Pressoché certi del prossimo "balletto" politico
sulle responsabilità dei gravi incidenti di oggi pomeriggio, ci permettiamo di
riproporre un nostro post di qualche tempo fa, nella speranza che possa offrire
alcuni elementi di riflessione generale. (C.G.)
Roma, Piazza San Giovanni, sabato 15 ottobre, ore 18. |
Sociologia della violenza
|
Che cos’è la violenza?
In primo luogo, la violenza è un reale fattore sociale e storico. E di che si
tratta? La violenza consiste nel rimuovere con la forza fisica - fino alla
totale eliminazione - gli ostacoli sociali (individui e/o gruppi) a quella che
può essere definita, in ultima istanza, l'espansione della volontà di potenza
insita nell’uomo. Volontà che può essere culturalmente sublimata, ma non
soppressa. A cicli alterni, e secondo le circostanze, riappare, per poi scomparire
di nuovo, ritornare, e così via. La violenza, insomma, ha una sua storia
naturale segnata da un andamento ciclico, condizionato, come vedremo,
culturalmente.
In secondo luogo, la violenza è giustificata o condannata a seconda delle
convenienze e sulla base di retoriche politiche differenti. Ad esempio, il
terrorista per giustificarsi parlerà di risposta alla violenza del sistema; il
poliziotto che reprime si appellerà al rispetto della legge, qualificando, la
sua violenza, come uso legale della forza pubblica contro gli eversori.
In terzo luogo, il giudizio sull’ uso della violenza muta sulla base della
risposta storica: i vincitori presenteranno sempre se stessi come difensori
della pace e gli sconfitti come guerrafondai, e così via.
In quarto luogo, l’intensità della violenza usata contro un ostacolo sociale
(individui e/o gruppi) resta legata al grado umanità che gli si riconosce:
quanto più l’ostacolo sociale è considerato di natura aliena o sub-umana, tanto
più la violenza esercitata sarà rivolta alla sua completa eliminazione.
Pertanto l'esplosiva miscela odio-violenza andrebbe sempre maneggiata con
grande cautela. E mai con quella superficialità che spesso affiora in certi
dibattiti, anche in Rete, dove, ad esempio, si parla fin troppo genericamente
di “violenza sistemica”, non tenendo presente, appunto, che più si
spersonalizza umanamente l’avversario, più si corre il rischio di sposare la
causa della “soluzione finale”.
In quinto luogo, proprio perché la violenza ha una sua storia naturale, non ha un
limite oggettivo, se non quello della totale distruzione reciproca o di una
delle due parti. Ma esistono invece - e per fortuna - limiti culturali, come
dire soggettivi (sempre riferiti all'individuo e/o gruppo sociale), che di
regola riescono a ciclicizzarla, sublimarla, controllarla. Le teorie pacifiste,
di ispirazione religiosa o meno, ne sono un esempio. Ma anche quelle ispirate
al diritto naturale. Come pure le moderne teorie procedurali della politica di
stampo liberale. Oppure quelle del cosiddetto “dolce commercio” come
apportatore di pace eterna e universale. Sono “retoriche” ( o narrazioni, come
è di moda dire) che possono piacere o meno, ma se ci si passa l'espressione,
tali teorie "aiutano": rendono l'uomo più riflessivo. Per alcuni
anche troppo. Ma questa è un'altra storia.
In sesto luogo, la benevolenza, non sopprime per sempre il nemico né la
violenza. Dal momento che è il nemico stesso a designare un certo ostacolo
sociale (individui e/o gruppi) come proprio nemico. Il che significa che si può
pure porgere l’altra guancia, ma se il nemico, come di regola accade, ha
prescelto e deciso di distruggere "proprio quel certo ostacolo
sociale", ogni benevolenza del prescelto o dei prescelti sarà inutile.
.
Fine di un ciclo?
Pertanto il vero problema, che ogni gruppo sociale si è sempre trovato a dover
risolvere, pena la propria autodistruzione, resta quello di come individuare un
giusto equilibrio storico e sociologico tra limiti (o vincoli) culturali e
dinamica naturale e ciclica della violenza. In alcune epoche ci si è giunti
consapevolmente, in altre meno.
