Il libro
della settimana: Daniela Bifulco, Negare l’evidenza. Diritto e storia di fronte
alla “menzogna di Auschwitz”, Franco Angeli, Milano 2012, pp. 124, Euro 17,00.
http://www.francoangeli.it/ |
Talvolta ci sono volumi la cui lettura ricorda l’ attraversamento di un campo
minato, in parte per ragioni legate alla preparazione specifica di chi legge,
in parte per la "sensibilità agli urti" dell'argomento trattato. Il
notevole libro di Daniela Bifulco, Negare l’evidenza. Diritto e storia di
fronte alla “menzogna di Auschwitz” ( Franco Angeli ) appartiene senz’altro a
questa categoria. Tuttavia, una volta attraversato il campo minato, ci si
guarda indietro, tirando un sospiro di sollievo: il pericolo di saltare in aria
ormai è alle spalle… E grazie all’abilità dell’autrice, che si mostra capace di
affrontare nel modo più pacato e ragionato un tema, per l’appunto, esplosivo.
Dove sono in gioco, e in modo contrastante, diritti di espressione e difesa
della memoria, ragione giuridica e ragione storico-politica. Insomma, i valori
di fondo di una società aperta.
Dicevamo della preparazione: chi scrive è sociologo, mentre Daniela Bifulco
giurista. Quindi gli approcci sono differenti. Infatti, dove lo studioso del
diritto scorge la necessità di una risposta giuridica al manifestarsi del male
nel mondo, una prima volta come Shoah, e una seconda come sua Negazione, il
sociologo invece rileva la questione della costruzione sociale del male. Si
veda ad esempio, in argomento, l'avvincente libro di Jeffrey Alexander, La
costruzione sociale del male ( da noi recensito qui: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/search?q=jeffrey+alexander
).
Perciò, se il punto di partenza è lo stesso: la condanna morale del tentativo
di negare il genocidio ebraico, diverso è lo "sguardo professionale".
Il sociologo reputa il negazionismo, come l’altra faccia, neppure tanto
nascosta, della modernità razionalizzatrice: si nega l’Olocausto, invocando
come scusa, quella stessa banalità del male che lo avrebbe prodotto.Per contro
il giurista scorge solo un vuoto legislativo in ambito penale da colmare E
quindi risponde, se ci si passa l’immagine, lanciando la macchina della
razionalizzazione giuridica alla massima velocità. Del resto, intorno a quale
problema ruota Negare l’evidenza? Chiedersi perché « il diritto si
“intestardisce” (…) nel voler – dapprima – fissare per legge il dovere di
memoria e, in seguito nel prevedere come reato la condotta di chi osi rivedere
i contenuti di quella memoria» (p. 10).
E la risposta, secondo la
Bifulco è proprio in quel vuoto politico e culturale che
consente al negazionista di semplificare e liquidare la Shoah come una menzogna,
provocando la risposta altrettanto semplificatrice del diritto penale. Ma
lasciando fare al diritto non si segue un principio pedagogico-autoritario di
tipo giacobino ? Quale? Quello che le buone leggi, calate “dall’alto”,
d'incanto faranno buoni gli uomini, posti “in basso”. E con un corollario,
tutto moderno, veramente inquietante: quello della “motorizzazione” del diritto
penale capacissimo di irrompere, più veloce che mai, in campo storiografico,
sostituendo il giudice penale allo storico accademico.
Si tratta della stessa bestiale e macchinale volontà di potenza che animò i
costruttori dei campi di sterminio? Secondo Bauman il rischio sussiste. Ascoltiamolo:
«L’olocausto fu il prodotto specifico dell’incontro tra le vecchie tensioni che
la modernità aveva ignorato, trascurato o mancato di risolvere, e i potenti
strumenti di azione razionale ed efficiente creati dallo sviluppo della
modernità stessa. Sebbene tale incontro sia stato un evento unico e abbia
richiesto una rara combinazione di circostanze, i fattori che furono alla sua
base erano, e sono tuttora diffusi e “normali”» (Modernità e olocausto, Il
Mulino 1992, pp.15-16). E uno di questi fattori moderni potrebbe essere proprio
la “motorizzazione” del diritto.
