venerdì 24 giugno 2011

Il libro della settimana: Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli 2011, pp. 166, Euro 18,50. 

http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/ .
Come accostarsi all’autobiografia di Emanuele Severino? Rivestendosi« condecentemente di panni reali e curiali», come il Machiavelli a ideale colloquio con gli «antiqui huomini»? Oppure andando in cerca, come in un improvvisato reality filosofico, dell’aneddoto, della curiosità, del momento di abbandono dietro le quinte della stringente teoresi?
Severino proprio «antiquo» non è, ma la levatura del filosofo è altissima, allo stesso livello dei nostri Maggiori. Quindi la risposta è scontata: «condecentemente» vestiti. Perciò il lettore si allacci le cinture. Anche perché dietro ogni riga dell’autobiografia, per usare un termine caro all’autore, si scorge un destino incontrovertibile: quello di un giovane di buona famiglia, destinato a diventare filosofo, all’interno di mondo affettivo ( genitori, fratello, moglie, figli, colleghi e amici, allievi) che in qualche misura (grande o piccola) partecipa di un destino unico, segnato da quegli eterni, che danno il titolo al volume. Poiché, scrive il filosofo, «in ogni uomo il suo ricordare è il suo ricordo eterno degli eterni - dove eterni sono, appunto, sia le cose ricordate, sia il ricordante» (p.137).
Del resto, secondo Severino, « “l’uomo” si illude di capire e perfino di approvare la verità, e addirittura di capire e farsi sostenitore del destino della verità ». Situazione che riguarda anche i filosofi: «In questa illusione mi trovavo e tuttora mi trovo (e vi si trova qualsiasi altrui esser “uomo” che creda di capire e di approvare il Contenuto del destino). Non è l’ “uomo” a capire il destino, ma è il destino stesso a capirsi e ad apparire nel proprio sguardo - e questo apparire siamo Noi nel nostro essere originariamente oltre l’ uomo » (p.100) .
Ma che cos’è il destino? La citazione è lunga ma necessaria: «La parola de-stino indica (…) lo stare: lo stare assolutamente incondizionato. Il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso abbattuto, ossia è l’apparire della verità incontrovertibile; e questo stesso apparire appartiene alla dimensione dell’incontrovertibile. Al di là di ciò che crede di essere, l’uomo è l’apparire del destino. Al centro di ciò che non può essere in alcun modo negato sta l’impossibilità che un qualsiasi essente (cose, eventi, stati della coscienza o della natura o di altro ancora) sia stato un nulla e torni ad esserlo. Questa impossibilità è la necessità che ogni essente - dal più umbratile e irrilevante al più grande e profondo - sia eterno. Al centro di questo centro sta l’apparire del senso autentico della impossibilità e della necessità. Nella sua essenza, ogni uomo è l’eterno apparire del destino; e nel cerchio del destino, in cui l’essenza dell’uomo consiste, va via apparendo ciò che sopra abbiamo chiamato manifestazione del mondo, cioè il grande sogno che include anche questo esser uomo che sono io e cha sta scrivendo intorno ai propri ricordi » ((pp.46-47).
Ovviamente, Severino parla anche di sé e della persone care. Ma sempre con l’occhio del grande filosofo «antiquo» capace di ricondurre ogni cosa dal particolare all’universale, e viceversa. Come a proposito dell’amatissima moglie Esterina, scomparsa alcuni anni fa: «Ho assistito a tutti e due i parti di mia moglie, entrambi in casa (…). In questo momento sto scrivendo nel mio studio. Alla mia sinistra, contro il muro, c’è una libreria che apparteneva ai miei genitori (…). Nell’imminenza del parto, dove ora si trova la libreria era stato disposto un lettino e lì Esterina diede alla luce Federico. Io ero pressappoco qui o accanto al lettino e la levatrice mi teneva su di morale. Ora mi guardo attorno e vedo il mio studio: giro la testa vedo la libreria. Ma Esterina su quel lettino e quella mattinata della Domenica delle Palme e il primo vagito di Federico non sono un passato a cui debba guardare con la tristezza che si prova per le cose perdute per sempre. Quella mattinata è lì tutta intera, eterna, appena dietro l’angolo dell’oblio, e, come ogni altra cosa passata, attende l’inevitabile, ovvero che giunga il tempo opportuno per rigirare l’angolo e tutta intera rifarsi innanzi, in Me, insieme a tutte le cose passate. In me, invece, in me come “uomo” e dunque come uno che ha ed è fede e che erra, qualsiasi cosa egli abbia a sentire o pensare, in me che ora sto girando la testa verso il muro e non vedo quella mattinata, sopraggiunge la tristezza del tempo perduto. Ma il mio esser oltre l’essere uomo, il mio esser Io del destino, vede che anche questa tristezza è un errare e che, quando il passato rigirerà l’angolo, essa avrà compimento. Non sarà annientamento, ma sarà il fondovalle che, non più coperto dalle nubi, si mostra ai piedi della corona dei monti. Poi tornerà la stanza di quella Domenica delle Palme, col lettino, e la stanza di quest’ora che mi ha visto girare la testa, trovando la libreria» (pp. 85-86).
Difficile trovare di questi tempi pagina più densa e profonda, ma al tempo stesso illuminante. Perché capace di riassumere un pensiero dove la vita si fa filosofia, la filosofia destino, e il destino verità. 

Carlo Gambescia

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