Dilemmi weberiani
Vivere per
la politica
o vivere di politica?
Oggi facciamo anche noi un po’ di antipolitica… Ma di lusso, tirando in ballo
il caro vecchio Max Weber … Veniamo subito al punto: scriveva il Nostro ne La
politica come professione, il politico dovrebbe vivere, stando a quel che
dichiara, per la politica. Mentre in realtà, lasciava intuire, vive di politica
(Oscar Mondadori, p. 63). Tradotto: il politico invece di dare, nel senso del
plusvalore ideale e professionale (precedente all’elezione), prende… Sfrutta la
situazione e specula su contatti e relazioni. Si trasforma in
"funzionario" , pappandosi laute prebende e - oggi - altissimi
stipendi.
Weber, che morì, nel 1920, non era un fascista, ma un liberale, attento osservatore
di ciò che uno studioso più a destra di lui, come Pareto, definì la
degenerazione della democrazia.
Tra le due guerre mondiali i vari fascismi “smontarono” i parlamenti,
sostituendoli con camere corporative, capaci di rappresentare i diversi corpi professionali.
Perché si diceva, servono i competenti, non i politicanti. Poi tornarono le
democrazie che misero in soffitta il corporativismo. Anche se nei paesi
scandinavi, targati socialdemocrazia, si continuò a praticare, quello che i
politologi, ancora negli anni Settanta del Novecento, continuarono a chiamare
neocorporativismo democratico: una forma di gestione economico-sociale che, pur
lasciando le istituzioni parlamentari nelle mani dei politici di professione,
praticava una concertazione, spesso prevista per legge, tra le diverse parti
sociali e professionali. Si trattava di un corporativismo, che non esautorava
il parlamento, ma lo affiancava e in alcuni casi surrogava, stabilendo la
cornice sociale ed economica degli accordi entro cui i deputati dovevano poi
legiferare.
In Italia, una funzione di questo tipo - però consultiva - avrebbe dovuto
svolgerla il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Istituito alla
fine degli anni Cinquanta, ma presto divenuto un cimitero di lusso per elefanti
politici e sindacali…
Va ricordato che nel dopoguerra la destra missina ha promosso per anni l’ “idea
corporativa”. E, per chiunque ne abbia voglia, consigliamo la rilettura dei
numerosi fascicoli e rapporti prodotti, soprattutto negli anni Settanta - in effetti
sotto l’impulso di Almirante - dall’Istituto di Studi Corporativi (oggi
confluito nella Fondazione Ugo Spirito). Dove si ragionava soprattutto di
corporativismo democratico, se non alla scandinava, sicuramente in chiave
“mediterranea”. Puntando sulla creazione di una camera delle competenze
professionali da affiancare a quella politica. Una “camera” capace di fornire
indicazioni sulla programmazione corporativa - una volta discussa con i diversi
corpi professionali - dei vari indicatori sociali ed economici. Oggi, per
attualizzare quei dibattiti, si potrebbe parlare di Pil corporativo.
Tuttavia l’idea stessa di un neo-corporativismo democratico, anche in termini
di pura concertazione informale tra imprenditori, governo e sindacato è stata
spazzata via negli anni Ottanta e Novanta e Duemila (soprattutto in Italia,
dove però un vera e propria concertazione istituzionale non era mai esistita:
quindi pioveva sul bagnato…) dalle cosiddette “rivoluzioni neo-liberiste”… Che
hanno finito per incidere anche sulla cultura politica dei post-missini,
post-aennini, post-Pdl, e infine post tutto, pure post-corporativismo
democratico. Pietoso.
Il caro vecchio Weber aveva ragione. Purtroppo chi vive di politica deve
attaccare l’asinello dove vuole il padrone. Pertanto, se la stessa destra
neo-fascista che un tempo celebrava e studiava, seppure timidamente, il
neo-corporativismo in versione democratica è passata armi e bagagli a un
neo-liberismo, tra l'altro alle vongole, figurarsi gli altri partiti, incollati
ai propri storici privilegi.
Probabilmente servirebbe gente capace di vivere per la politica. Ma dove
trovarla oggi?
Carlo Gambescia
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