Sotto questo aspetto la società contemporanea ha abilmente sublimato e
proceduralizzato la violenza, proprio perché uscita da un gravissimo conflitto
bellico (la Seconda
Guerra Mondiale), dove si era fatto un uso inaudito della
violenza.
In questo processo un ruolo essenziale è stato giocato dallo sviluppo
economico, dalla nascita del welfare state, dalla democrazia sociale e
pacifista (all’interno). Fattori che hanno consentito al mondo occidentale e
industrializzato, di “proceduralizzare” e “anestetizzare” la violenza, puntando
su un sistema di garanzie sociali, di cultura consensuale e di procedure
economiche e sindacali, durato più di sessant'anni. E che ora, come evidenziano
le recenti avvisaglie, non solo in Italia (contestazioni, anche violente,
sequestri di dirigenti, manifestazioni di massa come in Grecia), sembra stia
entrando in crisi.Infatti, il rischio che si apra un nuovo ciclo, come dire,
della violenza predominante, interno all’Occidente, non è da escludere. Dove,
attenzione, il pericolo maggiore è quello della violenza acefala a spirale: del
colpo su colpo, segnato appunto dal vortice violenza
extra-istituzionale/violenza istituzionale; vortice capace di risucchiare tutto
e tutti. Che già si va profilando, soprattutto in alcune grandi periferie
urbane europee, anche grazie a quell'ossessione per la sicurezza, agitata come
uno straccio rosso dai governi di destra. “Straccio” davanti al quale il
"toro" teorico e giustificativo della vecchia violenza di classe -
"contro la violenza borghese" o “sistemica” - sembra aver già
pavlovianamente preso posizione, minacciando di partire a testa bassa. Il che
però non significa che la violenza extra-istituzionale - risanatrice per alcuni
- possa di per sé, aprire chissà quali prospettive future di libertà e
progresso. La violenza è sempre e solo violenza. E come abbiamo già detto ha
una sua storia naturale. E rimane solo violenza, anche se nasce da una
situazione di oggettivo disagio. Non basta toccare, magicamente, il punto
limite della disorganizzazione sociale.
.
Il vero problema
Il vero problema è come lo si tocca, con chi, e con quali progetti
ricostruttivi. Perché, in effetti, quel che per ora manca è un serio progetto
alternativo. Anche perché all’orizzonte non scorgiamo una classe dirigente
alternativa capace realizzarlo, né un’elite culturale onesta e sincera, né un
movimento sociale ben radicato che non sia puro ricettacolo di “spostati”. Di
qui la puerilità di certi dibattiti.
E' poi così difficile capire che l'interpretazione qui proposta della violenza
quale fattore storico e sociologico ciclico non implica alcun giudizio di
valore? Ma solo la necessità, come saggezza sociologica impone, di comprendere
che la storia – meccanismo assai complesso - non ammette scorciatoie o salti.
Di conseguenza la violenza per la violenza non serve a nulla. Anche se frutto
di risposte meccaniche a oggettivi processi sociali di disgregazione: non
esistono solo il "Sociale" o solo l'Economico, come meccanismi auto-riproduttivi,
esistono anche il "Culturale" e il "Politico" che
influiscono (spesso in modo determinante), completandoli dal punto di vista dei
significati profondi, i meccanismi sociali ed economici .
Il vero problema delle rivoluzioni non è tanto ( o solo) conquistare il potere,
quanto quello di gestirlo "dopo la vittoria" : di come trasformare
(recependo il costruttivo insegnamento delle grandi rivoluzioni borghesi) la
violenza rivoluzionaria, anche dura, in sincero, solido e democratico consenso
popolare. O se si preferisce la violenza in “forza” culturale e politica: il
pugno chiuso in mano tesa e aperta. E per far questo servono uomini, idee
chiare e istituzioni, non chiacchiere pseudo-rivoluzionarie da intellettuali
frustrati e cinici , pronti a mandare al massacro sempre gli altri: gli ingenui
idealisti, spesso giovanissimi. Quasi sempre tra i primi a cadere.
In questo senso la vera missione della sociologia resta quella teorizzata da
Auguste Comte: Savoir pour prévoir, prévoir pour prévenir. Ovviamente senza
esagerare, perché esiste anche il rischio scientista e tecnocratico. Ma questa
è un'altra storia...
Carlo Gambescia
.
Nessun commento:
Posta un commento