domenica 30 novembre 2025

Maduro, Trump e la crisi di coscienza di un liberale

 


Detestiamo Trump. Senza mezzi termini lo riteniamo un leader autoritario, con pulsioni chiaramente illiberali, secondo alcuni addirittura fasciste, animato da una volontà di potenza che in Occidente non si vedeva dal 1945, dalla caduta di Hitler e Mussolini.

Trump è pericoloso perché, insieme alla Russia e alla Cina, rappresenta un nemico dell’Occidente e dei suoi valori illuministi e liberali.

Ora, stando ai giornali, Trump, tiranno virtuale (il suo nemico principale è lo stato di diritto), si appresterebbe ad abbattere con la forza un tiranno reale: Maduro, liquidato come presidente di uno stato narcos.

Il che, per un verso, è vero. Ma solo in parte. Perché il dittatore venezuelano, nel cuore di quell’area rosso-bruna dove estremismi opposti finiscono per toccarsi — e dove si spiega anche il sostegno di russi e cinesi — soffoca nel suo paese ogni forma di libertà in nome di un’ideologia nazional-sociale, una miscela di castrismo e peronismo. L’esatto contrario dei  prestigiosi valori occidentali.

Il vero punto è che un nemico della civiltà occidentale, Trump, si prepara a colpire un altro nemico della civiltà occidentale, Maduro.

E qui nasce la crisi di coscienza del liberale: da che parte stare? Difendere l’azione di Trump? Lo stesso Trump che abbandona un’Ucraina che sogna l’Occidente al suo destino di stato satellite della dittatura russa? Che insulta, disprezza e ricatta l’Europa democratica e liberale?



Si dirà che la politica estera segue la logica degli interessi. E da questo punto di vista — al netto di eventuali tornaconti personali — Trump avrebbe più convenienza a riaffermare la propria presa su un Paese che, dalla dottrina Monroe in poi, gli Stati Uniti considerano parte naturale della loro sfera d’influenza. Allo stesso modo, l’Ucraina rientra — nelle intenzioni di Mosca — in quella russa, e l’Europa, nella visione muscolare del Cremlino, orizzonti europei che la Russia insegue almeno da Pietro il Grande.

Qui si consuma la scelta più grave, quella che distingue Trump da una lunga linea blu  (nel senso di "arrivano i nostri") di presidenti americani, liberal-democratici, da Wilson a Obama e Biden.



Pertanto, al netto delle sue ciarlatanerie, se Trump dovesse “liberare” il Venezuela non lo farà certo in nome dei valori occidentali o liberali, ma in nome di un concetto di egemonia tanto ruvido quanto esplicito Un concetto che, applicato retrospettivamente alla Prima e alla Seconda guerra mondiale, avrebbe potuto condurre gli Stati Uniti ad abbandonare l’Europa prima al Kaiser, poi a Hitler e Mussolini. E forse a perdere il Pacifico, favorendo l’espansionismo del Giappone nazionalista, e secondo alcuni studiosi mezzo fascista.

Sotto questo aspetto, la crisi di coscienza di un liberale, un liberale davvero dalla parte dell’Occidente, si supera solo partendo dalla considerazione — già accennata — che Trump, come tanti altri leader autoritari o aspiranti tali, è un nemico dell’Occidente liberale, e come tale va trattato. Trump non ragiona come Churchill, che non si arrese a Hitler, in nome di un  realismo politico liberale a lungo termine, che scorgeva nei valori occidentali di libertà la via maestra.



Trump va a braccetto con i dittatori: il suo non è liberalismo politico, ma un realismo, a breve termine, del mordi e fuggi, deformato, quasi criminogeno, perché il personaggio sembra godere del male che provoca. Non ha forse dichiarato di odiare i suoi nemici, a prescindere dal loro colore politico? La stoffa con cui è cucito Trump è molto più simile a quella di Maduro di quanto i suoi sostenitori ammetteranno mai.

E il popolo venezuelano? Se Trump attaccherà, verrà probabilmente liberato da Maduro. Ma non per questo sarà emancipato. Cambiare il padrone non significa cambiare il destino di un paese. Un liberale non può dimenticarlo: l’Occidente non si difende applaudendo chi rovescia un dittatore per imporre la propria egemonia, ma tenendo ferma la distinzione tra liberazione ed emancipazione. Tra puro dominio e valori liberal-democratici.

E Trump, nemico dichiarato di quella distinzione, resta comunque un nemico dell’Occidente liberale.

Carlo Gambescia

sabato 29 novembre 2025

Troppo Novecento. Sciopero generale e sinistra: tra welfarismo e rituali pacifisti

 


A proposto dello sciopero generale c’è qualcosa di stonato, quasi fossile, nel sentir parlare di "finanziaria di guerra" e "di miseria". 

 Parole grosse. Troppo.

Ieri è toccato ai “sindacati di base” (le principali sigle autonome), di solito i più arrabbiati.  Il 12 dicembre sarà il turno di quelli di “vertice”, ufficiali diciamo, più politici (cioè Landini & Co. ).  In realtà, visione e slogan, sono più o meno gli stessi. Stesse idee, stesso massimalismo. Di sinistra.

Insomma è una retorica, che accomuna sindacati di “base” e di “vertice”, e che sembra provenire direttamente cuore del Novecento. Più precisamente dal 1914:  dai tempi del pacifismo massimalista incapace di distinguere tra aggressione e autodifesa, e che finì per provocare la dissoluzione della Seconda internazionale dinanzi alla Prima Guerra mondiale. E così consegnare un intero pezzo di socialismo europeo all’ingenuità geopolitica che spianò la strada a Lenin. Che a Zimmerwald, 1915, sotto la candida veste del pacifismo ufficiale, fece circolare la seguente parola d’ordine: “Trasformare la guerra imperialista in guerra civile”. Il che in seguito, come insegna Nolte, favorì, pur con portate differenti, la reazione di Mussolini e Hitler.

Oggi lo schema, almeno mentale, si ripete: un pacifismo d’accatto che scambia ogni spesa militare per militarismo, senza chiedersi chi stia sparando e morendo. Oggi a essere aggredita è l’Ucraina, non qualche impero coloniale. Sostenere Kiev non è un vezzo moralistico: è una necessità politica per chiunque viva in Europa. Se l’Ucraina cade, crolla il principio della sovranità territoriale, e la Russia avrebbe un precedente pronto da replicare.

