Dopo i fatti di Catania
Tifo violento,
sarà sufficiente la repressione?
Repressione, solo repressione. Dopo i fatti di Catania
tutti sembrano essere d’accordo nell’auspicarla. Si liquida il tifo violento,
che coinvolge in particolare i giovani, giudicandolo un fenomeno puramente
delinquenziale. E non invece un fenomeno identitario, ritualistico e di folla.
Che, indubbiamente, ha una sua pericolosità sociale, nessuno lo nega. Tuttavia
se è comprensibile l’atteggiamento delle forze dell’ordine (che in fondo
cercano di fare solo il proprio lavoro), non lo è quello di certi giornalisti e
studiosi di scienze sociali.
E qui va fatta una breve digressione.
Le ricerche mostrano che il riflusso verso il privato degli anni Ottanta, ha implicato un progressivo calo di interesse verso la militanza politica. Un vuoto che i giovani hanno colmato “investendo” in altri settori del tempo libero, e dunque anche nell’ambito delle pratica sportiva e del tifo calcistico ( si veda il Quinto Rapporto 2002 sulla condizione giovanile a cura dell’Istituto Iard Franco Brambilla, http://www.istitutoiard.it/). Il mutamento di interessi si spiega con la crescente sfiducia verso partiti, istituzioni, forze dell’ordine. Se all’inizio degli anni Ottanta, due giovani su tre si fidavano delle istituzioni, oggi di fida solo un giovane su due. Questo dato fa il paio con l’accresciuta fiducia nei riguardi di famiglia e amici. E soprattutto con il diffuso apprezzamento (tre giovani su quattro) dell’amicizia come valore in sé. Ora, nessuno vuole sostenere che la sfiducia nelle istituzioni e la fiducia nel gruppo dei pari (età) si sia trasformata automaticamente in tifo calcistico e il tifo, a sua volta, in tifo acceso e violento. Ma in particolari condizioni di deprivazione culturale, isolamento sociale e incertezza lavorativa (un giovane su due tra i 25 e i 34 anni svolge un lavoro flessibile, e solo uno su due, tra i 15 e il24 ha un’occupazione), il
vischioso mondo del calcio e del tifo, incensato dai media sette giorni su
sette e favorito dalle stesse società sportive, ha sicuramente rappresentato,
per alcuni giovani “deprivati”, il terreno socioculturale perfetto per
trasformarsi in ultrà.
Sotto questo aspetto, il tifo violento risponde perciò a una logica di tipo identitario. E spieghiamo perché. Il gruppo ultrà si riconosce e legittima, negando lo stesso diritto a un gruppo avversario (spesso altrettanto violento): è un riconoscimento “contro” qualcuno. E di questa contrapposizione identitaria, ne fanno le spese le forze di polizia, costrette istituzionalmente a frapporsi tra i due gruppi, come purtroppo è avvenuto a Catania. Inoltre, su questa forte logica di gruppo, si innescano i cosiddetti ritualismi collettivi (striscioni, cori, e coreografie varie), che agiscono da rinforzo psicologico, favorendo la “militarizzazione” del tifoso e la sua adesione a una visione mitologica e totalizzante della squadra di appartenenza. Il processo è questo: 1) l’isolamento socioculturale facilita l’aggregazione tra tifosi; 2) l’individuazione del nemico (l’ altro tifoso o il poliziotto), rafforza la coesione del gruppo; 3) il gruppo, grazie all’intervento del rito, acquisisce maggiore coesione e forza, espandendosi socialmente fin dove non incontra ostacoli (in genere istituzionali). La logica processuale del gruppo risulta perciò più importante dei suoi contenuti, che possono essere ripresi, in chiave occasionalistica, dalle ideologie più differenti. Pertanto, parlare di una curva di “stampo fascista” o “comunista”, è approssimativo e fuorviante, perché non consente di individuare la dinamica sociologica del fenomeno. In questo senso, il ferimento e l’uccisione di un tifoso avversario o di un agente di polizia (al di là della loro gravissima rilevanza penale), non sono fenomeni legati a una particolare ideologia politica, ma fatti simbolici. Perché assumono lo stesso valore rituale dell’uccisione del capro espiatorio. Infatti, come ci insegnano gli antropologi, si tratti di “atti” che fondano, rifondano, e consolidano il gruppo. Insomma, il gruppo ultrà è una vera e propria (micro)struttura sociale, che nell’universo hobbesiano del tifo violento, stabilizza e soddisfa, seppure in modo deviato e antisociale, uno spontaneo bisogno individuale di identificazione. E quanto più cresce lo stato di isolamento socioculturale in cui i membri del gruppo vivono, tanto più resta difficile impedire che i singoli cedano al richiamo protettivo “del branco” per dirla nel linguaggio sbrigativo di certi giornali.
