La scomparsa di Roger Scruton
Fu vera gloria?
Ho
fatto passare una decina di giorni prima di ricordare Roger Scruton (1944-2020), scomparso il 12 gennaio,
portato via in quattro e quattr’otto dal cancro. Come capita nella società âgée...
Perché
ho preso tempo? Per contare fino a
dieci… giorni. Scruton, che pure ho letto, non mi ha mai convinto. E parlare
male o non bene di un morto è sempre disdicevole. Ora però desidero scrivere
qualcosa. Comunque.
A
chi voglia comprendere subito il personaggio, l’uomo diciamo, prima ancora di
valutare l’intellettuale, consiglio di leggere un breve testo (*), dove Scruton
ripercorre il suo 2019, prima con il compiacimento del professore arrivato e
conteso dai frastornati ambienti conservatori di tutto il mondo, poi una volta scoperta la grave malattia, con
lo sconcerto del britannico che ritiene gli sia tutto dovuto, seguito però dalla rassegnata grazia del filosofo
romano-imperiale. Il dolore prima o poi scolpisce. In genere, sempre poi.
Ripensando
ai suoi lavori si scopre infatti un Seneca d'Oltremanica, in conflitto con i neroniani postmoderni di mezzo mondo. L’uno e gli altri però in sedicesimo. Intellettuali pubblici con tutti i limiti
di un termine oggi così di moda. Senza più riflettere sul fatto che un tempo “donna pubblica” non era certo un
complimento.
Un
pensiero, quello di Scruton, con tante deboli supponenze e rarissimi punti di
vera forza. Forse solo quando sale sulle
spalle dei suoi Antichi, Hume e Burke (così diversi, così vicini).
Si
legge nell’articolo citato: “Avvicinandosi alla morte si inizia a capire cosa
significhino vita e gratitudine”. Un bel pensiero degno di Seneca. Ma dopo
Seneca…
Si
affianchi una pagina di Scruton a una pagina di Burke e si coglierà subito la
differenza: tra chi ha capito la rivoluzione
(Burke) e chi la teme e basta (Scruton). Ne ha paura, insomma. E si arrangia, anche con se con mestiere, come
intellettuale pubblico. Viaggia, gira il mondo, parlando di declino, vino, tabacchi.
Per poi tornare, compiaciuto, ai suoi
scogli, non solo nel senso dell’insularità britannica.
Il
suo conservatorismo pessimista, in un mondo liberal, dove c’è poco da
conservare, appare in contrasto con le ricerca della libertà, inseguita da
tutti, afferrata da pochi. Eppure sempre ricercatissima.
Un
mito - certamente - al quale egli però ne oppone un altro: secondo
Scruton la felicità non esiste se non come l’ abito intellettuale cucito dalle tradizioni: dio,
patria e famiglia, per sintetizzare. Ecco i suoi scogli!
Un
trittico miracoloso che però finisce sempre per legare o meglio imprigionare l’uomo
al non miracoloso: alla Brexit, al populismo, a Meghan e Harry. L’abracadabra di certi conservatori che si occupano del
coniglio, del cilindro e della sala
piena di spettatori plaudenti. Mentre fuori pulsa la vita. Nulla
di nuovo sotto il sole.
Certo
tre istituti, reintepretati in chiave di moderni costrutti antropologici e sociali. Scruton ha sempre saputo
maneggiare le scienze sociali. Talvolta, giocando fin troppo sul micro-macro, ricorda il tanto criticato, proprio da
lui, Foucault. Però assiso sull’altro lato della barricata. O meglio aggrappato agli scogli.
Scruton,
stoffa di saggista, piuttosto che di teorico. Ha scritto una cinquantina di
libri. Forse troppi. Abbondantemente tradotti anche in Italia, dove il
conservatorismo ha sposato prima la
chiesa poi il fascismo e infine Berlusconi e Salvini. E ovviamente anche
Scruton… Mai però, o comunque fino il fondo, il liberalismo.
Fu
vera gloria? Decideranno i futuri lettori.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://blogs.spectator.co.uk/2020/01/roger-scruton-1944-2020/ Il testo uscito in dicembre è riapparso,
sempre su “The Specatator”, in occasione della scomparsa di Scruton .