Riforme, non basta la parola
Riforme sì, riforme no… sembra il ritornello della “Terra dei Cachi” di Elio e
le storie tese. Serietà. Nel lessico politico non solo italiano, diciamo dal
1945, il termine riforma ha subito un notevole cambiamento. Quale? Se fino agli
anni Settanta l’espressione descriveva il riformismo come insieme di modifiche
sociali al sistema capitalistico per “addolcirlo”, dagli anni Novanta in poi ha
invece assunto un significato ristretto: quello di un complesso di riforme
economiche in grado di migliorare, senza alcun riguardo alla questione sociale,
la competitività del sistema capitalistico. Insomma, l’esatto contrario del
riformismo welfarista. Perciò, quando oggi, Confindustria invoca le “riforme”,
si riferisce, semplificando, alla competitività, punto. Per contro, chiunque
sia rimasto legato al significato sociale del termine viene subito liquidato
come conservatore. Alla base della “trasmutazione lessicale” - per usare un
parolone - c’è sicuramente il cambiamento dei rapporti di forza mondiali:
l’Urss non esiste più, e con essa il pericolo rivoluzionario. Di conseguenza,
negli ambienti economici che contano, da un pezzo non si ritiene più necessario
«andare verso il popolo». Si pensi, ad esempio, a un manager come Marchionne.
Inoltre, va considerato anche un altro fattore: quello dell’ascesa, negli anni
Ottanta della cultura dell’individualismo economico di massa. Una cultura
postmoderna del produci e divertiti, di matrice nordamericana, che ha
contribuito a trasformare il concetto stesso di solidarietà e Stato sociale. In
che modo? Presto detto, imponendo due idee.
La prima, che nessun pasto può essere gratis (l’ espressione risale a Milton
Friedman, padreterno liberale del monetarismo); la seconda, che la solidarietà
debba viaggiare proprio come negli Usa, attraverso canali privati e soltanto
sotto forma di carità e beneficenza.Come tornare alla cultura delle riforme
vere, quelle sociali? Innanzitutto, occorre recuperare una dote oggi rara: la
preveggenza politica. Per capirne il significato, lasciamo la parola a un
riformista liberale (altro che Friedman...), di origine controllata, come
Camillo Benso, Conte di Cavour, anno di grazia 1850: «Vedete signori come le
riforme compiute a tempo, invece d’indebolire l’autorità, la rafforzano; invece
di crescere la forza dello spirito rivoluzionario lo riducono all’impotenza».
Cavour parlava al Parlamento subalpino evidenziando la necessità di un ciclo di
riforme, rivolte a modernizzare il Piemonte (e in seguito l’Italia),
scongiurando il pericolo rivoluzionario, all’epoca, repubblicano e socialista.
Che serva però, anche oggi, un avversario ideologico esterno? Un nemico,
capace, issando la bandiera di un sistema politico, economico e sociale
alternativo, di spaventare il capitalismo e costringerlo a intraprendere
nuovamente il cammino delle riforme sociali ? In realtà, almeno per ora, non
possono essere considerati rivali ideologici la Cina capitalista e autoritaria, né un Islam meno
industrializzato, ma altrettanto autoritario. Dal momento che questi mondi, a
differenza del mito sovietico e marxista, sono incapaci di esercitare qualsiasi
fascino sulle masse occidentali. Anzi, per contrasto, Cina e Islam, possono
spingere gli occidentali, soprattutto quelli « piccoli piccoli» (nel senso dello
scrittore Cerami), a farsi fieramente ancora più individualisti. Manca,
insomma, quel forte appeal sociale esercitato dall’Urss e dal marxismo sugli
intellettuali europei e americani. Capace, in passato, per reazione (la paura
del “contagio” di massa), di tradursi politicamente in Occidente - certo,
obtorto collo - in buona cultura welfarista delle riforme sociali, frutto in
parte di un intelligente liberalismo politico, non mercatista, in grado di
intuire la pericolosità (per il capitalismo stesso) di tirare troppo la corda.
Tutto qui.
C'è però una controindicazione politica, non da poco. Secondo Tocqueville,
altro liberale di origine controllata, i cui occhi erano però rivolti al
repentino crollo della timida (in senso riformista) monarchia francese; caduta
che nell'immediato spianò la strada alla demagogia politica e sociale dei
giacobini: «Il regime che una rivoluzione distrugge è quasi sempre migliore di
quello che lo aveva immediatamente preceduto, e l’esperienza insegna che il
momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a
riformarsi».
Ciò significa che le riforme, soprattutto se balbettanti, possono accrescere le
aspettative della gente, o comunque provocare scontento tra i vari gruppi
sociali in conflitto. E, per contro, alimentare negli oppositori la politica
del "tanto peggio tanto meglio". Che, di regola, dopo la caduta del
regime, si trasforma inevitabilmente nel "si stava meglio quando si stava
peggio". Ovviamente, parliamo delle riforme vere, quelle che servono a
evitare le rivoluzioni...
Carlo Gambescia
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