La recensione di Teodoro Klitsche de la Grange al buon
libro di Agostino Carrino evidenzia, e giustamente,
il motivo conduttore del volume: che il diritto costituzionale
non discende dalle innevate vette del puro pensiero
giuridico, ma fuoriesce in modo magmatico e
incandescente dalle profondità vulcaniche del
"politico". Di qui, il pericolo di bruciarsi.
Osservazione che sembra banale... Ma, come si dice,
non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E
qualsiasi riferimento al feticismo normativo di
certi professori e al costituzionalismo giudiziario di alcuni
giudici, non è puramente casuale. Buona lettura. (C.G.)
Il libro della
settimana: Agostino Carrino, La giustizia come
conflitto. Crisi della politica e stato dei Giudici, Mimesis, Milano
2011, pp. 284, € 18,00 - (Recensione a cura di
Teodoro Klitsche de la Grange )
Se qualcuno pensa
che il diritto costituzionale sia quella disciplina giuridica per fratellanze
esoteriche e spesso pompose, autoreferenziali e con tendenze ieratiche, questo
libro – come altri di Carrino – è una boccata d’aria fresca (e originale).
Consta di cinque saggi, scritti dalla fine degli anni ’90 ad oggi: il tema è la
crisi dello Stato contemporaneo: la maggiore attenzione è dedicata al ruolo –
straripante e stravolgente – del diritto sul politico e del potere giudiziario
sugli altri poteri dello Stato.
Scrive Carrino che
il diritto e il potere “sono principi regolativi autonomi dell’azione sociale,
sfere distinte ma connesse nella storia di tutti i popoli. Un potere senza
diritto avrebbe vita breve, ma il diritto che contesta il potere è non solo
un’illusione, ma contiene in sé il rischio di danneggiare sia la giustizia sia
la pratica politica concreta”; e che “lo Stato di diritto si trasformi in Stato
dei giudici (di rischio di una ‘tirannia dei giudici’ in alternativa ad una
‘tirannia delle maggioranze’ si discute nel diritto costituzionale americano
praticamente da sempre)”. L’idea che il diritto possa fondarsi su se stesso,
così facilmente contraddetta dalla realtà “parte con Kant, raggiunge Kelsen (il
quale la costruisce come sistema nella sua ‘dottrina pura del diritto’) e
infine i teorici del neocostituzionalismo” ed è suscettibile di gravi
conseguenze sulla stabilità, congruità, coerenza dell’ordinamento,
indebolendolo sia sul piano delle garanzie di diritti che della protezione della
comunità. Scrive l’autore “questa idea di un diritto autoreferenziale è non
soltanto indifendibile dal punto di vista dottrinale, ma catastrofica nelle sue
conseguenze, perché finisce con il togliere ai politici le loro responsabilità:
il politico diventa ‘amministratore’, ‘esecutore’ della volontà del giudice (in
senso sistemico), rinuncia cioè alla sua originaria autonomia. In una società di
totale, reciproca irresponsabilità, il rischio è che il potere cada nelle mani
di forze anonime e oscure, sia a livello interno sia a livello internazionale.
Le leggi, in verità, non governano, governano gli uomini e così il diritto è
solo e sempre l’espressione di una determinata società politica e dei fini che
essa si dà”. Il neo-costituzionalismo, che insieme al “governo dei giudici” è
il bersaglio principale di Carrino, sostituisce alle norme i “principi” e/o i
“valori”. Ma il valore “è sempre e per sua natura soggettivo”; per cui “Quando
si parla di ‘valori’ che stanno sotto i principi costituzionali, ad esempio, si
tratta sempre dei ‘valori’ che vengono interpretati e quindi anche qui di
valori soggettivi, nella fattispecie dei valori che un consesso di giudizi
costituzionali, ad esempio, ritiene essere legittimanti dei ‘principi’
costituzionalizzati. Per questo ciò che si può e si deve ‘prendere sul serio’
non sono i valori in quanto tali, ma il conflitto di valori, conflitto che
non ha mai bisogno veramente (solo) di un giudice per essere superato, ma del politico,
della forza, dell’autorità”. Per cui alla fine il tutto serve solo
a legittimare il potere interpretativo dei giudici. A tutto ciò l’autore
contrappone che “questa impostazione, che si pretende intellettualmente
superiore e tesa ad una società più ‘giusta’, in realtà finisce con il perdere
di vista il fatto che tutti i testi giuridici, compresa la Costituzione , non
dipendono da una mera attività interpretativa della loro intrinseca (e
presunta) razionalità, ma da un contesto storico-spirituale assai più ampio. La Costituzione è un
bene che il popolo si dà e che non può essere affidato in esclusiva a nessun
altro” per cui “lo Stato dei giudici è in effetti uno sbocco ineliminabile di
ogni ordinamento giuridico che non cerchi in qualche modo di sottrarre la Costituzione alla
tutela esclusiva della magistratura, ordinaria e costituzionale. La Costituzione deve
essere patrimonio di tutti gli organi dello Stato e in primis dell’ ‘organo’
sovrano, il popolo, ma anche qui non in maniera determinante”.