Infine, lo stadio di calcio, è il luogo per eccellenza, dove i fenomeni di gruppo (fondati su identificazione e rito) si trasformano in fenomeni di folla. Perché?
In primo luogo, ogni individuo, anche se non appartenente a un gruppo di tifosi violenti, una volta immerso nella folla, acquisisce un pericoloso senso di onnipotenza: si sente psichicamente all’unisono con una grande quantità di persone, finendo per condividerne gli scopi immediati. In secondo luogo, certi sentimenti di odio e violenza, si trasmettono dal gruppo alla folla rapidamente, quasi per “contagio” psichico tra individui, per dirla con Le Bon. In terzo luogo, la folla subisce facilmente, come in stato di ipnosi, ogni improvvisa e nuova suggestione psichica (si pensi al panico che provocò tra i tifosi la falsa notizia della morte di un tifoso, diffusasi durante il derby Roma-Lazio nel 2004). Con tutte le tristi conseguenze del caso.
Questi tre fattori (identificazione attraverso il nemico, ritualità rafforzativa, trasformazione del gruppo in folla), sono alle origini di quel che è accaduto venerdì scorso a Catania. Ma identificazione e ritualità, sono fattori che rinviano a cause strutturali. Cosicché reprimere non serve a nulla. Mentre, sulla trasformazione del gruppo in folla si potrebbe intervenire, non chiudendo gli stadi, ma rendendoli meno anonimi e più vivibili sotto l’aspetto ambientale e architettonico.
In conclusione, il problema di fondo è quello di offrire alternative di vita a giovani che vivono in condizioni di isolamento e deprivazione socioculturale. Come? Tentando di sostituire alla logica del branco la logica della società civile. Il che non è certo facile, e nell’attuale situazione, può apparire degno di un utopista settecentesco. Ma puntare solo sulla repressione, senza almeno tentare di rimuovere le cause di fondo del "tifo violento", non è altrettanto irrealistico?
E qui va fatta una breve digressione.
Le ricerche mostrano che il riflusso verso il privato degli anni Ottanta, ha implicato un progressivo calo di interesse verso la militanza politica. Un vuoto che i giovani hanno colmato “investendo” in altri settori del tempo libero, e dunque anche nell’ambito delle pratica sportiva e del tifo calcistico ( si veda il Quinto Rapporto 2002 sulla condizione giovanile a cura dell’Istituto Iard Franco Brambilla, http://www.istitutoiard.it/). Il mutamento di interessi si spiega con la crescente sfiducia verso partiti, istituzioni, forze dell’ordine. Se all’inizio degli anni Ottanta, due giovani su tre si fidavano delle istituzioni, oggi di fida solo un giovane su due. Questo dato fa il paio con l’accresciuta fiducia nei riguardi di famiglia e amici. E soprattutto con il diffuso apprezzamento (tre giovani su quattro) dell’amicizia come valore in sé. Ora, nessuno vuole sostenere che la sfiducia nelle istituzioni e la fiducia nel gruppo dei pari (età) si sia trasformata automaticamente in tifo calcistico e il tifo, a sua volta, in tifo acceso e violento. Ma in particolari condizioni di deprivazione culturale, isolamento sociale e incertezza lavorativa (un giovane su due tra i 25 e i 34 anni svolge un lavoro flessibile, e solo uno su due, tra i 15 e il
