venerdì 11 aprile 2025

L’Italiaccia di Chiocci

 


Gian Marco Chiocci è  il giornalista che inchiodò Gianfranco Fini alla croce dorata dell’appartamento di Montecarlo, il Monte Calvario di Fini.  

Ieri sera,  il  TG1, di cui è direttore a una cifra che gravita intorno ai 200 mila euro annui (*), ha mandato in onda, non il busto del duce, che alcuni ritengono fosse sulla scrivania di Chiocci ai tempi del “Giornale” (**), ma la lettera di scuse che Mark Samson, l’assassino reo confesso di Ilaria Sula, ha scritto e inviato dal carcere ai genitori della giovane vittima (***) .

All’epoca dei capoccioni della Democrazia cristiana, Chiocci sarebbe stato licenziato su due piedi. Il che era ed è troppo. Però, ecco il punto: vedere il Tg1, la nave ammiraglia della Rai, come si scrive in giornalistese, trasformato in un’ appendice di “C’è posta per te” lascia perplessi.

Si dirà che dai tempi di Bernabei, quello delle gemelle Kessler in calzamaglia nera pesante, l’Italia è cambiata. Certamente. Però dal momento che su tutte le reti Rai la cronaca nera impazza, era proprio necessario invadere in stile Putin anche il Telegiornale delle ore venti?

A dire il vero, da quando è arrivato Chiocci, reporter d’assalto, assatanato di scoop, non è la prima volta che accade. Inoltre, oggi come oggi, è antipatico fare i moralisti.

Però come conciliare il “Dio, patria e famiglia” celebrato dalla destra bacchettona, alla quale Chiocci deve il posto di direttore, con la versione più o meno noir di “C’è posta per te”?

Solo in un modo. Con l’ipocrisia. Vecchia malattia italica: ci si erge a difensori dei grandi valori morali. Dopo di che si chiude un occhio. E qui si pensi allo stato di famiglia di Giorgia Meloni, quella del “sono donna, sono cristiana, sono madre”… Sì, ma more uxorio, come avrebbe commentato l’ufficio legale Rai ai tempi di Bernabei.

Sia chiaro però: il punto non quello di condannare le madri single, eccetera, eccetera. O di velare le cosce delle Kessler. Oggi Elodie va in giro mezza nuda. Perchè privarsi della bellezza, se frutto di libere scelte individuali?  Ci mancherebbe altro.

Quel che dà fastidio è l’ergersi a paladini della morale, per poi farsi i cazzi (pardon) propri. Per la serie le regole valgono solo per gli altri…

Ma non è tutto.

La destra alla Chiocci il reato di femminicidio non lo ha mai digerito. E che c’è di più in sintonia con ciò che si pensa ma non si dice, di esibire la letterina di un femminicida che chiede scusa? Una specie di mammoletta ex post… Quindi in controtendenza rispetto alla versione neanderthaliana, più che giustificata ovviamente, delle femministe.

Infine sullo sfondo di un Tg1 cannibalesco, tipo “La vita in diretta”, c’è un’Italia che per un verso non vuole sentir parlare di guerre (“giuste o ingiuste pari sono”, questa la vulgata), mentre per l’altro si nutre in quantità industriali di analitici resoconti televisvi sui delitti più raccapriccianti.

Un’Italia di timorosi guardoni, di gente morbosa senza però sapere di esserlo. Ormai è la normalità. Un pubblico affascinato da una specie di romanzo criminale che va avanti fino a notte fonda. Con le appendici delle letterine, dei pentimenti, eccetera. E cosa imperdonabile: senza aver mai letto una riga di Mario Praz.

Ripetiamo: oggi la normalità è discutere di reperti organici, di rigidità cadaverica, del numero di coltellate inferte e dell’abbigliamento delle vittime, nonché dello standard morale dell’assassino, dei genitori, dei parenti, dei fidanzati e dello zio prete. Con gli avvocati, veri  artisti dell’ antilogia, onnipresenti in tv, pronti a dare il colpo di grazia al comune concetto di verità condivisa. Così vanno le cose.

Del resto l’età del pubblico televisivo (altra caratteristica dell’Italia pacifista) è elevata. E si sa, i nonni, 12 milioni in Italia (****), sono sempre nostalgici del buon tempo antico. “Ai tempi nostri non c’era l’assassino seriale”… Sono soddisfazioni…

Un’Italia di vecchiacci affamati di cronaca nera. Ma non solo. Perché tutti gli altri si nutrono di fake news e di complottismo social.

Un’Italiaccia che nel suo insieme non apprezza più il mago Silvan, il mito un tempo dei grandi e dei piccini. Ma adora, ecco il nuovo mito dei grandi e dei piccini, il grand guignol Rai. O come si dice oggi il pulp.

Questa brutta Italia un direttore come Chiocci se lo merita. Come si merita la destraccia ipocrita che lo ha nominato alla direzione del Tg1.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.rai.it/trasparenza/persone/Gian-Marco-Chiocci-ad6199ee-8e72-45ca-a2ca-aa27f65c0167.html .

(**) Qui: https://www.ilfoglio.it/articoli/2014/12/21/news/reporter-borderline-79453/ .