 


Eppure si continua a chiedere “pace”, come se bastasse una parola d’ordine per risolvere una guerra di aggressione. È curioso che proprio chi urla “pace subito” finisca – magari in modo inconsapevole – sulle stesse posizioni di Donald Trump, Orbán e di tutta la galassia sovranista, parafascista, che sogna un’Europa debole. Una sinistra che, invece di farsi liberale, si ritrova affiancata alla destra più illiberale non per convinzione, ma per riflesso ideologico.

Il discorso si fa ancora più evidente sul fronte israelo-palestinese. Anche qui la parola “pace” viene usata dagli organizzatori dello sciopero generale come scorciatoia morale, senza guardare alla complessità degli attori in campo né alle responsabilità reciproche.

Si sciopera “anche” per mostrare solidarietà verso il popolo palestinese. Cosa umanamente comprensibile. Ma se si riduce tutto a “cessate il fuoco subito, senza se e senza ma”, si ripete lo stesso errore commesso sull’Ucraina: si cancella il fatto che esiste un’aggressività concreta, strategica, organizzata.

 


Anche qui il pacifismo da rituale manifestazione del sabato diventa un alibi che impedisce di vedere la realtà: la pace non si ottiene chiedendola come un atto di fede, ma creando condizioni politiche, militari e diplomatiche che la rendano possibile. Il che vale per Gaza, vale per Kiev. E invece? Si continua a usare lo stesso vocabolario emotivo e sbrigativo, sempre più lontano dalla complessità del mondo.

Sia chiaro: la nostra contrarietà al governo Meloni è totale. È un governo di estrema destra, con figure profondamente nostalgiche del fascismo: basta guardare a Ignazio La Russa, che non è esattamente un fan della cultura democratica antifascista. Ma essere anti-Meloni non può significare rifugiarsi nella retorica di un socialismo romantico, diciamo pure vintage, che non ha fatto i conti con la modernità. Non basta urlare contro “le armi” per essere progressisti; basta vedere chi applaude dall’altra parte dell’oceano per capire che qualcosa non torna.

 


Quanto alla manovra economica, sulla quale ha posto l’accento soprattutto Landini, definirla “ingiusta” o “di miseria” è una scorciatoia propagandistica che non aiuta a capirla. Non è una finanziaria di miseria: è una finanziaria piatta. Una manovra che non cambia nulla, amministrativa, priva di visione. E che, paradossalmente, ripropone proprio quella logica welfarista che la sinistra e il sindacato difendono da decenni: bonus, micro-riduzioni del cuneo fiscale, mance alle minime, ritocchi sull’Irpef, nessuna vera politica industriale, nessuna riforma del welfare, zero strategia sulla produttività. È tutto dentro lo schema classico italiano: distribuire un po’ qua e un po’ là, senza mai mettere mano alle fondamenta economiche del Paese.

Il problema è che una parte del sindacato sembra ancora convinta che la ricchezza sia una variabile indipendente. Si parla solo di redistribuzione, quasi mai di produzione. Come se la ricchezza comparisse spontaneamente, per diritto naturale, e non fosse invece il risultato di investimenti, innovazione, lavoro qualificato, competitività, rischio imprenditoriale.

In Italia la produttività del lavoro è ferma da quasi trent’anni. Dal 1995 a oggi è cresciuta in media di appena +0,2% l’anno,  con oscillazioni intermedie, certo, ma senza mai imboccare una traiettoria solida. Nel quinquennio 2019-2024 è addirittura negativa (–0,1% annuo). È la performance peggiore tra i grandi Paesi europei. Con una produttività così stagnante, salari, welfare e investimenti non possono crescere seriamente: la ricchezza da redistribuire semplicemente non si crea (CNEL / elaborazioni su dati Istat, rapporti 2024-2025).

Capito il liberalismo selvaggio? O per meglio dire immaginario? Che la sinistra, sempre da trent’anni, tira regolarmente fuori dal cilindro? E che addirittura ora rimprovera al governo Meloni? Che invece, come detto, tira a campare secondo le consuete linee welfariste

Questa mentalità, da maghi della pioggia (dello sciopero generale) deriva davvero — e non è un’esagerazione — dalla cultura della Seconda Internazionale: la redistribuzione come gesto etico, non come esito di un processo materiale. È un approccio che può andare bene per un comizio, non per gestire un Paese avanzato.
 

Scioperare è giusto, il conflitto sociale è necessario, nessuna obiezione. Ma se la protesta è accompagnata da un vocabolario ideologico fermo al secolo scorso, allora non si sta difendendo il lavoro: si sta difendendo un’idea arretrata del lavoro. Non siamo nel 1914. Quando solo per dirne una: la giornata di lavoro di un operaio era in media fra le 10 e le 14 ore, 6 giorni a settimana.

 


Quanto al pacifismo dei sindacati, possibile che si sia dimenticato che, come allora, l’Europa rischia la disgregazione e l’Italia non è affatto al riparo? Continuare a parlare come se vivessimo in un mondo immobile, chiuso nelle vecchie categorie del Novecento, non aiuta nessuno: né i lavoratori né il Paese.Serve realismo, non nostalgia. E soprattutto serve il coraggio di misurarsi con la fase storica in cui siamo davvero e non con quella che fa più comodo evocare.

Il governo Meloni merita di cadere, certo. Ma non per tornare all’età della pietra socialista. Non basta essere contro qualcuno per essere moderni. Se davvero vogliamo costruire un’alternativa credibile dobbiamo liberarci tanto dei nostalgismi di destra quanto del pacifismo automatico e della liturgia redistributiva della sinistra. Serve un svolta liberale. Troppo Novecento. Ora basta.

Anche perché la modernità richiede altro: capire la geopolitica ( e la metapolitica), sostenere chi viene aggredito, innovare il welfare, aumentare la produttività, garantire diritti senza affossare la crescita.

È una sfida liberale, ripetiamo, che nessuno può affrontare con lo stesso linguaggio dei bisnonni. 


Carlo Gambescia

venerdì 28 novembre 2025

L’invenzione della tradizione femminista e il caso Cortellesi

 


Riflettevamo – grazie a un post fulminante dell’amico Facebook, il professor Pellicanò – sulla laurea honoris causa in giurisprudenza conferita a Paola Cortellesi. La seconda. 

Si dirà che l’attrice – e non solo attrice – vanta un curriculum artistico di prim’ordine. Giusto.

Però il punto è un altro: oggi la Cortellesi è una figura fortemente schierata sul fronte femminista ( ci si passi la semplificazione). E questo, molto più del suo pur notevole percorso artistico, spiega il taglio disciplinare della laurea, dal sapore  vagamente foucaultiano.

