L'ipotesi di Giorgio Lunghini
Lavoratore vecchio fa buon brodo
E’ sui giornali di oggi (ad esempio qui: http://www.repubblica.it/2008/11/sezioni/economia/pensioni-avv-stato/pensioni-avv-stato/pensioni-avv-stato.html?ref=search ) la notizia della decisione del Governo di equiparare l’età pensionabile delle donne dipendenti statali a quella degli uomini, portandola a sessantacinque anni.
Due riflessioni generali.
In primo luogo, la decisione è stata presenta, anche a livello di Commissione Europea, come antidiscriminatoria: tutti uguali, uomini e donne. Ma attenzione, uguali nel lavorare di più. Sulle diversità economiche - certo, presenti nel settore privato - si continua a guardare dall’altra parte, fischiettando e facendo finta di nulla. Anche in sede europea.
In secondo luogo, questa marcia dell’uguaglianza al contrario, dovrebbe far riflettere, sulla cattiva, se non pessima “gestione” del lavoro, all’interno della società capitalistica. Che, ormai, sembra essersi attestata, tra i due estremi: quello della disoccupazione ( e dunque del non lavoro) e quello della progressiva dilazione dell’età pensionabile (e dunque del superlavoro).
Evidentemente qualcosa non funziona. E ci spieghiamo meglio.
Su quali valori si è retta finora la “promessa capitalistica”? Quella di una qualità della vita in costante miglioramento. E il lavoro, come valore, faceva parte di questa promessa? Sì , ma ora non più. Stanno infatti accadendo due cose importanti. Prima, che la qualità del lavoro (in termini non solo di durata) sta peggiorando. Seconda, che non sta migliorando, come è sotto gli occhi di tutti, la stessa qualità della vita (in termini di prospettive future).
Pertanto, ora, la domanda è questa. Lavorare di più. Ma per andare dove? E in cambio di che cosa?
In realtà, qui, il capitalismo andrebbe messo alla prova,
come notava ieri Giorgio Lunghini, economista "poundiano" di
sinistra, in un ottimo corsivo sul Manifesto. Che qui riproduciamo per
intero:
.
"Secondo la teoria economica dominante (la teoria
neoclassica, quella che viene insegnata nella maggior parte dei corsi
universitari e praticata poi dai responsabili delle politiche economiche nazionali
e sovranazionali), il prodotto sociale dovrebbe essere distribuito tra i
diversi «fattori» della produzione in proporzione al contributo che ciascuno di
questi fattori ha dato al prodotto. Ai proprietari delle risorse naturali,
finanziarie o tecnologiche, la rendita; ai proprietari del capitale il
profitto; ai lavoratori i salari. Dal punto di vista teorico la questione è
molto complicata, tuttavia la rendita dipende soltanto dal diritto di proprietà
e l'unica giustificazione ragionevole dei profitti è il lavoro di direzione e
il compenso per il rischio. Che i lavoratori abbiano un ben fondato diritto ad
alti salari, se non proprio a tutto il prodotto, dovrebbe essere pacifico. Gli
stessi cultori della teoria dominante dovrebbero convenire che se il prodotto
sociale si riduce, chi non ne ha meritato una parte dovrebbe restituire il
maltolto. In generale per via fiscale, in molti casi per via giudiziaria".(http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20090303/pagina/01/pezzo/243603/ )
.
.
Il che per noi significa, dal punto di vista
sociologico e non più economico, che all' aumento dell ' età di lavoro, e della
stessa qualità del contributo di ogni singolo lavoratore in termini di
esperienza professionale (un fattore sociologico, certo da rapportare al
merito), non può non corrispondere anche l'aumento in misura proporzionata dei
salario, per tutti uomini e donne. Dal momento che a sessantacinque anni, il know
how individuale, gode di quel decisivo supplemento di esperienza, che un
trentenne, pur preparato, per ragioni anagrafiche ancora non può possedere,
salvo alcune brillantissime eccezioni. Ma su questo questo punto tutti restano
zitti: la
Commissione Europea , Sacconi, Brunetta, Giavazzi e compagnia
cantante, per non parlare degli economisti citati dal bravo Lunghini. Molto
comodo, complimenti.
Carlo Gambescia
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