Gli scontri di mercoledì a Montecitorio
Conflitti sociali, istruzioni per l’uso
Gli scontri di mercoledì scorso davanti a Montecitorio, al di là della
rilevanza politica o meno del gruppetto di facinorosi aderenti ai Cobas,
impongono una riflessione sull’idea stessa di conflitto sociale. Può esistere
un’economia capitalistica libera dai conflitti sociali? No. La società
capitalistica è per eccellenza conflittuale. Anzi, si può dire che il
conflitto, come fattore di mobilità, di crescita economica e di
redistribuzione, sia la sua vera forza. Ovviamente, se contenuto entro limiti
fisiologici.
Sotto questo profilo va notato, che rispetto all’inizio del Novecento, i
conflitti sul lavoro nel mondo di “antica” industrializzazione (soprattutto in
Europa Occidentale) si sono ridotti di molto, senza per questo scomparire.
Ad esempio, il decennio 1968-1978, oggi liquidato dai mercatisti come cattivo
esempio di “sindacalizzazione”, registrò un numero di conflitti (scioperi,
occupazioni, serrate) decisamente inferiore rispetto al primo quindicennio del
XX Secolo. Per non parlare, con riferimento all’Italia, del cosiddetto “Biennio
Rosso” (1919-1920), davanti al quale il Sessantotto “operaio” rischia di
apparire una passeggera e lieve increspatura sociale.
Da questo punto di vista, sia detto per inciso, anche gli scontri di
Montecitorio, cui accennavamo, sono veramente poca cosa. Tuttavia, come
vedremo, non vanno sottovalutati.
Ora, ci sarà pure una ragione capace di spiegare perché la conflittualità si
sia così ridotta rispetto all’inizio del Novecento?
Certamente. E, per dirla in sociologhese, si chiama istituzionalizzazione del
conflitto sociale. In che modo la si è attuata? Creando un sistema di
contrattazione collettiva e di sicurezza sociale. Un formula costosa ma
necessaria. E non tanto per eliminare il conflitto quanto per “addomesticarlo”
e renderlo produttivo sotto il profilo sociale e di riflesso economico.
In questo senso, il welfare state ha rappresentato e rappresenta il punto di
arrivo del processo di istituzionalizzazione. Perché ha assunto il valore di
una conquista fondamentale non solo per il lavoratori, ma per il bene stesso
del capitalismo.
Di conseguenza, pensare di poter eliminare la conflittualità sociale per
sempre, piegando i sindacati, come pontificano i neo-liberisti, o umiliando le
rappresentanze dei datori di lavoro, come predica certo sindacalismo
irresponsabile, significa una sola cosa: ignorare la storia del capitalismo. E
in particolare del capitalismo novecentesco, soprattutto quello europeo, più
sociale. Il cui merito - ripetiamo - resta di aver accettato il sindacato come
interlocutore e fattore di crescita sociale.
Pertanto, qualsiasi tentativo di “tornare indietro”, in un senso o nell’altro,
rischia soltanto di far ritornare la conflittualità sociale a livelli
ottocenteschi. Facendo così il gioco di coloro che a destra e sinistra puntano
sul tanto peggio tanto meglio.
E qui va di nuovo ricordato che la politica, come decisione pubblica, ha
giocato nel Novecento un ruolo fondamentale: quello di favorire la
contrattazione collettiva e l’inserimento del lavoratore nel tessuto
societario, attraverso l’introduzione di un esteso sistema di diritti politici,
economici e sociali.
Ciò significa che senza un potere politico “terzo” ( però, non nel senso del
“guardiano notturno” smithiano), capace di garantire la triplice cittadinanza
(politica, economica e sociale), temperando le esigenze dei lavoratori e delle
imprese, si rischia il conflitto sociale generalizzato. Dalle cui ceneri, come
insegna la storia, potrebbero materializzarsi i paurosi fantasmi dell’
“autoritarismo” e del “rivoluzionarismo”.
Perché in politica una sola cosa è certa: il vuoto non esiste. Quando le élite
politiche fanno un passo indietro il potere rischia sempre di essere afferrato
da altre élite: imprenditoriali, sindacali, militari, rivoluzionarie, controrivoluzionarie,
democratiche, antidemocratiche, e così via.
Pertanto gli incidenti di Montecitorio, come altri scontri di piazza avvenuti
negli ultimi tempi nel resto d’Europa, pur se di intensità ridotta rispetto al
trend novecentesco dei conflitti sociali, possono costituire il classico
campanello di allarme. Il primo passo, magari piccolo, verso una nuova fase di
gravi rivolgimenti sociali.
La storia, come è noto, non si ferma mai. Si può però provare a plasmarla,
influendo, almeno per un certo tempo, sul suo cammino. Naturalmente, il
capitalismo, anche quello sociale di mercato, come tutte le opere umane non è
eterno. Il che, tuttavia, non offre alcuna risposta a una questione
fondamentale, antica come il mondo: che garanzie abbiamo sulla bontà del “sistema”
che verrà dopo il capitalismo? Nessuna.
Perciò, e pensiamo in particolare ai privatizzatori ad oltranza, oggi così
numerosi a destra e sinistra, perché farsi del male da soli, dando fuoco alla
miccia?
Carlo Gambescia
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