Cosa c'è che non va? Che i pericoli per la società aperta e liberale, soprattutto se vuole restare tale, possono provenire da qualsiasi direzione. Anche a prescindere dalle migliori intenzioni, come nel caso del perseguimento dell’uguaglianza uomo-donna. Obiettivo, in sé, più che lecito, dopo secoli e secoli di oppressione e discriminazione.

Però, si rifletta. Dal punto di vista metapolitico – delle regolarità; di ciò che si ripete nei comportamenti politici e sociali – ogni movimento, per diventare istituzione, ha bisogno di una genealogia. Una tradizione, vera o presunta, che gli permetta di presentarsi come “naturale” e “necessaria”. Qui la lezione di Hobsbawm e della sua scuola storiografica (*). È un meccanismo antico: si costruisce un passato che giustifica il presente. I nazionalismi vi hanno giocato a lungo e male. Oggi il femminismo dominante sta lavorando esattamente in questa direzione. E il successo mediatico di "C’è ancora domani" ne è la prova più evidente.



Paola Cortellesi è un’attrice di talento, nulla da eccepire. Ma la sua elevazione a icona nazionale dice più sulla fase storica del movimento che sul valore cinematografico dell’opera. Il film, al di là del suo effettivo valore artistico o meno, è stato accolto come un rito civile, una celebrazione collettiva della tradizione femminista che si sta costruendo ora, in tempo reale. Una “Madre della patria femminista”, per usare un’immagine brutale ma efficace. Non è colpa della regista: è il sistema politico-mediatico che ha bisogno di figure rappresentative per consolidare la sua narrazione.

Il punto non è giudicare Cortellesi, ma osservare il processo: la trasformazione del movimento in istituzione. Quando un movimento diventa apparato culturale, produce simboli, eroine, liturgie, feste comandate. Il femminismo istituzionalizzato funziona così: racconta un passato selezionato, moralizzato, riscritto per adattarsi all’identità contemporanea. L’invenzione della tradizione, insomma.

In questo quadro si inserisce anche la categoria di femminicidio. Non è solo un termine sociologico o mediatico: è diventato un dispositivo penale che segna un passo indietro rispetto alla tradizione liberale del diritto. Il reato è l’omicidio, e dovrebbe valere per tutti. La creazione di fattispecie speciali introduce, di fatto, un diritto degli affetti: l’idea che alcune vittime “valgano” più di altre per ragioni simboliche. È una logica identitaria che rompe l’universalismo giuridico e affida al tribunale il compito di difendere una categoria morale, non una persona concreta.



Si potrebbe obiettare che anche altri crimini o tragedie — dalla Shoah ai conflitti nazionalisti contemporanei — vengono trattati in modo differenziato. Ma il punto è un altro. In quei casi la distinzione serve a registrare un rischio sistemico: l’annientamento di un popolo, di una comunità, di un’intera identità collettiva. Si parla di situazioni eccezionali, dove la tutela particolare mira a prevenire genocidi o pulizie etniche, non a rafforzare una intransigente retorica identitaria.

Il femminicidio, invece, non descrive un progetto di sterminio, ma una tipologia simbolica di vittima. È una categoria identitaria, non strutturale. E non riguarda la sopravvivenza di un gruppo umano minacciato, bensì la volontà di attribuire un valore morale diverso a vittime diverse. Qui sta la differenza: non nelle cifre, ma nella funzione che la categoria svolge all’interno del discorso pubblico.

Non è un’idea nuova. La retorica secondo cui “serve distinguere per arrivare all’uguaglianza” era già cara al socialismo ottocentesco, almeno a far tempo dal protocomunista Babeuf. Ma allora come oggi, l’esito è ambiguo: si creano nuove burocrazie, nuove élite morali, nuovi dogmi. E soprattutto una narrativa rigida, dove gli uomini sono sospetti per definizione e le donne vittime per definizione. Un mondo diviso in ruoli fissi. Altro che emancipazione.



Non si tratta di difendere la tradizione conservatrice e patriarcale della sacra trinità “Dio, patria e famiglia”, oggi rilanciata dalla destra. Una visione che, per chi crede nella libertà individuale, resta anacronistica. Ma la simmetria va riconosciuta: se la destra pretende la Donna come angelo del focolare, la sinistra identitaria pretende la Donna come simbolo sacro della Nuova Etica. In entrambi i casi, un ruolo imposto. Un altro modo per dire alle persone come devono essere.

Il problema non è la battaglia per i diritti delle donne, sacrosanta. Il problema è la trasformazione di quella battaglia in un apparato normativo, in una religione civile che pretende fedeltà e punisce la dissidenza. E, soprattutto, pretende di riscrivere storia, cinema e diritto come strumenti di rieducazione culturale.


 

Ma una società aperta vive di pluralismo, non di crociate. Se un solo movimento diventa istituzione morale — che sia patriarcale o femminista, di destra o di sinistra — il risultato è lo stesso: asimmetria, controllo sociale, riscrittura del passato per legittimare il presente. Cinema, diritto e storiografia non sono pistole cariche da puntare contro una categoria sociale. Sono strumenti di comprensione, non di vendetta.

Il femminismo, se vuole restare forza vitale, deve accettare il rischio della convivenza, non quello della canonizzazione. Perché quando un movimento si trasforma in chiesa, con le sue sante — come Santa Paola Cortellesi da Roma — le sue martiri e la sua ortodossia obbligatoria, ha già smesso di essere liberatorio. E ha cominciato a somigliare a tutto ciò che voleva combattere.

Carlo Gambescia

(*) Sulle regolarità rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 volumi. Si veda Eric Hobsbawm e Terence Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, 1987.

giovedì 27 novembre 2025

Pasolini (e oltre): la macchina mitologica delle “morti eccellenti”

 


Secondo articolo su Pasolini in due giorni? Il lettore non scappi…

In realtà, Pasolini è una specie di gancio per parlare della macchina mitologica, che si forma e ruota intorno alle morti violente delle persone importanti.

Secondo Furio Jesi, autore di un prezioso trattatello, Il mito, si tratta di  regole e procedure che, partendo da un evento, potenzialmente mitologico, generano senso e acquistano forza propria, incidendo sulla mentalità collettiva.

Per essere più chiari: la possibile riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini, l’ennesima, verrebbe da dire, non è una notizia giudiziaria: è un sintomo (*).

In Italia – ma il discorso rimanda all’uomo come animale mitopoietico prima che politico – quando si tratta di un morto eccellente, la verità processuale non basta mai. Serve sempre altro: un movente più grande, un nemico più potente, una trama più degna del personaggio. E così l’ “evento” morte di Pasolini, a cinquant’anni di distanza, continua a rigenerarsi ciclicamente come un rito collettivo. Il morto non riposa: lo teniamo in vita noi.



