Shibari
Il sesso nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica
Partenza stratosferica. Walter Benjamin, un irregolare del pensiero
novecentesco, ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
scrisse che grazie al cinema, alla macchina fotografica, al disco, « la
cattedrale» avrebbe abbandonato « la sua ubicazione per essere accolta nello
studio di un amatore d’arte». Insomma, l’arte, grazie alla tecnica, si sarebbe
fatta meno elitaria e più collettiva, al prezzo però di dipendere interamente
dal mercato. E così è stato. Di qui, tuttavia, due fenomeni: da un lato la
trasformazione dell’arte in intrattenimento di massa, dall’altro, la
possibilità per il fruitore, magari scattando fotografie, di sentirsi, senza
esserlo realmente, un artista.
Dove vogliamo andare a parare? Presto detto: riflettere su quel che è successo
a Roma, dove in uno squallido non luogo postmoderno, un garage, si è consumata,
come dire, la tragedia - e non sarà l’ultima - della riproducibilità tecnica,
ma a sfondo sessuale.
Gli elementi c’erano tutti: l’opera d’arte, rappresentata da un’antica
tradizione di legatura giapponese, finalizzata nel caso a una pratica sessuale
(lo shibari); il kit di massa del bondage post-moderno, ritrovato nel
bagagliaio dell’auto del presunto Maestro, un cassaintegrato; le due piccole Justine,
studentesse, sospese tra studio e lavoretti…
Che cosa è successo? Che un conto è scattare male una foto, un altro,
riprodurre una tecnica, come quella shibari, che richiede una manualità fuori
dal comune, frutto di una sapienza antica ed elitaria.
Purtroppo, “artisti” non ci si improvvisa… Walter Benjamin, a proposito
dell’arte di massa, scriveva di «ricezione nella distrazione».
Ecco, il punto è che lo shibari, non consentiva e non consente alcuna
distrazione.
Carlo Gambescia
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