Al quale spetta, si
può aggiungere il potere costituente, che non a caso è
del tutto trascurato (et pour cause)
da coloro che esaltano la costituzione vigente e il potere interpretativo dei
giudici costituzionali (di fatto sconfinante nella revisione
apocrifadella Costituzione) la cui massima è “la Costituzione non si
cambia, s’interpreta”.
Altri saggi trattano
del rapporto tra liberalismo e democrazia, il nichilismo e il diritto, la
giustizia e la politica.
I limiti
“fisiologici” di questa recensione non consentono di approfondire i vari temi
trattati, ma solo il “filo conduttore” principale. E cioè che dalla crisi della
Repubblica italiana non si può uscire enfatizzando il ruolo del giudice né
quello del diritto versusla politica.
In realtà il diritto
non può sostituire la politica, a meno di non mutarsi in quella; così il potere
giudiziario non può surrogare agli altri se non cessando di essere “potere
giudiziario”, nel senso, ben s’intende, dello Stato borghese di diritto. Per
cui illusioni del genere costituiscono il grimaldello per scardinare lo Stato
costituzionale nato dalle rivoluzioni borghesi. Il costituzionalismo “classico”
è parte della concezione liberale del potere e dello Stato: la quale nasce dal
potere costituente, dall’onnipotenza (giuridica) della Nazione, dalla
distinzione dei poteri, e, non ultimo, da una tutt’altro che celata diffidenza
verso la burocrazia e il potere giudiziario.
Nella situazione
italiana contemporanea pensare che sia possibile governare uno Stato ed ora
uscire dalla crisi – che è prima di tutto politica e probabilmente epocale – confidando
nel potere dei giudici è pensare di avere scoperto la pillola contro il
terremoto.
Va da sé che, in
definitiva, alle concezioni criticate da Carrino, che sono una specie di
pangiuridicismo, possono indirizzarsi critiche analoghe a quelle che Maurice
Hauriou rivolgeva a Kelsen. Ovvero che il normativismo (che è una “variante” di
pangiuridicismo) del giurista austriaco aveva due limiti fondamentali: da un
lato d’aver costruito un sistema statico, poco adatto a comprendere una realtà
essenzialmente mutevole e dinamica come l’ordinamento giuridico; dall’altro di
aver costruito un sistema più pericoloso per la libertà degli ordini comunitari
fondati su convinzioni teologiche e religiose. Perché il dominio dell’
“imperativo categorico” normativista, scriveva il giurista francese, è assai
più pericoloso per la libertà di quanto fossero le concezioni teologiche
cristiane. E ciò è ancor più vero per certi talebani del costituzionalismo che
pretendono di eternizzare la
Costituzione del ’47 (e i poteri d’ “interpretarla”): ma ciò
a scapito della libertà politica del popolo italiano di darsi
una nuova costituzione e un nuovo ordinamento. Cosa che i teologi cristiani –
da S. Tommaso a Suarez, da Bellarmino a Mariana, dai gesuiti ai monarcomachi
protestanti – hanno sostenuto e legittimato. Ed ancora è insegnato nelle
encicliche papali: onde affidarsi a quelli, piuttosto che a certe concezioni, è
più propizio alla libertà dei popoli e, spesso, anche degli individui.
Teodoro Klitsche de la Grange
Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato,
giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
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