Questa interpretazione “atea” di Jesi, che rifiuta una causa prima antropologica, va però completata. Pareto, nel suo famoso Trattato di sociologia generale, parlò di “istinto delle combinazioni”, cioè, semplificando, dell’enorme potere, talvolta devastante, della fantasia umana. Tema presente anche nella Scienza nuova di Vico.

Insomma, non solo procedure, come ritiene Jesi, ma “anche” fatto antropologico. Secondo Pareto e Vico la fantasia, come capacità di mescolare, combinare, creare e ricreare, è il motore, o comportamento invariante, con cui l’uomo interpreta il mondo e costruisce i miti: attraverso la capacità immaginativa si creano divinità, eroi e leggende, spesso nere, che riflettono i bisogni e le paure di una società. Così è, così sarà.

Piaccia o meno, ma l ’uomo non è solo un essere razionale, politico o sociale, è innanzitutto un creatore di miti:una perfetta macchina mitologica.

Trasforma la realtà in narrazione simbolica, attribuendo senso agli eventi e alle vite altrui. La mitopoiesi non è decorativa:  struttura la cultura, la politica e l’identità collettiva.

Ogni mito riflette noi stessi, più che il mondo oggettivo. E questo nel bene come nel male. Dall’ipotesi, per i più fantasiosa, che porta a una grande scoperta, ad esempio la leggendaria “mela” di Newton che lo aiutò a scoprire la forza di gravità, alle accuse di stregoneria che portarono a centinaia di processi e condanne nel Seicento, o alla leggenda del “complotto ebraico” che alimentò pogrom e antisemitismo.

Poche figure si prestano al culto funebre quanto Pasolini. Intellettuale, politico senza partito, visionario scomodo a destra e a sinistra, omosessuale in un paese di farisei che fingeva di non saperlo e che, quando sapeva, condannava: un cocktail ideale perché la sua morte non potesse essere percepita come una fatalità, dovuta a un incontro sbagliato in un luogo sbagliato.

Purtroppo sono cose che capitano. Per le persone famose: Johann Joachim Winckelmann docet, purtroppo, già tre secoli fa. Per i non famosi, parla invece la cosiddetta cronaca nera. Però la banalità del male non è contemplata. È vista quasi come un’offesa.

A questo si somma una verità giudiziaria debole sul piano simbolico: uno scapestrato, Pino Pelosi, che prima confessa, poi ritratta, poi ricambia versione. Niente di epico. Niente di “politico”. L’Italia – si sa – sopporta tutto, tranne le verità povere.



Da qui, l’invasione sistematica della macchina mitologica: i fascisti, i servizi, la mafia, il romanzo delle stragi, le verità nascoste, il dossier inesistente. Retoriche, spesso dell’intransigenza, che non spiegano Pasolini: spiegano gli italiani. E più in generale l’esattezza, probabilmente metapolitica, delle tesi di Pareto e Vico.

La macchina mitologica, alla fin fine, è una forma di “razionalizzazione” ex post dei fatti. Cioè qualcosa che serve a giustificare una interpretazione diversificata (diciamo così) della realtà. Quindi siamo davanti a una regolarità metapolitica. Come detto, a un’invariante comportamentale.

Ma veniamo alla questione generale: quando la morte diventa specchio? Pasolini non è un caso isolato. In Italia, la “morte eccellente” svolge una funzione: aiuta a raccontare il Paese più di quanto racconti la vittima. Ogni personaggio importante diventa un prisma identitario.

Alcune morti non possono essere banali, anzi non “devono”: Pasolini, certo. Ma anche Caravaggio. La società rifiuta l’idea che un grande artista possa morire come un anonimo: in mezzo al fango, per mano di balordi, in circostanze degradate. Per mantenerne intatto il valore, si costruisce una morte simbolica alla loro altezza.



Ci sono morti, come detto, che devono spiegare una storia d'Italia, per forza contorta. Diciamo, in senso programmatico, a tesi.  Ad esempio Mattei e Moro. Qui siamo oltre la mitologia: la morte diventa allegoria del sistema politico. Il Paese si racconta attraverso l’assassinio. È la versione laica della Passione: ogni generazione rilegge, aggiorna, riscrive.

E che dire delle morti che alimentano la contro-versione dei fatti? Piazza Fontana, Ustica, i misteri della Repubblica. In questi casi la “versione alternativa” funziona come arma politica. Non importa la verità: importa la verità utile. E, andando all’estero, il discorso vale anche per figure come John F. Kennedy, Martin Luther King, Che Guevara o Malcolm X, rappresentano morti che “spiegano” la società e la politica.

Infine c’è la morte pop, feticcio emotivo. E anche qui è scala mondiale: Marilyn Monroe, Lady Diana, John Lennon. Il mito è globale, un grande melodramma collettivo. La dinamica è identica: la fine non può essere accidentale. Serve un colpevole “alto”, una cospirazione degna del personaggio.

Insomma, più grande è il personaggio, più grande e misteriosa dev’essere la sua fine, ancora meglio se violenta. Il meccanismo metapolitico è semplice. La società tende a rifiutare la dissonanza cognitiva tra l’elevatezza culturale di una figura e la miseria materiale della sua morte. Per questo il mito è irresistibile: colma lo scarto, ricostruisce l’armonia: “razionalizza” E qui si torna all’enorme potere della fantasia umana individuato da Pareto e Vico.

Pertanto il personaggio famoso da morto serve continuamente a riflettere ansie, non solo italiane. Riconducibili all’istinto delle combinazioni che sua volta interseca: a) la paura del potere occulto; b) la fascinazione per la dietrologia; c) l’incapacità di accettare la brutalità del caso;d) il bisogno di riscrivere il presente attraverso il passato.



Ogni riapertura, ogni “nuova pista”, ogni micro-indizio è un modo per alimentare la macchina mitologica. Non cerchiamo la verità. Cerchiamo una verità che racconti noi stessi, frutto della nostra volontà…

E così, ogni volta che resuscitiamo un “morto eccellente”, non stiamo davvero parlando di lui. Parliamo di noi, del nostro bisogno di elevare il caos a racconto, la casualità a destino, la miseria a dramma nazionale. In fondo è questo il punto: le morti eccellenti non tornano mai perché c’è qualcosa da scoprire, ma perché c’è qualcosa che non vogliamo accettare.

La realtà non ha stile. Il mito sì. E noi, ostinatamente, scegliamo sempre il secondo.