(***) Qui: https://www.adnkronos.com/cronaca/mark-samson-scrive-ai-genitori-di-ilaria-sula_7uFOrhalGZ3CKQM5Mjislk .

(****) Qui: https://www.infodata.ilsole24ore.com/2024/10/02/quanti-nonni-ci-sono-nel-mondo-e-in-italia/

giovedì 10 aprile 2025

Trump e i dazi a colazione

 


Trump ha congelato per tre mesi i famigerati dazi. “Venghino donne, senza timore alcuno, dieci per cento, per tutte, sciure e sciurette, trattabile”. Così almeno pare di capire. Salvo che con la “sciura” Cina, che Trump accusa di disonestà verso il mercato internazionale. Proprio come le tragicomiche tirate di Hitler quando accusava Cecoslovacchia a Polonia di voler invadere la Germania.

Ovviamente la destra, a cominciare dai “morosi” italiani di Trump, parla di ricatto dei mercati. Solito ritornello complottista. Se solo studiassero di più… A cominciare da Sechi, direttore di “Libero”…

In realtà i mercati fanno il loro lavoro. Che dipende dagli spiriti animali (animal spirits), secondo la definizione di Keynes. Cioè dall’umore di imprenditori e consumatori che può tendere all’ottimismo come al pessimismo. Con conseguenze positive o negative nella sfera degli investimenti e dei consumi. Una delle poche cose giuste dette da Keynes (*).

E fino a ieri,  con i dazi introdotti  da Trump,  il barometro  dell’economia segnava tempo cattivo.  L’umore di operatori  e consumatori  era pessimo. Condizionando borsa e  mercati finanziari, a cominciare, solo per fare un esempio,   da quello  del debito pubblico  (dei titoli di stato), schizzato verso l’alto. In particolare quello americano  detenuto all'estero,  posseduto quasi per la metà da Unione Europea, Giappone e Cina (sfatando leggende, quest’ultima detiene appena il 2 per cento del debito Usa)  (**).

Il mercato, del debito pubblico o di altro, indica una sola cosa, e fondamentale, che nell’economia di mercato tutti hanno bisogno di tutti. La cooperazione economica, fondata su atti economici tra adulti liberi e consenzienti funziona così. Si chiama anche libero scambio.

Pertanto introdurre dazi a catapulta significa ostacolare gli atti economici di cui sopra. Quindi la reazione degli adulti consenzienti non può che essere negativa. E qui entrano in gioco gli spiriti animali: lo stato umorale, come detto, di imprese e consumatori.

Per dirla alla buona: se, per decisione politica – si badi “politica” non degli operatori economici – la colazione che si fa al bar ogni mattina di colpo passasse da tre euro a quasi cinque , minacciando di salire fino a nove euro. Il bar si svuoterebbe, il proprietario licenzierebbe, eccetera, eccetera.

Di conseguenza, per ricaduta, chi se la sentirà nei giorni successivi di aprire un bar? Umore nero insomma. Per tutti baristi e avventori.

Insomma nessuno investirà in cappuccini e cornetti… Né, in cambio, si potrà obbligare l’avventore a sorbire (cattivi) cappuccini e cornetti (del giorno prima) presso “spacci” pubblici. Qual è la lezione? Che il prezzo delle colazioni deve fluttuare liberamente, come tutti gli altri prezzi, consentendo al consumatore di scegliere il prezzo più vantaggioso.

Magari facendo il giro dei bar a buon mercato, come la massaia di Einaudi faceva quello dei mercatini per risparmiare sulla spesa. Si chiama sovranità del consumatore. E talvolta può essere faticosa, ma ne vale la pena.

Inoltre mai confondere l’intraprendenza ( frutto di una normale previsione) con la speculazione (frutto di una previsione di una previsione).Tenendo sempre presente che il rischio di confonderle è insito nel capitalismo e che quindi è ineliminabile, perché alla base sia dell’intraprendenza che della speculazione, cognitivamente parlando, c’è la previsione. Perciò, piaccia o meno, se cade l’una cade l’altra. Le regolamentazioni  lasciamole  ai socialisti, ai nemici del capitalismo.

Sovranità del consumatore, per tornare sul punto, che vale per il cappuccino come per altri beni o titoli. E, sia detto per inciso, anche per le uova delle colazioni americane reali. Il loro prezzo non diminuirà, al di là dei fattori contingenti (ad esempio l’epidemia aviaria), fino a quando non saranno individuate e colpite le pratiche anticoncorrenziali da parte dei principali produttori di uova, come Cal-Maine Foods, produttori che sembrano sfruttare la crisi per aumentare i prezzi. Ma Trump, noto speculatore immobiliare, da questo orecchio non pare sentirci…

Per tornare alla nostra metafora ieri Trump, come detto, ha dichiarato che quel cappuccino e cornetto, più o meno, continuerà a costare, salvo che in Cina, tre euro. In realtà Trump non si è piegato a nessun complotto o ricatto ma agli spiriti animali del capitalismo.

