Gruppi di pressione e "democrazia
degli interessi"
Preferiamo trattare il problema dei rapporti tra
confessioni religiose, società civile e potere politico in termini generali,
senza entrare nel merito delle polemiche di questi giorni sugli interventi del
Papa. O su altri gruppi religiosi che lamentano il pericolo di una ricorrente e
crescente ostilità sociale verso le proprie credenze. Lasciamo perciò che siano
i lettori a tirare le somme "politiche"di queste nostre riflessioni
teoriche. O come ci piace ritenere "metapolitiche".
Le democrazie contemporanee, istituzionalmente, si reggono sulla dialettica
degli interessi. Può piacere o meno ma è così. Semplificando: gli interessi
hanno sostituito le passioni. Magari non ancora del tutto, ma comunque in larga
parte. Potremmo perciò definire formalmente la democrazia attuale (quella
dell’Occidente in particolare) come “democrazia degli interessi”.
Infatti la “regola degli interessi” verte su una (apparentemente) semplice
proposizione politica: quanto maggiore è la dialettica tra i gruppi di
pressione tanto maggiore è la democrazia. Ovviamente la dialettica implica la
trasformazione preventiva, ma in chiave di crescente pluralismo sociale, dei
differenti attori sociali in gruppi di pressione economica, sociale e
culturale, eccetera. E dunque non di tipo militare.
Si sostiene infatti, ormai anche a livello assiomatico-mediatico, che quanto
più una società risulta capace di “contrattare”pacificamente al suo interno i
diversi interessi, tanto più riesce a ridurre il rischio del conflitto sociale
e politico violento. Di qui però la necessità di fissare preventivamente regole
“procedurali” affinché i “contratti” tra i diversi gruppi e le decisioni del
potere politico possano avvenire, come si usa dire oggi, in modo
"trasparente".
Denunciare un gruppo sociale, religioso, culturale, eccetera, perché si
comporta come un gruppo di pressione è perciò in contrasto con qualsiasi
democrazia che si regga sulla dialettica dei gruppi di pressione, fondata
appunto sul conflitto regolato degli interessi. Dal momento che viene ritenuto
normale che i vari gruppi sociali cerchino di influire lecitamente sulla
decisione politica, come consentito dalle regole della “democrazia degli
interessi”.
La situazione però si complica, quando un gruppo sociale, economico e
culturale, vuole partecipare alla dialettica degli interessi, pretendendo però
al tempo stesso che gli sia riconosciuto uno statuto giuridicamente superiore
rispetto a quello degli altri gruppi di pressione, per ragioni storiche e
morali; per farla breve valoriali. E perciò estranee in linea di principio -
piaccia o meno - alla democrazia degli interessi.
Tuttavia appena lo statuto di superiorità viene concesso al gruppo in
questione, gli altri gruppi sociali, economici e culturali discriminati,
passano all’offensiva, invocando, per altrettanti ragioni di tipo storico e
morale, l’estensione del riconoscimento e il riequilibrio degli interessi.
La democrazia degli interessi, al contrario di quel che comunemente si ritiene,
implica perciò un forte potere politico, capace di imporre e far rispettare
“regole” uguali per tutti, senza però limitare la libertà dei singoli cittadini
e dei vari gruppi sociali. Il che nella realtà sociale, come è sotto gli occhi
di tutti, non sempre è possibile per ragioni legate al carente spirito di
autodisciplina dell’uomo, alla disuguaglianza nella distribuzione delle
ricchezze, alla diversità culturale delle tradizioni storiche, alla qualità
delle élite al potere, eccetera. Di qui il continuo conflitto, non sempre
classificabile e "addomesticabile", tra i gruppi sociali e in
particolare tra quei gruppi che si muovono sul confine tra gli interessi e i
valori. Ma anche le grandi difficoltà di “regolazione”, da parte di un potere
politico, che non può essere neutrale, dal momento che, di regola, nelle sue
élite, a prescindere dalla qualità delle medesime, rispecchia, gli interessi ma
anche i valori storicamente prevalenti, se non proprio dominanti.
Ecco allora che spesso le questioni di interesse, soprattutto dove un gruppo
sociale, ad esempio religioso, si qualifica come principale “veicolo" di
valori, si trasformano in conflitti, difficilmente “addomesticabili” attraverso
il semplice contratto.
Quale soluzione?
Difficile dire. Il ritorno a una democrazia dei valori implica la preventiva
comunione pubblica dei valori, non sempre conseguibile, dove sussistono
molteplici tradizioni storiche, spesso fortemente conflittuali. Mentre
procedere ulteriormente sulla via della democrazia degli interessi comporta il
definitivo, e probabilmente coattivo, “raffreddamento” delle ultime isole di
“passione” sociale. Il che, considerando che l’uomo non vive di solo di pane,
ci sembra difficilmente attuabile, se non a caro prezzo per la libertà di
tutti.
Ovviamente, e concludiamo, un potere incerto e sempre in bilico, tra le due
forme di democrazia - e qui si pensi alla situazione italiana - perché aspira
soprattutto a durare nel tempo, e a qualsiasi costo, contribuisce a rendere la
dialettica, più generale, tra interessi e passioni, confusa e soprattutto
sempre a rischio di degenerare in una guerra civile senza vincitori né vinti.
Carlo Gambescia
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