Carlo Gambescia

(*) Qui, sull’istanza di riapertura depositata in Procura: https://www.adnkronos.com/cronaca/pasolini-depositata-istanza-in-procura-a-roma-per-riaprire-indagini-su-omicidio_BOIzwHj1gC6yzVf5DLhmh .

mercoledì 26 novembre 2025

Pasolini, la destra furba e i giornalisti che non studiano

 


Quel che dispiace è l’incultura giornalistica. E, attenzione, non ne facciamo una questione generazionale.

Non ci piace il cliché del “vecchio trombone” che se la prende con i giovani, anche perché, questa volta, saremmo noi a “tromboneggiare”.

Veniamo subito al punto.

Una destra che ormai non conosce più vergogna. Parliamo di terze file della cultura che hanno accettato e vinto la sfida politica di Giorgia Meloni. Miracolati insomma. E che ora si spartiscono le spoglie: presidenti di qua, incarichi di là. E che fanno? Nel delirio di onnipotenza, tipico dei nuovi ricchi, scoprono di aver parlato sempre in prosa. E così si inventano un convegno su Pasolini.

Sede degnissima: Sala Koch di Palazzo Madama. Titolo: “Pasolini conservatore”. Organizza la Fondazione Alleanza Nazionale. 

Pasolini. A nostro avviso un fascista rosso (1). E proprio per questo attira la destra reazionaria di Fratelli d’Italia. Che di conservatore ha ben poco: non ha fatto i conti né con il fascismo né con la modernità. E che sul rosso è furbamente disposta a chiudere un occhio. In fondo i "rossi" erano antiliberali... 



Dicevamo dell’incultura o ignoranza giornalistica. La Russa – che ovviamente non poteva mancare, essendo Presidente del Senato – interviene. 

Si legga qui:

Parla della ‘spocchia’ della sinistra che si è presa Pasolini e non vuole condividerlo […] Ricorda che Pasolini ‘nel ’49 fu cacciato dal Pci per indegnità morale, mentre il Movimento sociale non ha mai cacciato un omosessuale’. Gli piacciono la sua ‘critica alla modernità, l’amore per la vita contadina e le sue tradizioni’ ” (2).

Ci vuole un bel coraggio a dipingere la destra missina come più tollerante del Partito Comunista. La letteratura storica dice l’esatto contrario: il fascismo confinava gli “omosessuali” (3). E basta sfogliare  il “Secolo d’Italia”, “Il Borghese”, “Lo Specchio”, “Candido” per capire il trattamento riservato a Pasolini, “corruttore di giovani”. Ricordiamo ancora un fascicolo del "Borghese", anno 1976 – il lettore confidi nella nostra memoria – con i dettagli più crudi sui fatti che portarono all’espulsione del giovane Pasolini dal Pci.

Sono cose che un giornalista dovrebbe sapere prima di stendere un pezzo su certa gente. Altrimenti i fascisti di Fratelli d’Italia vincono facile.



Ma non è tutto.

La Russa elenca una serie di intellettuali (Papini, Prezzolini, Marinetti, Mameli, Adriano Romualdi, D’Annunzio) di cui, magnanimo com’è, la sinistra “potrebbe appropriarsi”.

Ora: (a) la logica infantile dello scambio di figurine non si addice a un Presidente del Senato; (b) Mameli rimanda alla Repubblica Romana, l’esatto opposto ideologico della Repubblica di Salò.

 


A quest’ultimo proposito,  dimenticavamo  una cosa: (c) Mussolini – altro mito di La Russa – quando diventò fantoccio dei tedeschi rispolverò pure l’anticlericalismo. Voleva far pagare il tradimento al Re e al Papa. Il quadrumviro del Garda… Ridicolo. Per uno che fu arrestato dai partigiani con addosso un cappotto tedesco, con tanto di elmetto.

E passi pure per Papini, Prezzolini e D’Annunzio: inclassificabili, certo, ma non esattamente paladini della democrazia liberale.

Marinetti però  celebrò la Decima Mas. Quella che rastrellava e massacrava partigiani insieme ai nazisti, partendo proprio su quei camion a cui inneggia nei suoi versi (4).


Infine, Adriano Romualdi,  grande ammiratore della  divisione Charlemagne: volontari europei delle Waffen-SS visti come precursori di un’Europa “spirituale” contro comunismo e liberalismo (5). Purissimo distillato Drieu La Rochelle.

 


Che un Presidente del Senato esprima pubblicamente certe simpatie è gravissimo. Ma ancor più grave è questo fatto del giornalista che non lo segnala, perché non ha studiato abbastanza.

Delle due l’una: ignoranza – come dicevamo – oppure malafede.

Non c’è molto altro. E chi fa questo mestiere dovrebbe saperlo.

Carlo Gambescia

 

(1) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/11/pasolini-ideologo-un-fascista-rosso.html .
.
(2) Qui: https://www.dire.it/25-11-2025/1199175-un-profeta-dallerotismo-dannunziano-cosi-per-una-sera-la-destra-prova-a-prendersi-pasolini/ .

(3) Si vedano: Marco Fraquelli, Omosessuali di destra, Rubbettino, 2007; Danilo Ceirani e Pierluigi Rocchetti, L’amore pregiudicato. Donne e omosessuali sotto il fascismo, Il Levante, 2015; Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, pref. Vittorio Lingiardi, La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista, Donzelli Editore, 2022.

(4) Cfr. Filippo Tommaso Marinetti, Quarto d’ora di Poesia della X Mas (1944), anche qui: https://www.aphorism.it/poesie/quarto-d-ora-di-poesia-della-x-mas/ .

(5) Quanto al "camerata" Adriano Romualdi, Ultime ore d’Europa, Settimo Sigillo, 2023 (Ciarrapico, 1976, 1° ed.), è un testo che continua a circolare e ristampare da decenni. Romualdi morì nel 1973, in un incidente stradale, a soli trent’anni. A proposito di Romualdi e della recente “passione” della destra per Pasolini, vale ricordare un episodio riportato da Wikipedia. Nel 1964 Romualdi fu coinvolto in un caso di violenza politica: era alla guida di una Fiat 600 con i neofascisti Paolo Pecoriello e Flavio Campo quando l’auto si lanciò contro un gruppo di persone che scortavano Pasolini e lo proteggevano da un agguato fascista. Pasolini, alla fine, scelse di non sporgere querela (https://it.wikipedia.org/wiki/Adriano_Romualdi ).

martedì 25 novembre 2025

Profeti dell’apocalisse. Da Mosè a Chomsky (passando per Occhetto)

 


Nelle politica contemporanea si può rilevare una tendenza curiosa  e devastante al tempo stesso: la retorica dell’apocalisse. 

