martedì 25 marzo 2008

Con il tibet

Contro il "pensiero unico"





Non essendo noi esperti di politica estera, resta difficile intervenire nel dibattito sulla questione tibetana. Tuttavia quel che ci ha subito colpito è certo “cortese” attendismo verso la Cina attuale, comune alla destra e alla sinistra.
Il punto che però qui desideriamo affrontare, non riguarda tanto la decisione di boicottare o meno le Olimpiadi, quanto certa forma mentis dell’Occidente, e con questo ultimo termine intendiamo Usa, Europa, Giappone. Ma ci spieghiamo meglio.
La decisione di “chiudere” un occhio (se non tutti e due) sulla durissima repressione cinese in Tibet, affonda le radici non solo nel “buonaffarismo” e/o nel realismo politico di grana grossa dell’Occidente (del tipo "Prenditela con i pesci 'piccoli' come Saddam, ma non con quelli 'grossi' come la Cina"), ma in una determinata mentalità culturale.
Quale? Quella che scorge nella mano invisibile del mercato capitalistico uno strumento di eccezionale e inarrestabile progresso economico e civile. Non è forse vero che i politici, gli intellettuali, gli uomini d’affari occidentali ritengono che la forza propulsiva del mercato porterà con sé, “prima o poi”, la trasformazione democratica della Cina? E che di conseguenza questo processo “di mercato” condurrà a una “facile”e “automatica” soluzione della questione tibetana? Per farla breve: a destra come a sinistra (ovviamente, quella filo-mercato) si crede che la forza travolgente del capitalismo spazzerà via ogni residuo totalitario (in Cina) e teocratico (in Tibet).
Sotto quest’ultimo aspetto è però singolare il silenzio di certa sinistra movimentista, dunque non filo-mercato. Magari non tutta, ma comunque….
Perché? Facile: questa sinistra, dal momento che detesta sia il capitalismo che la “teocrazia” tibetana, non può offrire soluzioni concrete. E soprattutto immediate. Di qui il suo silenzio e imbarazzo... Mentre i cinesi continuano, senza alcuna remora ideologica, a massacrare i “teocratici” monaci tibetani.
Dietro questo atteggiamento della sinistra movimentista, c'è sul piano strategico, diremmo ideologico, una profonda incomprensione, probabilmente di derivazione illuministica, per ogni teoria del diritto dei popoli, fondata appunto sul diritto alla differenza da opporre a una ragione livellatrice. Mentre su quello tattico, si ravvisa l’errore di non aver ancora compreso come sia interesse dello stesso movimento internazionale anti- globalizzazione sposare la causa del diritto dei popoli. Proprio per opporsi meglio, e concretamente, alla marcia livellatrice e strumentale del capitalismo globalizzatore.
In conclusione, e qui ci lanciamo in una profezia, il nuovo socialismo, quello del XXI secolo, non potrà non essere comunitario: rispettoso delle libertà individuali ma anche del diritto dei popoli a vivere secondo le proprie tradizioni. Ci piace immaginare un mondo dove un Tibet “teocratico”, se storicamente e culturalmente condiviso dai suoi cittadini, possa finalmente avere lo stesso diritto di vivere, ad esempio, di una Serbia democratica e socialista, e così via.
Ecco perché, oggi, difendere il Tibet significa battersi contro la globalizzazione capitalistica del pianeta. E - si badi bene - non si tratta di un atto d’amore universale, ma solo di autentico realismo politico. Quello fondato, come ogni buon realismo, sulla scelta politica tra ciò che è essenziale e ciò che non è tale. Dal momento che dietro la scelta di difendere il Tibet, se ne scorge un'altra, vitale. E che conta, politicamente, in assoluto. Quale? Quella di battersi, oggi, contro la marcia del “pensiero unico”.

Il primo, vero e solo nemico dei popoli.

Carlo Gambescia

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