Ignazio La Russa e il saluto romano
Come si continua a giocare sull’equivoco
Ignazio
La Russa è un
vecchio militante del Movimento Sociale.
Negli Anni di Piombo, da avvocato,
difese, “con dedizione i camerati finiti
in prigione”, secondo la vulgata diffusa negli ambienti missini, probabilmente
vera. Da politico, assai abile, La Russa ha fatto una buona carriera, rimproveratagli
però dai duri e puri. La Russa, sopravvivendo allo sbriciolamento di Alleanza Nazionale e
Forza Italia, ora è con Giorgia Meloni. Di sicuro, la consiglia
con discrezione. Se si
volesse definire La Russa
con un aggettivo - a parte il “Digiamo” di Fiorello - “prudente” resta quello migliore, più vicino alla realtà.
Il
nostro cappello non è una captatio, più semplicemente una piccola premessa al fenomeno politico dell’ "integrazione
passiva" (tradotto: “Liberal-democrazia sì ma con riserva mentale”). Una ambigua dinamica, conosciuta in letteratura, che avrebbe contraddistinto la trasformazione del Movimento Sociale in Alleanza Nazionale, quale forza sistemica e di governo. La cui eredità, dopo il tracollo finiano, non casualmente avvicinato a Badoglio anche dai postaennini meno sospetti, è toccata a Fratelli d’Italia. Perciò parliamo di una forza presente e attiva che
capta consensi crescenti su posizioni politiche, economiche e sociali che lo stesso Almirante, pur gestendole in
modo più elegante, oggi sposerebbe senza grandi problemi.
Pertanto
la battuta di La Russa che in un post invitava gli italiani a fare il saluto
fascista come profilassi contro il Coronavirus non poteva passare inosservata,
soprattutto a sinistra.
Vi
sono state critiche. La Russa , ovviamente si è
scusato, chiamando in causa un collaboratore, eccetera, eccetera. L’uomo è prudente, come detto. I social meno, perché si sono subito divisi pro o contro, legittimando così, nel bene come nel male, lo "spirito fascista" del post.
Si
è trattato allora solo di una battuta infelice?
In
realtà il post di La Russa rivela che dal punto di vista
dell’immaginario della destra postmissima e postaennina, anche ai
piani bassi dell’umorismo da bar ( e da social), il richiamo del fascismo è sempre forte. A prescindere.
Facciamo subito notare una cosa: Come
mai a sinistra - parliamo dei politici, dei parlamentari, - non è venuto in mente a nessuno di fare la stessa battuta,
invitando però a usare il pugno chiuso?
Si
dirà che la sinistra non ha il senso dell’autoironia, eccetera, eccetera. Può darsi. Però qui il vero problema riguarda la destra di ascendenza missina. E qual è? Di non avere
mai metabolizzato politicamente il fascismo. Cioè non di non avere mai preso
le distanze - attenzione - dalla
dittatura. O meglio, da un modo
autoritario di definire le relazioni politiche tra stato e cittadino e tra cittadino e cittadino. Non parliamo delle leggi razziali,
dell’alleanza con Hitler, della guerra (o comunque non solo), ma dell’apprezzamento della dittatura come essenza stessa della politica. La svalutazione postmissina della democrazia non è frutto di una concezione liberale,
bensì di una visione autoritaria della
politica. Certo, sempre più spesso li si
vede usare la democrazia strumentalmente
contro "la bancocrazia", contro "i poteri forti", contro "i nemici dell’Italia", ma sempre in chiave populista. E in fondo per chiunque abbia letto i libri di Roberto Vivarelli sul rapporto tra populismo e fascismo questa "vocazione sociale" non è una novità.
Quando
i politologi parlano di integrazione passiva della destra missina si riferiscono proprio alla mancata introiezione dei valori
liberal-democratici. Il che spiega il frequente ricorso a un immaginario composto di parole d’ordine, e anche battute, che rimandano
al fascismo, direttamente, come nel caso del saluto romano, o indirettamente,
come a proposito della roboante retorica sovranista.
Di
recente Giorgia Meloni, che proviene dal mondo missino, vivendone gli ultimi fuochi, meno intensi ma
sempre fuochi, sembra aver sposato posizioni apparentemente defilate rispetto a quelle
di Matteo Salvini per catturare il voto moderato. Riteniamo invece sia puro
marketing elettorale. Siamo purtroppo davanti all’ennesima operazione
trasformista che rimanda al concetto di integrazione passiva. Quindi
attenzione.
Tornando
al saluto fascista, sulle cui ragioni
igieniche, ironizzò già Trilussa in un sonetto, siamo davanti a una precisa forma di riconoscimento politico-identitario. Che nel 1925 il fascismo introdusse, se
ricordiamo bene, nelle amministrazioni civili, favorendone in seguito la diffusione all’esterno. Pertanto si tratta di qualcosa che rinvia
inevitabilmente a un periodo infausto della storia d’Italia.
Che
ovviamente, ecco il nodo, non può essere ritenuto tale solo da chi abbia una visione autoritaria della
politica, in particolare antiliberale.
Mosca e Croce, inizialmente videro nel fascismo una
momentanea reazione liberale. Mussolini stesso giocò sull’equivoco, per
conquistare il potere. Dopo di che, in particolare in seguito all’assassinio di Giacomo
Matteotti, le strade si divisero. Fu loro chiaro che il
liberalismo era una cosa il
fascismo un’altra.
Ecco,
Meloni e La Russa
continuano tuttora a giocare
sull’equivoco…
Carlo Gambescia