Perciò per ora hanno vinto i mercati. Fino a quando però? Difficile dire. Perché Trump ragiona, come abbiamo detto, in termini di logica di potenza, non di mercato. Non include nel calcolo economico i possibili sbalzi d’umore degli operatori. Vuole una cosa, se la prende. La logica di potenza funziona così. E in essa, mai dimenticarlo, c’è un lato nichilistico: autodistruttivo. Che, i presunti superuomini alla Trump, non tengono in alcun conto. Bassezze, proclamano, da ominicchi.

Concludendo la notizia buona è che Trump sembra aver preso tempo. Quella cattiva è che Trump è Trump. L’ Übermensch potrebbe non aver imparato la lezione.

Carlo Gambescia

(*) Si veda J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta e altri scritti, a cura di A. Campolongo, Utet, Torino 1978, pp. 321-322. Nell’edizione italiana si è il tradotto il termine con “spirito vitale”.

(**) Qui una buona analisi in argomento: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/debito-usa-il-tetto-che-per-ora-non-scotta-186842 .

mercoledì 9 aprile 2025

Giorgia Meloni, canaglia politica

 


Il protezionismo è costoso e divisivo. Chi asserisce il contrario o è un imbecille o un bugiardo. O peggio ancora una canaglia politica.

Costoso. Giorgia Meloni, oltre a recarsi da Trump, sembra il 17 aprile, per implorare tariffe doganali più miti, già parla di stanziare sostanziosi aiuti, circa 25 miliardi, per le imprese (industria, artigianato, agricoltura). Come però? Sottraendo fondi (tra le pieghe del Pnrr) e mettendo in discussione il Patto di stabilità (cavallo di battaglia dei nazionalisti, pardon sovranisti) e il Green Deal (altro mantra propagandistico nazional-populista).

Divisivo. Il protezionismo genera sempre patti, spesso perversi, nel senso che penalizzano i più deboli politicamente, i meno rappresentati, che pagano per coloro che invece si spartiscono la torta. Insomma una vera e propria frattura sociale.

Le guerre doganali crispine e la folle autarchia mussoliniana impoverirono operai e contadini favorendo le grandi industrie del Nord e il latifondo al Sud: industriali e proprietari terrieri.

E ora si ricomincia con un patto sulle provvidenze, come si legge, per il Made in Italy. Probabilmente Giorgia Meloni, che non ha neppure l’attenuante ottocentesca del protezionismo come scudo per la rivoluzione industriale italiana, sa che da Trump, otterrà solo briciole, e di conseguenza, si appresta a far pagare il conto del protezionismo trumpiano, sperando di farla franca, all’Unione Europea.

Canaglia politica. La Meloni, già politicamente perfida di suo, ha fatto tesoro del “metodo” Trump: approfittare, senza alcuna remora, delle difficoltà altrui, in questo caso dell’Ue, alle prese con i dazi. E con quale scopo? Realizzare finalmente un vecchio sogno: la disgregazione europea. Azione indegna dal civile  punto di vista liberale ed europeista. Per l'appunto una canagliata politica.

Fedele alle buone “tradizioni” (si fa per dire) fasciste, si comporta da forte con i deboli (l’Ue) e da debole con i forti (gli Usa di Trump). Proprio come i guardaspalle repubblichini dei nazisti.

Tuttavia, dal momento che nessun pasto è gratis, una volta esauriti i fondi Ue (semplifichiamo), perché la guerra doganale non sarà di breve durata, chi pagherà? I consumatori italiani alle prese con una diminuzione del potere d’acquisto, causata per un verso dal rimbalzo sui prezzi mondiali  dei  dazi trumpiani, una vera e propria tassa, quindi inflazionistici per traslazione, e per l’altro, dall’inflazione causata dalle iniezioni cortisoniche di denaro pubblico drenando Pnrr e quant'altro.

E se invece l’imperatore di Washington riducesse a zero i dazi solo per l’Italia? Pagheremmo la differenza di trattamento con l’Europa, verso la quale esportiamo (più che negli Stati Uniti), anche perché non ci sarebbe consentito di tenere fiscalmente e finanziariamente i piedi in due staffe. Sarebbe guerra tariffaria tra l’ Ue e un’ Italia più simile al Portorico che a un paese europeo,  con l'aggravante di essere il  Cavallo di Troia del protezionismo americano.

Riprova che l’ economia reale, legata alle differenze di Pil, finisce sempre per vendicarsi. Non basta piantare la bandierina dell’Italia in cima e gonfiare il petto. Il mondo non è un’isola, tutti hanno bisogno di tutti.

Trump ha infranto il patto liberale che ha governato il mondo per ottant’anni. Di conseguenza l’unica risposta possibile, dal momento che il Pil italiano non è quello degli Stati Uniti, è di rinsaldare i legami con l’Europa, aspettando che la bufera passi.

Non di presentarsi a Washington in ordine sparso, come si propone Giorgia Meloni, dando il colpo di grazia all’Europa, da vera canaglia politica. Come il Mussolini della pugnalata alla Francia.

Carlo Gambescia

martedì 8 aprile 2025

Il cancro Trump

 


Un consiglio. Il lettore rifiuti di perdersi nel mare di chiacchiere sui  presunti disegni benefici di Trump, diffuse in particolare dai nazionalisti, pardon sovranisti, che ormai dettano la linea in televisione e sui social. Perché, credere a questa gente, sarebbe come pretendere di curare il cancro con le iniezioni di acqua ossigenata. Più avanti il lettore capirà perché.