A destra e sinistra è tutto un parlare di mondo allo sfascio, società in rovina, civiltà sull’orlo dell’estinzione. Con replica, per effetto di ricaduta, sul mondo social. Dove si celebra, pur tra vacanze, torte, ricordi, felini e selfie, la prossima fine del mondo.

Poco importa se, in mezzo, esistono anche guerre vere, problemi veri, crisi vere. Quelli sono fatti. Invece ciò che interessa ai profeti dell’ultimo giorno è la narrazione totale, l’idea che il sistema nel suo complesso sia marcio, irredimibile, destinato al collasso. Per questo si chiamano profeti: non analizzano, annunciano.

A dire il vero capitalismo e società liberale hanno sempre civettato con i propri nemici. Molti dei quali, come fascisti, nazisti e comunisti sono passati all’azione. Quindi la retorica apocalittica, quando varca il limite del galateo liberale può essere molto pericolosa.

Il caso Occhetto è emblematico. Ieri sera, invitato da Marco Damilano a commentare un voto regionale chiuso in sostanziale pareggio – tre a tre, o quattro a tre se si include la Valle d’Aosta – è riuscito a trasformare una discussione tecnica in una predica biblica, tipo la sinistra deve occuparsi degli ultimi… Sembrava Mosè.

 


Un pezzo di folclore politico, certo. Che però indica bene la deriva del discorso pubblico: anche chi non conta più nulla politicamente, come Occhetto, continua a diffondere l’idea che solo una parte – ovviamente la propria – possa salvare il mondo dal disastro.

E qui c’è da fare un’osservazione interessante. Le email di Epstein hanno rivelato una fitta rete di relazioni che attraversa sia la destra sia la sinistra: da Noam Chomsky (icona radical progressista) a Steve Bannon e Peter Thiel (figure conservatrici / libertarian), fino a Elon Musk. Questa trasversalità mostra che Epstein non era solo un reietto oscuro, ma un nodo di potere globale, capace di agganciare intellettuali, imprenditori e politici di ogni schieramento. Politicamente, queste connessioni smontano la retorica moralistica dei “profeti puri”: la critica al sistema convive con rapporti con l’élite, dimostrando come l’establishment non sia semplicemente “l’altro” da combattere, ma una rete che permea anche chi lo denuncia.

Si dirà americanate. In realtà, anche in Italia, la rete di complicità non conosce schieramenti. A destra, figure come Gianni Letta – storico consigliere di Berlusconi e nodo nei rapporti tra politica e grandi media – o Marcello Pera, filosofo, ex presidente del Senato con ampi contatti culturali, dialogano con imprenditori e intellettuali progressisti; più in là, esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia, da Salvini a Meloni, girano negli stessi circuiti internazionali che li portano a incrociare grandi nomi americani: sì, quelli che hanno avuto a che fare con Trump ed Epstein. A sinistra, Prodi e D’Alema, Schlein e Conte, non sono da meno, con legami stretti con aziende, fondazioni e reti globali. E nel mondo dei media, conduttori e giornalisti di ogni colore condividono contatti, convegni e board editoriali: un club ristretto, autoreferenziale, dove tutti si conoscono e si influenzano a vicenda.

Il punto non è scandalizzarsi per il contatto in sé (scriversi con Epstein o incontrarlo non significa commettere un reato), ma smascherare l’ipocrisia di chi, a destra e a sinistra, predica contro il “sistema” come se vivesse in un eremo. Le élite sono reti, non blocchi: ci si conosce, ci si influenza, ci si usa. Funziona così. È il potere della rete bellezza…

 


E quando questa normalità viene negata per costruire narrazioni apocalittiche – il mondo alla rovina, gli ultimi contro i potenti – allora il populismo prospera e la politica smette di essere normale. E per dirla tutta, cresce il pericolo fascista.

Il problema? Questo linguaggio apocalittico che accomuna tutti. La sinistra vede la rovina prodotta dal capitalismo; la destra vede la rovina prodotta dal globalismo. Due apocalissi, stesso schema. E nessuna funzionale alla costruzione di un’immagine di società normale. La normalità non è un optional: è il presupposto della politica liberal-democratica. Senza un’idea condivisa di “società ordinaria”, liberale, in cui i problemi si risolvono per gradi – c’è una cosa che si chiama riformismo – tutto diventa eccezione, e l’eccezione è il terreno naturale di ogni populismo.

Insomma, a peggiorare le cose c’è l’ipocrisia della classe intellettuale. E il problema non è solo italiano.

Ad esempio, come dicevamo, le recenti email su Chomsky -amichevole corrispondente di Epstein, snodo torbido tra Clinton, Trump e mezzo mondo elitario – hanno tolto definitivamente il sipario. Chi predicava l’etica contro il potere viveva perfettamente a suo agio nei salotti del potere. Nulla di nuovo, si dirà. Anzi deve essere così. Però, per dirla brutalmente, perché sputare nel piatto in cui si mangia? 

Il che non significa dover difendere ciecamente il potere, ma soltanto la necessità di prendere atto che la carne è debole. E che, come scappatoia, esistono i sentieri dell’autoironia. In fondo per tornare a Occhetto, anche Mosè, inciuciava con i faraoni e con le élite egiziane.



Altrimenti, se si persevera nell’ideologia della purezza a tutti i costi, ogni volta si rischia un danno simbolico enorme: che consiste nello sgretolare quel minimo di fiducia pubblica che permette alle società di distinguere la critica dalla propaganda. Il che poi implica il puntalissimo: “Signora mia, anche i profeti non sono più quelli di una volta”.

E quel che è peggio sussiste il rischio di farsi risucchiare – parliamo dell’intellettuale – dal vortice dell’inautenticità: più cala la credibilità, più cresce la retorica dell’apocalisse. Quando mancano gli argomenti, resta la paura; quando manca l’autorevolezza, resta il tono messianico. È il ciclo autodistruttivo di un sistema politico che preferisce l’allarme permanente alla responsabilità quotidiana. Mosè, alla fine, riuscì a far liberare gli ebrei. Occhetto abbaia alla Luna.

La verità è semplice. Per fare buona politica liberale non serve evocare la fine del mondo: basta tornare a riconoscere che la normalità è un valore (cioè stato di diritto, mercati globali, élite transnazionali, buoni affari). La normalità non è una resa, non è un tradimento degli ultimi. È la base materiale e simbolica della democrazia liberale. Mosè era liberale senza saperlo.

Il resto,  dagli anatemi di Occhetto alle amicizie dei guru radicali,  è solo rumore.

