Il libro della settimana: Ruth Ben-Ghiat
(a cura di), Gli
imperi. Dall’età antica all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2009, pp. 346, euro
26,20.
Ogni vera storia è sempre storia contemporanea, insegnava Croce. Il che, tradotto, significa che ad esempio oggi si torna a parlare di “impero” e “imperi” perché gli storici vivono immersi in un mondo dove l’impero, in questo caso quello Usa, nascente o meno, è una realtà tangibile, contemporanea. Di qui la necessità del confronto storiografico possibilmente oggettivo con lo sguardo rivolto soprattutto sul presente.
https://www.mulino.it/isbn/9788815130570 |
Ogni vera storia è sempre storia contemporanea, insegnava Croce. Il che, tradotto, significa che ad esempio oggi si torna a parlare di “impero” e “imperi” perché gli storici vivono immersi in un mondo dove l’impero, in questo caso quello Usa, nascente o meno, è una realtà tangibile, contemporanea. Di qui la necessità del confronto storiografico possibilmente oggettivo con lo sguardo rivolto soprattutto sul presente.
Perché, se possibile? In realtà, e sia detto con il
massimo rispetto per Croce, spesso la “contemporaneità” non giova alla serenità
storica e neppure al taglio metodologico prescelto, che talvolta risente delle
mode conoscitive del tempo: lo storico invece di rivendicare la propria
indipendenza, anche di metodo, rischia sempre di riflettere il pensiero comune,
se non i vezzi, della propria epoca. E questo purtroppo è il caso del testo di
cui qui ci occupiamo: Gli imperi. Dall’età antica all’età contemporanea,
(il Mulino, Bologna 2009, pp. 346, euro 26,20). Volume curato da Ruth
Ben-Ghiat, docente di storia e direttrice del dipartimento di Italian Studies
della New York University. Opera che esce nella collana “Dialoghi”
dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, presieduto da Aldo Schiavone, e che
raccoglie undici contributi dell’omonimo convegno tenutosi presso la New York University il
27-28 gennaio 2006.
Del volume, infatti, è particolarmente criticabile l'
approccio che potremmo definire - semplificando - post-moderno. Nel senso di
una critica fondata su una ragione storiografica debole, favorevole alle
scorciatoie, e perciò troppo ripiegata sul presente, come unico mondo
possibile.
Perché per un verso si considerano definitivi alcuni
fenomeni ancora in atto e dagli esiti incerti, come la crisi dello
stato-nazione; e per l’altro si rifiuta per principio qualsiasi definizione
concreta del concetto di impero, se non quella metaforica, molto post-moderna
appunto, dell’ impero come di una invisibile rete onnicomprensiva, seguendo la
dominante moda delle analogie informatiche. Ma procediamo con calma.
In primo luogo, gli autori - tutti storici - sembrano
privilegiare solo due forme istituzionali: l’impero e lo stato-nazione. Il che
è riduttivo perché la storia ha conosciuto, a voler essere sintetici, la
città-stato, la città mercantile, lo stato-regionale (signorie e principati),
lo stato assoluto: tutte entità spesso entrate in contrasto con gli imperi.
Pertanto non è detto che in futuro queste forme storiche non possano
riproporsi: non esiste insomma alcuna polarità impero/stato-nazione, ma una
linea lungo la quale è possibile ciclicamente rinvenire le forme istituzionali
più differenti. Come non esiste una tendenza evolutiva assoluta alla
“transnazionalità”, malgrado gli autori sostengano in contrario ( si vedano
l’introduzione della Ben-Ghiat e i contributi della Stoler e di Armitage) :
idea che attraversa tutta l’opera e che affiora persino in contributi
circoscritti per argomento come quelli di Feros, della Pagano de Divitiis e di
Cooper.
Probabilmente perché si tratta di un'idea tesa a
giustificare, attraverso l’impiego del concetto di reti transnazionali
soprattutto economiche e culturali, ciò che per la sensibilità culturale
post-moderna degli autori, affascinati dalle analogie informatiche alla moda, è
l’ a priori per eccellenza: la natura reticolare del impero americano, nei
termini - e il cerchio metodologico si chiude - di una logica del dominio soft,
quale egemonia sull'immaginario, come impone la scuola post-moderna
stregata dai meccanismi disciplinari della psiche umana.
In secondo luogo, il volume resta così privo di un
qualsiasi accenno alle forme di dominio hard esercitate attraverso le
burocrazie imperiali, gli eserciti, i “funzionari” del fisco e della moneta: i
lavori di Einsenstadt, Finer, Tilly sul ruolo del conflitto culturale, bellico
e fiscale nella formazione degli imperi e delle altre istituzioni politiche,
non sono neppure citati. Mentre risulta sopravvalutato il ruolo dell’economia
di mercato (nonostante due buoni saggi in chiaroscuro di Anthony Pagden e Guido
Abbattista sui rapporti tra passioni e interessi nel quadro della cultura
settecentesca) . Si danno, insomma, per eterni e vincenti - fin dall'antichità
- i meccanismi "transnazionali" dell’economia di mercato: emblematico
il saggio di Elio Lo Cascio sull’economia imperiale romana nel Mediterraneo,
come meccanico esito di una neoclassica “sostanziale diminuzione dei costi di
transazione”; tra l'altro vi si parla anche di “schiavo-manager”…
Sconcertante - dispiace dirlo - anche il contributo del pur accorto Franco Cardini, l’unico, a dire il vero, che provi a definire il concetto di impero (per quanto puntando troppo sull’idea "soggettiva" di autocoscienza imperiale; idea "bella ma impossibile", perché non aiuta lo studio degli "oggettivi" e concreti rapporti di forza ) . Il quale però, per venire all’oggi, dà una definizione dell'egemonia imperiale Usa che sconfina nella fiction alla Fanucci (post-moderna appunto):
Sconcertante - dispiace dirlo - anche il contributo del pur accorto Franco Cardini, l’unico, a dire il vero, che provi a definire il concetto di impero (per quanto puntando troppo sull’idea "soggettiva" di autocoscienza imperiale; idea "bella ma impossibile", perché non aiuta lo studio degli "oggettivi" e concreti rapporti di forza ) . Il quale però, per venire all’oggi, dà una definizione dell'egemonia imperiale Usa che sconfina nella fiction alla Fanucci (post-moderna appunto):
.
“Si
può dire - scrive lo storico fiorentino - che centro e protagonista dell’impero
siano non già gli Stati Uniti con il loro governo, il loro esercito e i loro
interessi, bensì una nuova e complessa entità sovranazionale, internazionale e
anazionale; un ‘impero’ senza confini e senza limiti, senza centro e senza
periferia, guidato da una élite internazionale di gruppi imprenditoriale e
finanziari” (p. 49) .
.
Insomma tutto e il contrario di tutto. Sembra quasi che
il volume si muova nell’onda lunga ma melmosa di Empire. O per dirla
tutta che voglia solo fare il verso (storiografico) all'immeritatamente
fortunato testo (filosofico) di Negri e Hardt, apprezzatissimo in America anche
dagli storici, come Bibbia di certo post-modernismo progressista. Dove, in nome
di una specie di gaia scienza post-marxista, si celebra il potere invisibile
del capitale a scapito però della visibilità di concreti e misurabili rapporti
di forza, tra classi, ceti e individui con tanto di nome e cognome. Per farla
breve: della chiarezza. Soprattutto metodologica.
Con una differenza che al filosofo politico certi eccessi
"metanarrativi" si possono perdonare, allo storico no.
Carlo Gambescia
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