Vanno invece considerate tre cose fondamentali.

La prima, che il protezionismo impoverisce e incatena i popoli. Quindi meno o zero libertà.

La seconda, che porta a guerre distruttive. Quindi solo dolore e rovine.

La terza, che il responsabile di quanto sta accadendo e potrà accadere è uno solo: Donald Trump. Al quale un tribunale internazionale, anche questo è un altro fatto storico, prima o poi dovrà chiedere conto. Sarebbe bello, anche esteticamente, vedere in catene, in una nuova Norimberga al contrario, l’uomo che incatena i migranti. E quel che peggio, ne gode. Puro realismo politico criminogeno. Come quello di Hitler e Mussolini.

Sono tre “fatti”, attestati storicamente, a guardia dei quali ogni vero studioso, come del resto ogni cittadino amico della libertà, deve porsi. Costi quel che costi.

Pertanto l’unica riposta politica, e qui parliamo dell’Europa unita, è di introdurre dazi pari o maggiori. Anche per evitare di presentarsi al tavolo di possibili trattative – tesi disfattista caldeggiata dai sovranisti – con il cappello in mano.

Anche perché dividersi sarebbe un grave errore. Come invece pensa di fare, ricorrendo alla lingua biforcuta di un lessico ingannatore, Giorgia Meloni, che sta programmando un viaggio solitario alla corte di Trump.

Inciso: quando si dice “corsi e ricorsi”. La Meloni si appresta a intepretare con Trump la stessa indegna parte recitata dai repubblichini fascisti con Hitler. Si noti che parliamo degli stessi che si definiscono “patrioti” un giorno sì e l’altro pure. In realtà, i nazionalisti, qui in Europa, si comportano da “servi”, e per giunta dell’America sbagliata.

Perché, mai dimenticare, per non incorrere nell’errore di certa sinistra paleostalinista e pacifista al tempo stesso, che Trump, non è la fisiologia degli Stati Uniti ma la patologia: un cancro, che, dopo quasi oltre due secoli di quasi perfetta salute, rischia di divorare tutto, a partire da una Costituzione ammirata dai rivoluzionari del 1789 e tuttora apprezzata dai liberal-democratici di tutto il mondo.

Inoltre un primo effetto non economico, molto grave, dell’uragano autarchico trumpiano è quello di oscurare la guerra in Ucraina, praticamente scomparsa dai radar mediatici.

In questo modo si concede tempo prezioso all’altro gemello criminale, Putin. Un tesoretto di settimane, forse mesi, per bombardare e distruggere. E soprattutto per evitare di trattare, in attesa che Kiev, leccandosi le ferite, si pieghi al ricatto russo-americano. E, cosa non secondaria, che anticipiamo pubblicamente, per togliere di mezzo, probabilmente anche in senso fisico, Zelensky, che per tempra e coraggio, rappresenta l’unico vero ostacolo politico sulla strada di Mosca.

Si dirà che il nostro scritto ricorda un proclama piuttosto che un tentativo di analisi. Può essere. Del resto per quel che riguarda le linee generali della situazione mondiale, a meno che non si soffra di ipnosi nazionalista, cioè della pericolosa sindrome da bandierine, c’è poco da analizzare. Gli schieramenti sono chiari, come pure le ideologie in contrasto.

A ottant’anni dalla Seconda guerra mondiale si ripropone il conflitto, già allora acutamente teorizzato da Karl Popper, tra i difensori della società aperta e i suoi nemici.

La grande differenza rispetto agli anni Quaranta è che gli Stati Uniti, per la prima volta nella loro storia, sono pubblicamente e convintamente dalla parte dei nemici della libertà. Qui la posta in gioco va ben oltre la questione del  protezionismo.

Dicevamo del cancro Trump. Purtroppo, al momento, non sembra vi sia cura chemioterapica in grado di sconfiggerlo.

Si confida però, soprattutto in Usa, nella reazione spontanea degli anticorpi dei mercati. Come pure nell’attivazione delle cellule sane racchiuse nelle proteste popolari.

Che dire? Riusciranno Wall Street e Bernie Sanders, accoppiamento a prima vista poco giudizioso, ad avere la meglio sul cancro Trump?

Mai dire mai.

Carlo Gambescia

lunedì 7 aprile 2025

Segare il ramo su cui si è seduti (liberalismo e concetto di nemico)

 



Oggi voliamo alto, ma solo apparentemente, perché il lettore attento capirà subito il senso del nostro scritto.

La politica ha una logica propria. Se si esce da questa logica non si comprende il perché di scelte e decisioni spesso sbagliate e controproducenti.

Innanzitutto va però spiegato in base a quale logica generale si muove la politica. Sul punto ci aiuta la metapolitica, che ha individuato alcune regolarità, cioè fenomeni che si ripetono nel tempo. Una di queste regolarità metapolitiche è rappresentata dalla persistenza in politica della dinamica amico-nemico (*). Che implica ovviamente il riconoscimento dell’amico come del nemico. Però nel nostro articolo ci concentreremo sul concetto di nemico.

