sulla propria pelle, durante la rivoluzione industriale, tra il Settecento e l’Ottocento. Nelle fasi di avvio, il capitale ha sempre necessità di manodopera a buon mercato e batte le campagne, svuotandole. Pertanto nulla di nuovo sotto il sole. Se fosse tutto così semplice, si potrebbe sperare nel lieto fine: come inglesi ed euroamericani, anche i cambogiani, tra un secolo, o giù di lì, potrebbero godersi i frutti del capitalismo maturo. E invece no. Perché la rivoluzione industriale in Occidente non conobbe avversari, mentre i poveri cambogiani dovranno vedersela un po’ con tutti. Perciò campa cavallo mio…
Insomma, fin quando durerà il mito della città, alimentato culturalmente dall’immaginario capitalista, che su di esso prospera, sarà molto difficile che le baraccopoli mondiali svaniscano. Per chi è povero, rinunciare alla città, significa far cadere anche la speranza in quella vita migliore che promette, la suadente pubblicità, ieri dell’idrolitina, oggi di un telefonino, domani di una vacanza su Marte.
Il gioco è al rialzo. E difficilmente un capitale sempre più globalizzato, smetterà, a sua volta, di vendere sogni a rate. Per due ragioni: uno ci guadagna; due, chi consuma o spera di consumare, vuole godersi, in ogni caso, i fuochi d’artificio, e raramente si prende la briga di disturbare l’artificiere.
C’è però una controindicazione. Le luci della città,
sotto sotto intristicono l’inurbato. Come hanno sottolineato i demografi: chi
si trasferisce in città, anche in una bidonville, dopo un po’ finisce per fare
meno figli. Cosicché quel miliardo di cui sopra, potrebbe aumentare di poco,
restare tale, o perfino diminuire. Molti ex contadini, assaliti dalla febbre
della nostalgia, potrebbero tornare al paesello natio. Per bersi un bicchiere
di vino senza idrolitina.
Purtroppo, il problema è che quelli rimasti al paesello,
potrebbero invece continuare a sognare il vino con le bollicine. E a fare
figli...
Carlo Gambescia
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