martedì 15 novembre 2011

Che non esistano governi tecnici, sembra chiaro persino al professor Monti, il quale insiste sulla necessità di conferire una connotazione politica al suo governo (se mai nascerà…). Di qui però la necessità di capire perché teoricamente il governo tecnico sia una pura e semplice leggenda politica. Abbiamo perciò chiesto aiuto, nel non facile compito, all’amico Teodoro Klitsche de la Grange. Buona lettura. (C.G.)





Perché non esistono i governi tecnici

di Teodoro Klitsche de la Grange




Il prof. Monti è da poco designato all’incarico di formare il governo offertogli e gran parte della stampa ne elogia le capacità e soprattutto (malgrado il laticlavio concessogli al 90° minuto) il carattere di tecnico, perciò estraneo ai riti e ai vizi della classe politica, anzi, della “casta”, l’unica, tra le molte che lo meritano in Italia, denominata come tale.
All’essere un tecnico si assocerebbe, nell’immaginario mass-mediale, gradatamente: il sapere cosa (e come) è il caso di fare, la possibilità di realizzarlo, l’essere al di sopra dei partiti e dello scontro politico (cioè “neutrale”) e via elogiando. Di tutte queste qualità, la prima, ovvero la competenza, è quella di gran lunga prevalente e decisiva a connotarne l’immagine.
Non voglio ripetere quanto pensava di tali illusioni, Benedetto Croce (“l’ideale che canta nelle anime di tutti gli imbecilli”) sulla base di qualche secolo di pensiero filosofico e politico, dato che l’ho già scritto qualche tempo fa, e non vorrei fare la fine di un certo filosofo-giornalista le cui ripetizioni (e scopiazzamenti) sono stati di recente all’attenzione dell’opinione pubblica; piuttosto è il caso di chiarire se la “tecnica” è quella che occorre nell’attuale situazione.
A tal fine occorre chiedersi cos’è “tecnica”. In generale per tecnica s’intende un insieme di regole per dirigere efficacemente un’attività. Ovviamente conoscenza, regole (il tipo di efficacia e anche altro) sono determinate dall’attività: la”tecnica” per scolpire una statua non è uguale a quelle per suonare il pianoforte, progettare ponti o curare un malato. Tutt’insiemi di regole, conoscenze, “saperi specializzati” sempre assai differenti, e talvolta non aventi nulla in comune.
Se non un connotato fondamentale: che la tecnica può indicare i mezzi ma non i fini.
Un chirurgo “bravo” è quello che sa operare guarendo il paziente: il fine (la vita del paziente) non è scelto dallo stesso; così uno scienziato (nucleare) è quello che sa come ricavare energia dall’atomo, ma non decide se tale energia debba essere usata per bombardare le città o illuminarle. E i tutto vale anche in materia economico-sociale: non appartiene al tecnico scegliere se uno Stato debba essere organizzato come corporativo-fascista, democrazia liberale o repubblica dei soviet; se si debba osservare il code civil, la common law o la sharia. Se una comunità vuole essere regolata dalla legge coranica, pur essendo questa meno compatibile di altri sistemi giuridici con (la società e) l’economia moderna, non è compito del “tecnico” trasformarla in una moderna società dei consumi (anche se economicamente sarebbe più razionale). Il che fa sì che il tecnico, se tale vuole restare, è costretto a scelte forzatamente prese altrove e probabilmente conservatrici (a fini prestabiliti e rapporti di potere intangibili), pena – in contrario – trasformarsi in politico.
Il che pone due problemi: il primo– e più importante – è se una crisi anche di carattere economico, non rientri nell’ambito del politico. Nessuno, dopo i ricorrenti terremoti che affliggono l’Italia (né – che ci risulti – in alcun altro paese), ha proposto di eleggere un geologo a capo del governo, perché le misure da prendere per il dopo-terremoto investivano comunque la politica. Le cui regole “tecniche” per così dire, sono differenti e considerano presupposti e parametri diversi e talvolta opposti. In politica è d’importanza fondamentale il rapporto di comando-ubbidienza: autorità, legittimità, consenso ne sono presupposti essenziali. Ma se Galilei avesse messo ai voti (cercato il consenso) la tesi (vera) eliocentrica, sarebbe rimasto “in minoranza”, e probabilmente, ai tempi suoi, da solo. La realtà è che in politica, come scriveva Hobbes, auctoritas non veritas facit legem; e Vico proseguiva certum ab auctoritate verum a ratione. Se (alla scienza e) alla tecnica è necessaria la “verità” che sicuramente non dipende dai voti, alla politica lo è il consenso all’autorità (e con ciò l’obbedienza): se questo non c’è corre il rischio di risultare irrilevante o, al contrario di comandare in modo estremamente difficile e costoso.
Il secondo, legato alla situazione italiana, riflesso della crisi finanziaria che affligge l’Europa e, in parte, gli U.S.A., è (tra l’altro) quali siano in Italia i fattori concomitanti che la rendono (a quanto pare) più pericolosa che altrove. Si dice che questo sia il deficit, e il rapporto con il PIL: ma nel passato questo era peggiore; così il differenziale di redditività tra Buoni del Tesoro tedeschi e italiani era assai superiore (specie negli anni ’70 e ’80). Quel che occorre chiedersi è se deficit, spread e quant’altro non siano – almeno in larga misura - la conseguenza (gli effetti) dell’ideologia dello Stato assistenziale (e connessi) che, pur avendo raggiunto obiettivi molto apprezzabili, non può continuare negli stessi modi, forme, strutture perché la situazione storica (ed economica) è cambiata. E quindi occorre una politica che si faccia carico di progettare un futuro, per forza di cose, diverso dal passato: cioè con una grande capacità d’innovazione. Quello che la sinistra italiana, rimasta alle condizioni del secondo dopoguerra, non si rassegna a capire.
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Teodoro Klitsche de la Grange

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Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato, giurista, direttore del trimestrale di culturapolitica"Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).

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