Tutto prestabilito allora? No, perché i contenuti storici della più generale dinamica metapolitica amico-nemico mutano. Ad esempio nel particolare quadro istituzionale della democrazia liberale non esiste la figura nel nemico verso la quale riversare l’idea di  inimicizia assoluta che conduce alla distruzione del nemico.

In effetti la politica liberale dei moderni ha civilizzato il nemico: lo ha trasformato in avversario cioè in qualcuno da battere ma non sul piano militare.

Il che significa, per rovesciare un famoso detto, che nelle democrazie liberali, la persistenza della regolarità amico-nemico, assume la forma di una sospensione della guerra puntando sull’uso di mezzi meno cruenti.

Il liberalismo civilizza la politica: al nemico, pur permanendo l’ antagonismo, si sostituisce l’avversario; alla guerra alla discussione, e possibilmente la sintesi; alla distruttiva eliminazione del dissenso, la costruzione, nel civile confronto, del consenso.

Se proprio si deve usare un termine militare, se battaglia c’è, è battaglia delle idee. E cosa più importante alla guerra si sostituisce la coesistenza. Da questa forma mentis non bellicista dipende sul piano interno l’ordinato sviluppo delle istituzioni parlamentari, come pure su quello esterno il ragionato cammino delle istituzioni internazionali.

Di conseguenza, se nelle democrazie liberali la logica della politica rinvia alla figura dell’avversario come un competitore con il quale, come detto, confrontarsi civilmente, e non un nemico da distruggere, chiunque evochi la figura del nemico, con il relativo e truculento armamentario retorico-propagandistico, si pone fuori della democrazia liberale, cioè della versione civilizzata della persistenza della dinamica metapolitica amico-nemico.

Esiste però una controindicazione. Rappresentata dal liberal-democratico che non riesce a capire quando ha davanti a sé non un avversario ma un nemico, che tra l’altro fa di tutto per presentarsi come tale. Questo mancato riconoscimento del nemico mette a rischio la democrazia liberale. In pratica il liberale, così facendo, sega il ramo su cui è seduto.

Dove si annida l’errore? Nel dimenticare o trascurare che esiste la regolarità amico-nemico che nonostante la civilizzazione liberale tende a riaffacciarsi regolarmente.

Pertanto ragionare da liberale con i nemici della civiltà liberale è rischiosissimo. Perché facilita la vittoria non di un avversario ma di un nemico.

E purtroppo il non saper riconoscere il nemico, cioè l’essere incapaci di apprezzare il valore cognitivo di una fondamentale regolarità metapolitica, è il principale segno di decadenza della civiltà.

Dobbiamo aggiungere altro?

Carlo Gambescia

(*) Su questi aspetti rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 voll.

domenica 6 aprile 2025

Sul trumpismo come ideologia

 


C’è chi vede le prime crepe nell’assalto di Trump al potere mondiale. Auguri.

La salvezza delle libertà americane, europee e ovunque si creda ancora nel valore della liberal-democrazia potrà venire solo dal trattamento storicamente riservato ai tiranni. Con i tiranni non si tratta. E non aggiungiamo altro.

Ovviamente il trumpismo, come per il mussolinismo e l’hitlerismo, è un sistema di idee e di istituzioni,  struttura che va  oltre la vita dei padri fondatori, per così dire. Altrimenti non si spiegherebbe la vitalità dei movimenti neofascisti e neonazisti.

Il trumpismo, ancora poco studiato, è un’ideologia autoritaria, che rivaluta i tradizionali valori del dio, patria famiglia, in un contesto – cosa che lo divide dai conservatori e lo avvicina agli eversori nazi-fascisti – di soppressione delle libertà civili, politiche, economiche. Il trumpismo teorizza e pratica la democrazia del capo. Cioè, per essere più precisi, come la democrazia viene intesa, e sempre in modo fuorviante, dall’onnipotente leader politico.

Il trumpismo non rinvia all’associazione dei notabili, dei laudatori dei tempi antichi, che provano a governare più o meno saggiamente, all’insegna spesso del “gattopardismo”. Il trumpismo incute timore alla stessa “oligarchia”. Sul punto crediamo che Trump sia andato a scuola da Putin. Per capirsi: non è Trump ad essere schiavo degli “oligarchi” americani, ma sono questi ultimi ad essere schiavi di Trump. Per paura, conformismo, fame di rendite e non di profitti, eccetera, eccetera.

Quanto ai mezzi del trumpismo, da una parte si lavora sul linguaggio e la comunicazione, cambiando il significato delle parole: la neolingua teorizzata da Orwell. L’oppressione viene chiamata libertà, la tirannia, democrazia, la sovversione, liberazione, e così via.

Dall’altra si rafforza il controllo sulla società distruggendo lo stato di diritto. Impedendo qualsiasi forma di dissenso e puntando, secondo il criterio autocratico, sulla concetrazione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) nelle mani di un uomo solo.

Se il tiranno tradizionale ha conquistato il potere con la violenza ,  il tiranno moderno lo ha conquistato con il voto, quindi con l’inganno politico. Ieri Hitler e Mussolini, oggi Trump, Putin, Orbán, Erdoğan, si sono insediati grazie (anche) a un voto, addirittura liberamente espresso.

Ovviamente, il potere viene poi conservato, mediante un sapiente alternarsi di carota e bastone, di concessioni e di forza.

