mercoledì 21 settembre 2011


Ricordo di Walter Maturi   
Storico di un Risorgimento vero, 
non immaginario



Finora, dal punto di vista editoriale, le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia hanno prodotto una massa magmatica di pubblicazioni. Si è parlato del Risorgimento, condendolo in tutte le salse: reazionarie, progressiste, unitarie, antiunitarie, eccetera…
Peccato - veramente peccato - che invece nessuno abbia pensato (Einaudi per primo) di ripubblicare quel gioiello storiografico delle Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, uscito per la prima volta nel 1962 nell' importantissima Biblioteca di cultura storica. Un grande libro (anche in senso letterale, 800 pagine…) in cui vennero raccolte, a cura di Ernesto Sestan, Rosario Romeo e altri allievi, le lezioni universitarie (1945-1960), tenute da Walter Maturi, scomparso nel 1961 non ancora sessantenne (*).

Parliamo di un eccellente storico liberale, attento però al politico e alle dure repliche della storia (sue molte voci del famoso Dizionario di Politica a cura del Pnf). Tuttavia, per semplificare, si tratta di una figura più vicina alla lezione di Croce che a quella Mussolini… Uno storico comunque aperto alle influenze più varie: da Gentile (con il quale conseguì una seconda laurea in filosofia) a Schipa, Volpe e Salvemini. Per una sintesi della sua opera rinviamo al bel ritratto di Giuseppe Galasso (Storici italiani del Novecento, il Mulino 2008, pp. 135-189).

Il libro di Maturi spazia da Le Rivoluzioni d’Italia (1769-1770) di Carlo Denina, dove si preconizza la prossima rinascita politica, alla Storia d’Italia dal 1861 al 1958 di Denis Mack Smith: storico britannico, come è noto, assai critico verso l’ Italia post-Risorgimentale. Che da Maturi viene però argutamente punito, come qui: « Una carica a fondo il Mack Smith fa contro le imprese coloniali dell’Italia. Fatto il bilancio storico di tali imprese, possiamo dire che all’Africa abbiamo dato più che preso. Sarebbe stato meglio che i denari spesi in Africa fossero stati spesi per le zone arretrate del nostro paese (Basilicata, Calabria, Sardegna, ecc.). Tuttavia le prediche all’astinenza coloniale fatte da un inglese, sia pure retrospettivamente, hanno la stessa efficacia che le prediche all’astinenza dai cibi e dai vini prelibati fatte da quei frati belli e grassi, col naso rosso, di cui narravano le gesta piacevolmente i nostri novellieri del Trecento e del Cinquecento» (p. 691).

Non male, soprattutto se si pensa alla malevola scomunica - Maturi era però già scomparso da un pezzo - abbattutasi sulle spalle di Renzo De Felice, proprio ad opera di Denis Mack Smith. Il quale accusò De Felice, subito seguito a ruota dalla storiografia di sinistra, di avere riabilitato la buonanima del Cavalier Benito Mussolini.

Perciò un volume come Interpretazioni del Risorgimento andrebbe ristampato e riletto, soltanto per l’aria di libertà e indipendenza storiografica che vi si respira. La stessa che si può ritrovare nell’ opera storica del grande Renzo De Felice.

E qui va fatta un’osservazione più generale. Esistono, da sempre, due modi di fare storiografia: o ricostruire le cose come sono andate o processare gli eventi in chiave ideologica.
Purtroppo, dalla seconda impostazione, di regola, nasce la retorica della rivoluzione tradita. Che, attenzione, non parte mai dall’analisi delle condizioni di fatto, ma da quella delle (presunte) condizioni ideali. Ad esempio, secondo le famose tesi di Gramsci sul Risorgimento italiano, a suo tempo “smontate” da Rosario Romeo, e prima ancora da Walter Maturi, l’Italia (rivoluzione mancata) avrebbe dovuto fare come la Francia (rivoluzione riuscita) del 1793 (il ’93 giacobino non l’89 monarchico-costituzionale…). Salvo poi però incappare in qualche Napoleone italico: conseguenza, su cui Gramsci aveva amabilmente glissato. Del resto, da buon comunista gli piacevano le maniere forti di Lenin…
E qui cade l’asino, perché in Italia i seguaci dell’idea del Risorgimento tradito (sorvolando sulle loro buone o cattive intenzioni) sono sempre stati o fascisti o comunisti, con il piccolo complemento storico di quei confusionari dei liberalsocialisti, a partire da Gobetti, un liberale rosso acceso quasi sconfinante nella falce e martello, cui si deve il copyright dell’unificazione italiana senza eroi.
In realtà, il vero punto dell’intera questione è che fascisti, comunisti e perfino liberalsocialisti (si pensi alla pesante pedagogia politica giacobino-azionista ) con la scusa della retorica della rivoluzione tradita del Diciannovesimo secolo, hanno puntato nel Ventesimo sull’autoritarismo politico, anzi, totalitarismo nel “caso comunista”. Perché gli italiani, come allora si riteneva, avevano bisogno, per trasformarsi in uomini nuovi, di un pesante busto di gesso politico.
Il buon Augusto Del Noce - e prima di lui Noventa - asserì, più di quarant’anni fa, che per tornare a respirare politicamente ci si doveva liberare della mentalità fascista e antifascista. Dal momento che, a suo avviso, l’aspetto più pericoloso della mentalità antista (anti-questo, anti-quello…) era di criticare il Risorgimento-di-fatto in nome di un Risorgimento-ideologico (o inventato). Insomma, di criticare il fatto ( le cose come erano andate...) in base alla norma ideale (come invece dovevano andare...). Per poter così forgiare, come accennato, il famigerato “Italiano Nuovo”. Altra ragione, perciò, per rileggere Walter Maturi: storico di un Risorgimento vero,  non immaginario.


Carlo Gambescia

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