Geronzi, Arendt, Schumpeter
Le Generali
e la banalità del
male
Banalità
del male. Così Hannah Arendt definì l’operato degli aguzzini nazisti. I quali,
nei “campi”, burocraticamente, ogni santo giorno, eseguivano gli ordini, come
normali impiegati. In questo senso, il male commesso diveniva, per gli
esecutori, qualcosa di banale, come un qualsiasi lavoro.
Ecco, la svolta di Generali, fatte ovviamente le debite proporzioni, è un
esempio di banalità del male. Detto altrimenti: è la prova di come dietro i
movimenti di capitale vi siano, non armonie economiche, ma uomini e gruppi,
burocraticamente in competizione. Siamo davanti alla banalità del male di un
capitalismo che replica se stesso: dove ogni santo giorno, gli impiegati del
capitale, soprattutto se in alto, fanno il proprio il lavoro, un’ attività che
consiste nel contendere all’altro la poltrona. E fino all’ultimo sangue.
Ora, del siluramento di Geronzi si possono dare spiegazioni “interne”: quelle
che leggiamo sui giornali: Geronzi alleato di Berlusconi e del francese
Bollorè, rovesciato dal salotto buono del capitalismo italiano, pronto ad
affidarsi all’accoppiata politica-economico Montezemolo-Della Valle. Sullo
sfondo del ritorno di Mediobanca finalmente capace di ridurre a miti pretese
anche Banca Intesa di Bazoli.
Ma c’è anche una spiegazione “esterna”, come quella appena abbozzata: di un
capitalismo che banalmente reitera le proprie lotte di potere, mettendo in
scena la propria cattiveria. Ma è sempre andata così?
Secondo Marx il «capitale non è potere personale ma sociale». Giusto. Ma ciò
vale più per il passato. In effetti, ai suoi tempi, le lotte tra capitalisti,
avevano effetti di ricaduta sulla società, anche positivi, e fino al punto di
produrre risposte organizzative: il welfare state, ad esempio, può essere letto
come una replica politica al pervasivo potere sociale del capitalismo. Così
come un liberalismo politico, teso a evitare che il conflitto tra i monopoli di
ogni tipo divenga endemico, va visto come una risposta istituzionale,
attraverso l'economia sociale di mercato, al capitalismo puro e
"banale" nel senso appena ricordato. E qui si pensi, ad esempio, alla
lezione di Croce e Röpke.
Quale potrà essere invece la ripercussione sociale della sostituzione di
Geronzi con Galateri? Zero. Si dirà, che ciò dipende dal capitalismo italiano:
un carrozzone dominato da pochi grandi gruppi, principalmente a sfondo
familiare. Può darsi. Tuttavia, non è che negli Usa, dove comandano le
corporation, i rapporti tra lotte di potere e società siano così stretti.
Fintanto che i colpi scambiati restano in CdA, nessuno se ne accorge. Diverso è
invece il discorso quando mutano, e di sostanza, le politiche aziendali o si
moltiplicano i giochi speculativi. Ma non è questo il caso di Generali.
Secondo Schumpeter il capitalismo si regge sull’innovazione e sul coraggio
imprenditoriale. Vero. Tuttavia, si tratta di virtù "impolitiche" e,
tra l'altro, sempre più rare. In realtà, il capitalismo, come ogni istituzione
sociale, non può non trasformarsi in routine, ossia in quotidiane,
burocratiche, banali manifestazioni di cattiveria e avidità tra cordate
opposte… Soprattutto laddove manchi un robusto liberalismo politico capace di
correggere le distorsioni del capitalismo. Certo, oggi, le qualità evidenziate
da Schumpeter sembrano essere vive nei paesi non occidentali, dove il
capitalismo sta decollando a ritmi di sviluppo eccezionali. Ma fino a quando?
Carlo Gambescia
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