Sotto questo aspetto, il tifo violento risponde perciò a una logica di tipo identitario. E spieghiamo perché. Il gruppo ultrà si riconosce e legittima, negando lo stesso diritto a un gruppo avversario (spesso altrettanto violento): è un riconoscimento “contro” qualcuno. E di questa contrapposizione identitaria, ne fanno le spese le forze di polizia, costrette istituzionalmente a frapporsi tra i due gruppi, come purtroppo è avvenuto a Catania. Inoltre, su questa forte logica di gruppo, si innescano i cosiddetti ritualismi collettivi (striscioni, cori, e coreografie varie), che agiscono da rinforzo psicologico, favorendo la “militarizzazione” del tifoso e la sua adesione a una visione mitologica e totalizzante della squadra di appartenenza. Il processo è questo: 1) l’isolamento socioculturale facilita l’aggregazione tra tifosi; 2) l’individuazione del nemico (l’ altro tifoso o il poliziotto), rafforza la coesione del gruppo; 3) il gruppo, grazie all’intervento del rito, acquisisce maggiore coesione e forza, espandendosi socialmente fin dove non incontra ostacoli (in genere istituzionali). La logica processuale del gruppo risulta perciò più importante dei suoi contenuti, che possono essere ripresi, in chiave occasionalistica, dalle ideologie più differenti. Pertanto, parlare di una curva di “stampo fascista” o “comunista”, è approssimativo e fuorviante, perché non consente di individuare la dinamica sociologica del fenomeno. In questo senso, il ferimento e l’uccisione di un tifoso avversario o di un agente di polizia (al di là della loro gravissima rilevanza penale), non sono fenomeni legati a una particolare ideologia politica, ma fatti simbolici. Perché assumono lo stesso valore rituale dell’uccisione del capro espiatorio. Infatti, come ci insegnano gli antropologi, si tratti di “atti” che fondano, rifondano, e consolidano il gruppo. Insomma, il gruppo ultrà è una vera e propria (micro)struttura sociale, che nell’universo hobbesiano del tifo violento, stabilizza e soddisfa, seppure in modo deviato e antisociale, uno spontaneo bisogno individuale di identificazione. E quanto più cresce lo stato di isolamento socioculturale in cui i membri del gruppo vivono, tanto più resta difficile impedire che i singoli cedano al richiamo protettivo “del branco” per dirla nel linguaggio sbrigativo di certi giornali.
Infine, lo stadio di calcio, è il luogo per eccellenza, dove i fenomeni di gruppo (fondati su identificazione e rito) si trasformano in fenomeni di folla. Perché?
In primo luogo, ogni individuo, anche se non appartenente a un gruppo di tifosi violenti, una volta immerso nella folla, acquisisce un pericoloso senso di onnipotenza: si sente psichicamente all’unisono con una grande quantità di persone, finendo per condividerne gli scopi immediati. In secondo luogo, certi sentimenti di odio e violenza, si trasmettono dal gruppo alla folla rapidamente, quasi per “contagio” psichico tra individui, per dirla con Le Bon. In terzo luogo, la folla subisce facilmente, come in stato di ipnosi, ogni improvvisa e nuova suggestione psichica (si pensi al panico che provocò tra i tifosi la falsa notizia della morte di un tifoso, diffusasi durante il derby Roma-Lazio nel 2004). Con tutte le tristi conseguenze del caso.
Questi tre fattori (identificazione attraverso il nemico, ritualità rafforzativa, trasformazione del gruppo in folla), sono alle origini di quel che è accaduto venerdì scorso a Catania. Ma identificazione e ritualità, sono fattori che rinviano a cause strutturali. Cosicché reprimere non serve a nulla. Mentre, sulla trasformazione del gruppo in folla si potrebbe intervenire, non chiudendo gli stadi, ma rendendoli meno anonimi e più vivibili sotto l’aspetto ambientale e architettonico.
In conclusione, il problema di fondo è quello di offrire alternative di vita a giovani che vivono in condizioni di isolamento e deprivazione socioculturale. Come? Tentando di sostituire alla logica del branco la logica della società civile. Il che non è certo facile, e nell’attuale situazione, può apparire degno di un utopista settecentesco. Ma puntare solo sulla repressione, senza almeno tentare di rimuovere le cause di fondo del "tifo violento", non è altrettanto irrealistico?
Carlo Gambescia
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