Va onestamente riconosciuto che la
Bifulco è consapevole del pericolo: « L’intervento del
diritto - osserva - può talvolta produrre, e paradossalmente, l’effetto
contrario: gli avvenimenti sono ricondotti tutti sotto un’unica lente
legislativa, che livella, parifica, ammassa eventi tra loro assai diversi e lo
stesso vale per le condotte incriminabili (negare, minimizzare, banalizzare,
giustificare). Il risultato normativo, allora si fa confuso e la memoria , che
pure si voleva salvaguardare, ne esce lievemente stordita, vaghe amnesie si
sostituiscono al bisogno di un ricordo lucido e le responsabilità, che pure,
forse volevano ammettersi risultano fortunosamente sbiadite. Al paradigma della
memoria si sostituisce quello dell’amnesia» (p. 76).
Che fare allora? Difficile dire. Uno spunto, purtroppo relegato dalla Bifulco
in una nota a piè di pagina, è offerto dall’ottimo libro di Guido Calabresi, Il
dono dello spirito maligno (Giuffrè). Testo che, a dire il vero, rimastica,
benché con grazia, l'antica Ragion di Stato, modernamente reinventata e posta
al servizio del pluralismo: « Il diritto proprio di uno stato pluralista -
scrive la Bifulco
chiosando Calabresi - dovrebbe quindi evitare, per quanto possibile, di
considerare certi ideali o convinzioni, rivendicati da un gruppo, nei termini
di idee senza valore dal punto di vista del contesto istituzionale di
riferimento (…). Vale a dire che il perdente potrebbe essere più disponibile ad
accettare la sconfitta, se il perdere non significasse anche che la società
“consideri irrilevante i suoi valori”. Insomma, quando di scena sono “scelte
tragiche” la peggior soluzione per un sistema pluralista è quella di dire al
perdente: “ La tua metafisica non fa parte della nostra costituzione”.
Soluzioni del genere inaspriscono il conflitto sociale nel momento in cui
pongono al di fuori dell’orbita costituzionale interessi, tesi e convinzioni
invisi ai più». Di conseguenza, conclude la Bifulco , sintetizzando il pensiero di Calabresi,
« di fronte a tali conflitti, o scelte tragiche, il diritto deve ricorrere (…)
a ponderati “sotterfugi” onde evitare che il senso dell’offesa dei
perdenti/esclusi divenga insopportabile» (pp. 108-109, nota 6, il testo tra
virgolette alte è di Guido Calabresi ).
Che dire? La Bifulco
cita ma sembra non condividere. Del resto - va riconosciuto - un
"sotterfugio" può essere inteso sia come espediente per trarre in
inganno qualcuno, sia come via per sottrarsi a un pericolo incombente. Servirebbe
un diritto virtuoso capace di captare l’eccezione. Questione più sociologica,
anzi politica, che giuridica in senso stretto.
E allora? A dire il vero, Negare l’evidenza si muove su un doppio registro. E
in fondo, la Bifulco
non fa sconti neppure alla propria tesi. Di qui, la capacità, come dicevamo
all’inizio, di evitare le mine più pericolose, quelle del colpo su colpo
all'insegna del semplicismo ideologico. Anche se, in conclusione, il diritto
sembra rassegnarsi al conflitto e subire le ragioni dei vincitori. Ci
spieghiamo meglio: la Bifulco
è sicuramente consapevole, come nota, che « la pretesa di positivizzare la
storia, comprimendone l’essenza nella maglie della rete giuridica, non può che
risultare forzata, semplicistica e, con riguardo agli effetti auspicati dal
diritto penale, forse illusoria» (p. 111). E nonostante ciò, giustifica la
legislazione antinegazionista. Che pur essendo, scrive, «in bianco e nero (…)
assai schematica e semplificatoria e, in quanto tale discutibile (…), quando si
discorre di fatti che sono costati la vita a molti innocenti , solo perché
colpevoli di appartenere a una “razza” diversa, quel bianco e nero è un lusso
che ci si può, e forse ci si deve permettere. Almeno fino a quando la comunità
politica e il suo humus culturale non riescano ad offrire - o si ostinino a non
farlo - una soluzione diversa, migliore, e più partecipata» (p. 116).
La Bifulco sceglie il male minore? O se si preferisce un diritto “motorizzato”
come Katechon penalistico? Probabilmente sì. Del resto è possibile darle torto?
Soprattutto quando si viene posti dalla storia davanti all' evidenza del Male?
E alla necessità di rispondere seccamente con un sì o un no?
Carlo Gambescia
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