Il trumpismo lavora sull’immaginazione del popolo, sulle sue paure, sull’indicazione di un capro espiatorio, sul fascino dell’obbedire a un uomo solo, dipinto come una specie di grande padre, fratello, eccetera.

Qualcosa di caldo, di sentimentale, emotivo soprattutto, rispetto all’ automatica obbedienza al freddo ordine sovrastrutturale delle leggi, che la gente comune neppure capisce bene. Il trumpismo si presenta come il vendicatore unico del popolo, catalizzando il voto dei falliti, degli incapaci, degli invidiosi, di tutti coloro che, per ragioni consolatorie o meno, usano scaricare le proprie responsabilità sugli altri, in particolare sulle classi politiche e dirigenti.

Il trumpismo, qui la sua abilità, mette insieme in un colpo solo chi non è stato capace di realizzare le sue ambizioni e chi non ne ha mai avute.

Purtroppo l’ideologia del fallito, in una società che celebra il merito, è un potente veicolo di risentimento sociale. Che quando viene intercettato, in termini di ideologia della mano protesa da un presunto duce degli umili, non importa quanto ricco, si tramuta in una specie di fungo atomico.

Dicevamo di un sistema di idee e di istituzioni. Il sistema di idee è molto semplice: l’ obbedienza a coloro che, come si proclama, conoscono ciò che è bene per il popolo. Il trumpismo potrebbe essere definito sinteticamente un’ideologia dell’obbedienza: della sottomissione in nome dei valori superiori (ad esempio dio, patria e famiglia) incarnati dal capo e dalla classe politica che lo attornia: gli unici in grado di vendicare falliti e incapaci (i passivi insomma). Ovviamente non li si chiama così. Sono automaticamente promossi a povere vittime del sistema, alle quali, in cambio dell’obbedienza assoluta ai capi, si darà nuova dignità.

Quanto alle istituzioni è presto detto, sono le stesse del sistema liberal-democratico ma svuotate di ogni contenuto liberale. Abbiamo detto dell’attenzione del trumpismo per il linguaggio. Non si definisce forse Trump un difensore della democrazia e della libertà? Che poi però tradisce nei fatti, minacciando, arrestando, deportando.

Per quale ragione parliano di trumpismo e non di putinismo, orbánismo, erdoğanismo?

Perché il trumpismo, a differenza di realtà, politicamente analfabete, come la Russia, l’Ungheria, la Turchia, sta squassando la più grande liberal-democrazia dell’Occidente, che ha guidato il mondo libero negli ultimi ottant’anni. Il problema è mondiale. Cognitivamente parlando: Ubi maior minor cessat.

Il trumpismo, come forma di tirannia dei moderni, attacca, quasi si trattasse di un platano secolare, alle radici la liberal-democrazia, e risalendo fino al tronco, ne usa gli strumenti, a cominciare da quelli elettorali, per svuotarlo dall’interno, fino a provocarne la caduta.

Pertanto, ai nostri giorni, il trumpismo, così capace di riunire – semplificando – falliti e vincenti e di soggiogare facilmente i passivi, è una specie di bomba atomica sociale, sempre carica e pronta a esplodere.

Insomma, Trump o meno, sarà difficile liberarsi del trumpismo e dei suoi imitatori, anche europei. Perché la meritocrazia dei moderni, che ha sostituito la castocrazia degli antichi, ha inevitabilmente tramutato il rassegnato in fallito. La modernità, che è libertà, implica il rischio di non riuscire.

Però, come sembra (qui uno dei problemi insoluti dei tempi moderni), l’interiorizzazione del rischio è un processo più complicato dell’interiorizzazione della rassegnazione. Di qui quella rabbia, quella frustrazione, quel senso di essere scarsamente considerati, sempre riemergenti negli elettori, che alimentano circolarmente l'ideologia trumpista.

E qui, purtroppo, la vera questione è che la modernità non può fare a meno della meritocrazia. E neppure del rischio.

Carlo Gambescia

sabato 5 aprile 2025

Chi vincerà? Trump o i mercati?

 


Non pochi osservatori commettono un grave errore.

Per un verso interpretano giustamente la reazione dei mercati come il velenoso risultato dell’analfabetismo economico di Trump. Il che è vero.

Però per altro verso si confida, forse troppo (qui l’errore) nella forza della ragione economica.

Cioè si spera che alla fine i mercati, da quello borsistico che come si legge sta colando a picco, si vendicheranno, nel senso di fallimenti a catena, spingendo Trump nell’angolo, fino al punto di costringerlo a fare marcia indietro sulle tariffe.

Diciamo che ci uniamo all’augurio. Però con alcune riserve.

La tesi “mercatista” ha un suo giusto fondamento: l’economia per crescere e prosperare ha necessità di un governo che governi il meno possibile. Pura ragionevolezza. Cioè ragione applicata.

Qui però, regolarmente, cade l’asino dei cosiddetti governanti che prima si proclamano liberali, dopo di che non si comportano come tali. Ad esempio Trump, che tra le altre cose, si dice abilissimo uomo d’affari (come tanti repubblicani storici, grandi frequentatori delle camere di commercio), ha imposto una misura ultrastalista come quella delle tariffe. Con le conseguenze del caso.

