Il discorso di chiusura di Giorgia Meloni ad Atreju 2025 merita attenzione non tanto per ciò che dice, quanto per come funziona. Non è un bilancio di governo, non è un appello all’unità nazionale, non è nemmeno un classico comizio o discorso di fine anno. È un dispositivo politico preciso, costruito per produrre e organizzare rancore.
Non mancano esempi concreti: dal riferimento alla sinistra che “rosica”, alla battuta sulla promozione Unesco della cucina italiana contrapposta ironicamente a chi “va a mangiare dal kebabbaro”, fino alla citazione “Nannimorettiana” — “mi si nota di più se vengo o se non vengo” — usata per ridicolizzare l’assenza di Elly Schlein. In tutti questi casi, il bersaglio non è una posizione politica, ma la sua legittimità simbolica.
Il tratto dominante non è l’ira, ma la polemica fredda. L’avversario politico non viene confutato: viene ridicolizzato. La sinistra è evocata come inconsistente, in fuga, incapace di reggere il confronto. Il sarcasmo non è un incidente di stile, ma una tecnica di delegittimazione simbolica. Il risultato è la trasformazione del dissenso in distorsione morale.
Qui il punto cruciale: la Meloni, pur essendo Presidente del Consiglio, sceglie deliberatamente di non parlare da figura istituzionale. Si colloca sul piano identitario, rafforzando un “noi” compatto contrapposto a un “loro” screditato. Il rancore, in questo schema, non è un eccesso emotivo: è il collante della comunità politica.
Serve una definizione operativa. Il rancore politico non coincide con la rabbia. La rabbia è episodica, esplosiva, spesso disordinata. Il rancore è duraturo, cumulativo e organizzabile. È la memoria dell’offesa trasformata in identità politica.
A differenza dell’indignazione morale, che presuppone un giudizio normativo, il rancore lavora sul piano affettivo: semplifica il mondo, riduce le ambiguità, divide lo spazio pubblico in amici e nemici. È per questo che è così utile alla mobilitazione: non chiede comprensione, chiede appartenenza.
Negli ultimi tre secoli la politica occidentale ha conosciuto fasi ricorrenti di forte politicizzazione delle emozioni (o, se si preferisce, emotivizzazione). In questi contesti, la mediazione istituzionale di tipo liberale cede il passo alla mobilitazione permanente; il leader diventa un regista affettivo più che un decisore razionale.
Non si tratta di contesti omogenei, ma di momenti accomunati da una marcata polarizzazione emotiva dello spazio pubblico: la Spagna delle guerre carliste e della guerra civile del 1936–1939; la Francia del caso Dreyfus e della Guerra d’Algeria; l’Italia dell’interventismo, del primo dopoguerra e del periodo 1943–1945; la Gran Bretagna del conflitto politico tra Disraeli e Gladstone; la Germania dopo la caduta di Bismarck; la Russia del 1905 e del 1917; la Germania del 1918–1919 e del periodo 1929–1933. A questi casi si possono aggiungere gli Stati Uniti della guerra civile, del populismo agrario di William Jennings Bryan, del maccartismo, delle proteste contro la guerra in Vietnam e, oggi, del trumpismo.
In questi frangenti, il rancore funziona come una scorciatoia cognitiva: riduce la complessità, accelera le decisioni, fidelizza militanti ed elettori. Ma ha un costo. Quando l’emozione sostituisce il conflitto regolato, la democrazia si trasforma in un’arena emotiva pseudomorale, dove l’avversario non è più legittimo, ma colpevole, spesso in chiave presuntiva (*).
Il rancore non è una novità della contemporaneità. Nell’Ottocento, il risentimento sociale delle classi escluse — dall’aristocrazia in declino al proletariato emergente — diventa forza organizzativa. Nel periodo tra le due guerre, il rancore si nazionalizza: umiliazione, tradimento, rivincita. Nel secondo Novecento, i grandi partiti di massa incanalano e contengono queste emozioni, sebbene a fatica, attraverso identità collettive e mediazione liberale stabile.
In Italia, si pensi ai passaggi cruciali tra il 1946 e il 1948 e, più tardi, tra il 1992 e il 1994. Con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, lo sdoganamento della destra postfascista e la crisi irreversibile della sinistra dopo la dissoluzione del sistema sovietico, il rancore politico perde progressivamente i suoi argini istituzionali.