Carlo Gambescia

lunedì 24 novembre 2025

Quando la diplomazia sacrifica la sovranità: il “contropiano” europeo per la “pace” in Ucraina

 


Ieri l’altro abbiamo esaminato il piano americano, elaborato dall’amministrazione Trump (*). Oggi sembra essere il turno della controproposta europea, che tenta di correggerne gli aspetti più controversi.

La controproposta europea, articolata e redatta in larga parte da Gran Bretagna, Francia e Germania, si fonda sul piano degli Stati Uniti, seguendo dunque le linee già tracciate a Washington. In pratica, più che proporre un’alternativa autonoma, sembra correre a rimorchio. Nonostante ciò, ogni punto viene esaminato con attenzione, con suggerimenti, modifiche e cancellazioni, nel tentativo di imprimere almeno qualche correzione europea al disegno americano. (**).

Le differenze non mancano, ma sotto la superficie c’è una continuità che dovrebbe preoccuparci. Una questione di metodo: in entrambi i casi l’Ucraina rischia di essere trattata più come un oggetto di negoziato che come un soggetto politico pienamente riconosciuto. È una dinamica tipica della diplomazia quando la priorità è chiudere un conflitto, più che affrontarne le cause. Che si fa? Si costruisce una cornice e poi si chiede al Paese invaso di adattarsi.

E’ di questo aspetto che desideriamo occuparci, in particolare di esercito, NATO e confini, se si preferisce delle basi della sovranità Ucraina.  E diciamo pure di ogni sovranità.




Ci si muove infatti su un terreno scivoloso perché  i due piani propongono limiti significativi alle capacità di difesa dell’Ucraina: gli Stati Uniti fissano un tetto di 600.000 effettivi, gli europei alzano l’asticella a 800.000. Sono numeri diversi, ma la logica non cambia: un esercito definito dall’esterno è l’ammissione di una sovranità condizionata. Anche sul fronte geopolitico il messaggio è ambiguo. Washington rende esplicito che l’ingresso dell’Ucraina nella NATO deve essere accantonato; l’Europa afferma che al momento “non c’è consenso”, formula più elegante ma sostanzialmente equivalente.

A questo si aggiunge la gestione esterna di territori e infrastrutture chiave. La proposta europea di mettere la centrale di Zaporizhzhia sotto una supervisione condivisa, o la logica americana che fa partire i negoziati dalla linea di contatto sul terreno, finiscono entrambe per cristallizzare gli effetti dell’aggressione russa, senza riconoscerli formalmente ma accettandoli come “punto di realtà”. È il modo in cui un sopruso rientra dalla finestra quando lo si è cacciato dalla porta.

Il rischio politico è evidente: una pace costruita su concessioni di questo tipo non risolve il conflitto, lo congela. E lo congela alle condizioni dell’invasore. È un equilibrio che può sembrare pragmatico a chi osserva da lontano, ma per chi lo deve vivere — anzi, subire — significa ritrovarsi con una sovranità amputata e con la certezza che la minaccia non è davvero scomparsa, solo sospesa. La storia ci mostra che tregue costruite in questo modo tendono a durare poco e a preparare la fase successiva della crisi. Si chiama anche realismo politico a breve termine.



La vera domanda è se l’Occidente voglia sostenere l’Ucraina come soggetto politico autonomo oppure se preferisca gestire il dossier come un regolamento di conti tra potenze, dove Kiev è, suo malgrado, un elemento da sistemare. Nel primo caso la strada è più difficile ma produce una pace duratura. Nel secondo è più rapida, ma rischia di trasformarsi in un precario compromesso che lascia l’Ucraina in una condizione di dipendenza. E qui viene spontanea un'altra domanda: l'Occidente di Trump è lo stesso Occidente di Macron, Starmer, Merz?  A parole sembra di no. Però poi nei fatti... Diciamolo tutta: se si evoca l'Occidente, lo si evoca al ribasso.

Una pace credibile deve partire dal riconoscimento della piena sovranità ucraina, nel fatto concreto, e non dal calcolo di quanto di quella sovranità può essere sacrificato per ottenere un cessate il fuoco o qualcosa che somigli a una promessa di pace. Se non si ha ben chiaro questo, ci si riduce a un’amministrazione del danno: ordinata, magari ben intenzionata, ma pur sempre un modo per mascherare un’ingiustizia, un modo per coprire l’aggressione russa e permettere così che in futuro torni a violare la sovranità — peraltro vacillante — dell’Ucraina e di altri Paesi.

Sia nel progetto americano che in quello europeo è assente l’idea di dare una lezione a Mosca. Si dirà che non è possibile perché, per ora, bene o male, sul campo l’Ucraina in qualche modo resiste, e ciò nuoce al buon nome dei russi… Beh, ma allora ditelo.

Inciso italiano: Giorgia Meloni sembra sia stata precettata da Trump  a mediare tra Stati Uniti e Europa (“onore” toccato, così sembra, anche al presidente finlandese). Ma, ammesso e non concesso che la cosa sia vera, di che razza di mediazione si tratta? Su quali porzioncine di sovranità lasciare all’Ucraina? Ridicolo.



Concludendo, ciò che è in gioco non è solo la chiusura di un conflitto, ma la forma futura dell’Europa e la dignità politica dell’Ucraina. Perché una pace che nasce da limiti imposti — all’esercito, alla NATO, ai confini — non è una pace: è un’amministrazione dell’aggressione, mascherata da pragmatismo. Fermare i missili è necessario, certo, ma se nel farlo si consegna pezzo dopo pezzo la sovranità del Paese colpito, allora non stiamo proteggendo l’Ucraina: la stiamo mettendo in saldo in una trattativa tra potenze.

E – ripetiamo – una pace così non dura. Non restituisce sicurezza a Kiev, né invia a Mosca quel messaggio fondamentale: che l’Europa non intende accettare la logica del più forte. Senza questo, il rischio è di produrre solo una tregua fragile, destinata a rompersi, e di aprire la porta alla prossima aggressione. Perché una pace vera comincia solo quando chi è stato colpito torna a essere pienamente soggetto del proprio destino, non oggetto della nostra ansia di chiudere il dossier.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/11/ucraina-il-piano-in-28-punti-una-pace.html .

 

(**) Per possibili raffronti, comunque su testi ufficiosi, qui la controproposta europea: https://theprint.in/world/full-text-of-european-counter-proposal-to-us-ukraine-peace-plan/2790668/?utm_source=chatgpt.com , qui i punti di Trump: https://www.indiatoday.in/world/us-news/story/read-full-text-of-trumps-28-point-ukraine-russia-peace-plan-glbs-2823500-2025-11-21?utm_source=chatgpt.com .

domenica 23 novembre 2025

Stato, libertà e rischio: il caso della “famiglia nel bosco”

 


Il caso della famiglia anglo-australiana che viveva in un casolare isolato nei boschi d’Abruzzo ha riaperto un caso di scuola che credevamo consegnato ai manuali di filosofia del diritto, quella classica, imperniata sul conflitto diritto positivo–diritto naturale, non l’indigesto zuppone analitico-linguistico che si studia oggi nelle Facoltà di Legge.