Ora il punto non è l’analfabetismo di Trump, che giustamente si deride. Ma quanto sia forte, a livello di motivazione, la sua volontà di potenza. Cioè di perserverare nel conflitto che si sta aprendo tra logica di potenza e logica di mercato (*)

Una battaglia tra ragione e antiragione.

Da un lato il sogno palesemente irrazionale di fare più grande l’America, che, economicamente e storicamente parlando è già grande di suo, sotto ogni aspetto, dai valori di libertà alle risorse naturali. 

Come? Uno, con il protezionismo vecchio stile, da paese sottosviluppato politicamente: autolesionismo puro. E, due, con la minaccia, oggi si direbbe in stile Putin, di ricorrere alla forza militare sul piano esterno, fino al punto di asservire le finalità economiche alle finalità di potenza. Nazionalismo e autarchia come ricompattanti. Roba da ex sergenti coloniali autonominatisi generali e padri della patria come nelle dittature anni Sessanta, allora diffusissime nel Terzo mondo.

Dall’altro assistiamo invece alla sana reazione dei mercati, che temono le barriere politiche, e reagiscono, in nome della ragione economica, spingendo operatori e consumatori verso i beni rifugio. Si preferisce tirare i remi in barca, aspettando che la bufera passi.

Una notazione personale. Proprio il giorno prima del “Liberation Day” trumpiano, un appartamento,  qui vicino, è stato acquistato per fax, come si diceva un tempo. Insomma a scatola chiusa. E da chi? Da un famiglia americana, ovviamente benestante e desiderosa di investire nel centro storico, per evitare probabilmente di assistere senza poter fare nulla (come capita quando un suicida si lancia dal decimo piano) alla ulteriore perdita del potere d’acquisto di un dollaro in  calo.

Certo, gli americani già da anni comprano case a Roma, ma la rapidità dell’ operazione immobiliare indica che forse non si tratta solo di “amatori” ma di reazioni economiche, sanamente ragionevoli, probabilmente su larga scala, di chi vuole evitare che la irragionevole logica di potenza di Trump, intacchi o azzeri i patrimoni privati.

Inoltre potrebbe anche essere un modo per prepararsi a votare con i piedi. Nel senso di “scavarsi” una via di fuga se la situazione politica americana dovesse precipitare sia economicamente che politicamente.

Sotto questo aspetto le prossime elezioni di Midterm (**) potrebbero rappresentare un’importante opportunità politica per contrastare Trump tornando, finalmente, ai canoni della democrazia liberale. In tal senso sono giunti segnali incoraggianti dalle recenti elezioni suppletive in Florida e dal tracollo di Musk, impegnatosi, tra l’altro in modo farsesco e scorretto, nella campagna elettorale contro un giudice progressista, candidato alla Corte Suprema del Wisconsin (***).

Ciò significa che, se la tendenza sarà confermata, le prossime elezioni di metà mandato, che si terranno nel novembre del 2026, potrebbero rappresentare un’opportunità politica per rendere la vita difficile a Trump.

Però, ecco riproporsi il dilemma del conflitto tra logica di potenza e logica di mercato. Quanto è forte la motivazione di Trump? Se si vuole, la sua volontà di potenza? Quanto è coesa la classe politica che gli si stringe intorno? I suoi elettori fino a che punto sono disposti a spingersi, anche in termini di rispetto della soglia di legalità? Insomma Trump sarà in grado di resistere alla controffensiva dei mercati? E ovviamente a quella politica del partito democratico, che però, a sua volta, deve tenere conto, evitando divisive ricadute populiste, della logica dei mercati?

La deriva autoritaria, per alcuni osservatori parafascista, è evidente: si minacciano i giudici, si ricattano gli avvocati e le università, si disprezzano le minoranze, si deportano migranti e immigrati, e così via.

Il quadro delle tradizionali libertà americane è a rischio. Messo in pericolo dagli ordini esecutivi di Trump e dalle minacce contro i giudici che osano impugnarli.

La situazione, per gravità, non ha precedenti. Trump, a differenza, per così dire della media dei presidenti americani, non ha alcun rispetto per la legalità e per il diritto. Non sembra proccuparsi neppure di salvare le apparenze. Pare animato da una inestinguibile sete di potere. E il cammino verso le elezioni di metà mandato del novembre 2026 è ancora lungo. Da un uomo del genere ci si può aspettare di tutto. Anche interventi non ortodossi sui meccanismi elettorali ben oltre le pratiche di “gerrymandering” (di ridisegnare per fini di parte i confini delle circoscrizioni elettorali).

Chi vincerà? Trump o i mercati? L’antiragione o la ragione?

Carlo Gambescia

(*) Si veda qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/04/prendere-sul-serio-trump.html .

(**) Sono elezioni che si tengono a due anni  di distanza da quelle presidenziali (si veda ad esempio qui sul 2018: https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Come_funziona_il_midterm_con_o_senza_Trump.html) . In occasione delle elezioni di Midterm o di metà mandato (presidenziale) si rinnovano tutti i seggi della Camera dei rappresentanti (435, con diritto di voto,  si resta in carica due anni), un terzo di quelli del Senato (33-34 su 100, si resta in carica sei anni ) e la maggior parte delle cariche esecutive dei singoli stati (a partire dai governatori, 36 su 50). 