Da allora non si esaurisce più: cambia forma, quella della democrazia emotiva (*), ma resta una costante. È una moderna razionalizzazione della demagogia degli antichi. Detto altrimenti: la rancorosa democrazia emotiva è la demagogia dei moderni. E i populismi che hanno attraversato e segnato profondamente l’Occidente ne sono un distillato quasi puro.
Il problema, dunque, non è morale, ma strutturale. Il rancore erode tre pilastri della liberal-democrazia: il pluralismo, il riconoscimento dell’avversario, la reversibilità del potere. Se chi perde non è semplicemente sconfitto, ma delegittimato, il conflitto diventa guerra simbolica.
Lo si vede chiaramente negli Stati Uniti contemporanei, dove Donald Trump è la personificazione più evidente della politicizzazione delle emozioni: l’avversario non va battuto, ma odiato; non va convinto, ma annientato simbolicamente. Il rancore produce consenso solido nel breve periodo, ma indebolisce le regole che rendono possibile l’alternanza democratica.
Tornando alla situazione italiana, non tutto il rancore è uguale. Giorgia Meloni lo utilizza in modo freddo e infrastrutturale: è disciplinato, coerente, orientato alla durata. Matteo Salvini lo adopera in forma impulsiva e intermittente, con un rendimento decrescente. Silvio Berlusconi lo declinava in chiave egocentrica e vittimistica, centrata sulla figura del leader perseguitato.
Prima ancora, negli ambienti missini, il rancore aveva una forma memoriale e comunitaria: identità di minoranza assediata, lunga durata, forte coesione simbolica. La Meloni eredita quella grammatica emotiva, ma la rende compatibile con l’esercizio del governo. Del resto, il fascismo fu come una specie di accampamento di briganti che occupò l’Italia. Ci volle faccia tosta nel secondo dopoguerra per definirsi “esuli in patria”. Certo, come può esserlo un nomade nella steppa…
La sinistra non è priva di rancore, ma lo usa male. Predilige un rancore moralizzante che traccia linee nette tra chi appartiene al suo campo e chi ne resta fuori. Invece di costruire un “noi”, produce un “voi” da educare o stigmatizzare. Inoltre, teme il rancore perché lo associa al fascismo o alla regressione. Così facendo, lo abbandona alla destra, rinunciando a trasformare la rabbia sociale in progetto politico. L’indignazione rituale sostituisce il conflitto, con esiti prevedibili.
La differenza principale tra destra e sinistra non è etica, ma funzionale. La destra tende a trasformare il rancore in identità politica, costruendo un “noi” riconoscibile. La sinistra, più spesso, lo declina in termini morali, trasformandolo in giudizio sull’altro. Nel primo caso, il rancore mobilita; nel secondo, tende a isolare. E non è detto — pensiamo ai due casi — che sia un bene. Non si dimentichi mai che ci si muove sul piano di una patologia della politica che vede isolamento e mobilitazione andare a braccetto, pur di contrastare ogni sano ragionamento politico.
Concludendo, il rancore politico non è né di destra né di sinistra. È una risorsa potente e pericolosa, soprattutto quando si sviluppa in osmosi con la democrazia emotiva.
Quando la politicizzazione delle emozioni diventa l’architrave del consenso, smette di essere uno strumento e diventa una minaccia: accendendo le passioni, delegittima il conflitto regolato.
Il discorso di Atreju 2025 non è un episodio isolato, ma il sintomo di una malattia ormai cronica, che vede nella politicizzazione delle emozioni una tecnica ordinaria di costruzione del consenso politico.
Un ritorno che rafforza i leader, ma indebolisce la democrazia. E le democrazie deboli, si sa, non muoiono di colpo: si consumano.
Carlo Gambescia
(*) Il termine “democrazia emotiva” risale a Theodor Geiger, Democrazia senza dogmi. La società tra sentimento e ragione, in Id., Saggi sulla società industriale, a cura di Paolo Farneti, Utet, 1970, pp. 281–624. Ne abbiamo scritto qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2019/07/la-lezione-di-theodor-geiger-democrazia.html .





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