La vera domanda è: fino a che punto lo stato può spingersi nel controllare le scelte private dei cittadini? E, soprattutto, può farlo prima che si verifichi un danno concreto, sulla base di una valutazione astratta dei rischi?

Prima di rispondere, evidenziamo il silenzio della sinistra, che sembra ormai essere in pianta stabile dalla parte dello stato. Ma va ricordato anche il chiasso della destra, che pare invece risvegliarsi solo per attaccare i giudici e difendere la “sacra famiglia”.

Ciò che vogliamo sottolineare è che la sinistra difende l’individualismo protetto da parte dello stato (per capirsi: “Puoi vivere in un bosco ma alle mie condizioni”), mentre la destra difende la famiglia, quindi la comunità più che l’individuo (per capirsi: “Non si separano i bambini da mamma e papà”).

E l’individuo? Le sue scelte? La sua libertà, che ovviamente implica responsabilità? Non esistono. Esiste un individualismo da proteggere, a colpi di regolamenti che poi vanno in tilt, privando l’individuo della sua libertà, atteggiamento tipico di una sinistra statalista. Oppure si rilancia quell’idea di famiglia, che rinvia, con dio e patria, alla triade di valori amatissimi dalla destra reazionaria.



Pertanto, come nel dibattito in corso, non si parla di difesa della libertà individuale. Non si celebra il diritto di vivere come più piace, evocato, peraltro giustamente, dalla sinistra a proposito della scelta di fine vita, scelta che però si vuole regolamentata dallo stato: qui l’inguaribile statalismo della sinistra. Si brinda, soprattutto a destra, al diritto della “sacra” famiglia a non essere smembrata, principio che però la stessa destra, che difende le “belle famiglie italiane”, non vuole estendere alle famiglie Rom e dei migranti.

Da una parte c’è chi difende l’intervento dello stato in nome della tutela dei minori: isolamento, condizioni precarie dell’abitazione, intossicazione da funghi, istruzione impartita fuori dai circuiti scolastici. Quindi diritto positivo, cioè quello racchiuso nei codici e nei regolamenti. Dall’altra, c’è chi vede nell’ordinanza l’ennesima manifestazione contro le famiglie di uno Stato Woke (ormai è una parolaccia) che pretende di stabilire non solo ciò che è legale, ma ciò che è “normale”.

E l’individuo e i suoi diritti? Ripetiamo: zero tituli.

È su questo secondo fronte che vale la pena soffermarsi.

Le democrazie liberali si fondano sull’idea che la libertà individuale sia un valore primario. E la libertà comporta inevitabilmente il rischio che un individuo faccia scelte discutibili, discutibili agli occhi di altri, discutibili agli occhi dello stato. Questo rischio non è un difetto del sistema: è il prezzo della libertà stessa.



Nel caso dell’Abruzzo, i genitori avevano scelto un progetto di vita radicale: vivere fuori se non contro la modernità, educare i figli in casa, ridurre al minimo il rapporto con la società circostante.

Una scelta legittima, si dice, purché non sfoci in un danno concreto ai minori. In realtà il punto è tutto qui: perché è verissimo che il diritto penale — e più in generale lo Stato di diritto — devono intervenire, ma l’intervento, per così dire, deve essere ex post, non ex ante. Dopo, non prima.

Si dirà: ma i bambini potevano morire, eccetera… Se i bambini fossero morti a causa dell’intossicazione da funghi, i genitori ne avrebbero risposto davanti alla legge.

Quel che diciamo può apparire orribile, però è ancora più orribile l’idea che lo stato possa sostituire di fatto la responsabilità individuale con un controllo preventivo totale — scavalcando la libertà del singolo che sceglie di vivere in un certo modo, sulla base di ciò che “potrebbe accadere” — aprendo una strada pericolosa.

Una strada in cui la vita privata finisce compressa non per atti illeciti, ma per divergenza dallo standard culturale maggioritario.

La tutela dei minori è un dovere costituzionale e nessuno lo mette in dubbio. Ma tutela non significa pre-tutela sulla base di una presunta idea di normalità o di un insieme di pratiche o consuetudini statalizzanti. Né significa imporre un modello di vita “corretto” per paura che alternative eccentriche possano generare rischi. Perché se la bussola diventa il rischio zero, la libertà si tramuta in eccezione.



La vulnerabilità dei bambini è il problema più serio e più delicato. Ma proprio per questo dovrebbe essere maneggiato con prudenza: il concetto, spesso evocato dai giudici e dagli assistenti sociali, di “pregiudizio attuale”, non può trasformarsi in un passepartout che giustifica ogni intervento statale preventivo, anche in assenza di un danno reale. Altrimenti la tutela si trasforma in ingerenza, e l’interesse del minore finisce interpretato secondo le categorie culturali del momento.

La questione di fondo non riguarda una singola famiglia. Riguarda tutti noi in quanto individui, liberi e responsabili. Quanto stato vogliamo nella nostra vita privata? E, soprattutto, chi decide quale forma di vita è “accettabile” e quale no?

Una società aperta non può limitarsi a tollerare la libertà entro i confini della consuetudine. Deve accettare anche ciò che esce dai binari, finché non calpesta i diritti altrui, quindi in chiave ex post.

Il caso dell’Abruzzo ci ricorda che la libertà individuale non è un orpello romantico, ma una conquista fragile. E che, senza di essa, la tutela diventa custodia, e la sicurezza diventa pretesto per restringere gli spazi dell’autonomia personale.



Il diritto positivo non è tutta la legge. Esistono principi di libertà, che rinviano al diritto naturale, dell’uomo in quanto essere libero. Diritto che può, anzi deve, entrare in contrasto con il diritto positivo.

Si dirà che è rischioso. Ma la libertà è rischio. Ecco perché per molti è un peso. Non si vuole assumere rischi. Non si vuole alcuna responsabilità. E allora si preferisce sprofondare nella dolciastra melassa dell’individualismo protetto.

Difendere la libertà - anche quando costa, anche quando non somiglia alla nostra idea di “normalità” -  resta l’unico antidoto contro una società che, in nome della protezione, rischia di soffocare ciò che dovrebbe proteggere: la libertà, la responsabilità e la dignità dell’individuo.

Carlo Gambescia