Di regola,
la questione del rapporto tra società e Stato rinvia in chiave propedeutica
alla essenziale relazione tra costituzionalismo e "politico". O detto
diversamente tra forma (istituzioni) e contenuto ( forze politiche). Due
fattori, piaccia o meno, di cui l'Italia ha sempre in qualche modo difettato.
Cosicché, di volta in volta, la società italiana post-unitaria, già divisa al
suo interno, è andata a rimorchio di istituzioni sempre precarie e/ o di
blocchi politici zoppicanti. Insomma, non c'è di che essere allegri...
- www.mulino.it |
C’è una (sterminata) letteratura sullo Stato italiano, sulla sua debolezza, e
la/e sua/e crisi; ad essa hanno partecipato storici, giuristi, politologi,
politici, letterati. L’autore mette le mani avanti “l’intento di questo scritto
non è quello di sviluppare un’analisi critica della letteratura, ma di
esaminare direttamente la realtà dello Stato italiano, nel suo percorso
storico, per indagarne non tanto la natura quanto la forza, e, nello stesso
tempo, i fattori della sua debole complessione”. Lo scritto è diviso in due
capitoli. Il primo è dedicato alla fase iniziale dello Stato (1861-1864). Il
secondo “prende in considerazione i tratti caratteristici che accompagnano la
storia dello Stato italiano nei centocinquant’anni della sua vita. È dedicato a
quegli elementi costanti che, al di là delle cesure, si riscontrano lungo tutto
il percorso della vita statale italiana, esaminando i segni o indici di forza o
debolezza e le loro cause, nonché le reazioni che hanno provocato”. La
conclusione dell’autore è la risposta all’interrogativo, che già si poneva – in
diverso contesto – circa quarant’anni fa Ernst Forsthoff “in che modo ha
influito questo tipo di formazione dello Stato sul livello di statalità proprio
del Regno – poi della Repubblica – italiano? Abbiamo avuto, in Italia, troppo
Stato – come alcuni lamentano – o, al contrario, troppo poco Stato – come
l’immagine dello Stato debole suggerisce?”
Cassese sostiene che il “tipo di sviluppo statale italiano è stato, in primo
luogo, caratterizzato dal permanere delle preesistenze”. In particolare è stato
caratterizzato da tre caratteristiche “la prima è l’accumularsi degli strati
diversi, che in Italia è stato superiore di quello di altri Paesi. La seconda è
la scarsa cura nel rendere omogenei, coordinare, dare coerenza agli elementi
disparati provenienti da epoche e regimi diversi. La terza è il ritorno di
alcuni tratti originari, che riaffiorano ripetutamente”. Per cui abbiamo avuto
uno Stato apparentemente forte, ma in effetti debole (anche perché connotato da
estese contraddizioni).
La tesi di Cassese è interessante e confortata dall’avvalersi dell’analisi
della legislazione (come dei comportamenti amministrativi); tuttavia la causa
della “debolezza” della costruzione unitaria (che spesso non è poi tanto
debole) appare rapportabile a cause politiche – e “politologiche” – di cui
quelle giuridiche sono la “spia” (e la conseguenza). Ad esempio la mancata
“comunicazione” tra società e Stato, su cui l’autore insiste, ricordando il
suffragio censitario (e limitato) in vigore fino al 1912; o lo Statuto
albertino, octroyé: ambedue comportano un deficit d’integrazione. In Italia
aggravata dal fatto – tutto politico – del modo di unificazione, avvenuto con
l’opposizione della Chiesa cattolica e la vittoria dello Stato nel
brigantaggio, cioè nella guerra civile. Non è un buon inizio, né un favorevole
viatico per l’integrazione quello di aprire il percorso unitario (d’unità
politica) col (sintomo) massimo di divisione/contrapposizione politica, cioè la
guerra civile. Peraltro occultata e minimizzata anche da gran parte della
cultura “ufficiale”. Per cui al riguardo appare sempre attuale la tesi di
Guglielmo Ferrero (1942) che lo Stato italiano era un caso di
quasi-legittimità, cioè di una legittimità incompleta, parziale, claudicante.
La cui caratteristica, scriveva Ferrero citando Metternich, era di fondarsi
sulla “menzogna”. Cioè di costruire la propria legittimità su enunciazioni e
narrazioni agiografiche, poco realistiche e quindi poco credibili; agiografia
cui la legislazione contribuisce non meno dell’istruzione pubblica o della
propaganda politica. Ad esempio possiamo citare la formula di proclamazione del
re “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Ma nel 1861 coloro che, per
ragioni religiose, credevano alla monarchia per grazia di Dio, e cioè i
cattolici, erano all’opposizione del nuovo Stato, e gli altri, che dovevano
esprimere la volontà della nazione, nella stragrande maggioranza non erano
interpellati (perché non votavano) e l’unica volta che erano stati consultati,
era stato con plebisciti “gattopardeschi”. Per cui coerentemente, votavano con
gli schioppi, alimentando la guerra civile, convinti della legittimità della
monarchia borbonica. E anche dopo lo scritto di Ferrero citato, la situazione è
sempre stata connotata da una legittimità claudicante. La Costituzione
repubblicana – come gran parte delle costituzioni europee ad esse contemporanee
– era frutto della Dichiarazione sull’Europa liberata dettata a Yalta, per cui
gli Stati dell’Asse (e i satelliti dell’Asse) liberati avrebbero dovuto darsi
costituzioni democratiche, antifasciste, e così via. Mentre la dottrina
ufficiale racconta che è conseguenza della Resistenza e del potere costituente
del popolo italiano. Il che è vero a metà: a fare l’altra metà (almeno) furono
le armate angloamericane e l’iniziativa costituente di Yalta. Per cui se non
sulla menzogna, lo Stato italiano si fonda da un secolo e mezzo su mezze verità
(al massimo): ed è questa la “costante” che più pesa.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica
"Behemoth" (http://www.behemoth.it/
). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il
Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno
dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
Nessun commento:
Posta un commento