(***) Si legga l’interessante commento di Anthony M. Quattrone: https://www.youtube.com/watch?v=P9EF0Y7TLSM&t=12s

 

venerdì 4 aprile 2025

Prendere sul serio Trump

 


Il Novecento, secolo del cinema, ha spesso deriso i dittatori: Hitler dai ridicoli baffetti, Mussolini in abiti circensi, Stalin un burocrate rivestito di lana grezza.

Si pensi alle reazioni nel mondo sui dazi. Al Trump liquidato come un matto, un folle, una specie di scemo del villaggio non più globale.

Si ride della capigliatura alla "Happy Days", eccetera, eccetera. In pratica Trump si pettina – così tra italiani ci capiamo – come Bobby Solo. Il soggetto si presta insomma.

In realtà, se follia c’è, c’è anche un metodo.

A differenza di altri analisti, comunque seri, e trascurando la folla dei tanti, troppi “ridicolizzatori”, crediamo che Trump sappia molto bene quello che vuole.

Si rifletta.

È un uomo d’affari, quindi abituato a ragionare, programmare, rischiare. È un uomo di televisione e spettacolo, quindi conosce le arti della retorica per conquistare il pubblico. È già stato presidente, quindi ormai conosce bene i meccanismi istituzionali e politici.

Inoltre se si leggono i suoi libri (meno di una ventina, alcuni scritti in collaborazione), che ruotano intorno agli affari, al golf e alla politica, si scopre che l’uomo ha una volontà di ferro. E che si è sempre preso ciò che voleva. E senza tanti complimenti. Si chiama coazione a ripetere. Trump odia il concetto stesso di legge. Detesta i giudici. Per lui lo stato di diritto è un macchina da smontare e rimontare secondo la bisogna.

Parleremmo di decisionismo programmatico pronto a spazzare qualsiasi ostacolo. Un decisionismo che Trump, da uomo d’affari e di spettacolo ha trasposto nei suoi libri politici, preparatori sul piano programmatico di campagne elettorali, via via di successo, che lo hanno portato alla Casa Bianca. E per due volte.

Scorriamo i titoli: The America We Deserve (2000); Time to Get Tough: Making America #1 Again (2011); Crippled America: How to Make America Great Again (2015), libro di duecento pagine, poi riedito con il titolo più ficcante di Great Again: How to Fix Our Crippled America (2016); Our Journey Together (2021), Save America (2024) due libri fotografici. Infine Letters to Trump (2023), comprende invece larghi brani tratti da scambi epistolari con personalità dello spettacolo, dell’economia e della politica, come Kim Jong, Richard Nixon, Ronald Reagan, Bill Clinton, la principessa Diana, Hillary Clinton, Mario Cuomo, Jay Leno, Liza Minnelli.

Leggendo si scopre l’ odio verso l’establishment politico liberal sprigionato ad esempio fin dal titolo di Great Again: How to Fix Our Crippled America.

“Crippled” sta per storpia, paralizzata, menomata, piena di debiti, decrepita, zoppa. Un’America da distruggere e ricostruire da capo.

Pertanto definire Trump un isolazionista è riduttivo. In Italia – ma anche in Europa – si è prestata scarsa attenzione alla venefica miscela di odio atavico, capacità di programmazione, anche in termini di organizzazione dell’entusiasmo, fluenti menzogne e decisionismo.

Siamo fuori dai principali filoni della politica estera americana (isolazionisti vs interventisti). Trump riscopre e rappresenta la logica di potenza allo stato puro. Siamo ben oltre “Teddy” Roosevelt.

Una cosa che non si vedeva in giro per il mondo dai tempi di Hitler, rispetto al quale la classe dirigente sovietica e russa, sembrava e sembra composta di dilettanti allo sbaraglio. Ovviamente i russi hanno le armi atomiche, cosa che ha anche l’Europa, però in minima parte. Il che spiega perché Trump sbeffeggia l’Europa e Zelensky e rispetta Putin. La logica di potenza ragiona solo in termini di potenza: o c’è o non c’è.

Inoltre logica di potenza significa che Trump in nome di una America più grande è pronto a distruggere ogni ostacolo che incontrerà sulla sua strada.

Trump, ripetiamo, non è un folle, nel senso di chi non sappia ciò che vuole per carenza di neuroni. E per capirlo basta leggere i suoi libri, in particolare quelli politici. Esiste un programma preciso, che precede addirittura Project 2025, il programma politico lanciato nel 2022 dalla Heritage Foundation, come sembra, apprezzato da Trump. Che però, ecco il punto, già aveva le idee chiare.

Pertanto crediamo sia Trump ad aver influenzato, anche sulla base degli ostacoli politici e istituzionali incontrati nel primo mandato, la Heritage Foundation e non viceversa. Per contro, andrebbe approfondito ideologicamente il rapporto fra Trump e Bannon, un autentico intellettuale reazionario (tra l’altro buon lettore di Evola), poche idee ma velenose, che, in termini di frequentazione, a quel che sembra quotidiana, può aver potenziato, al di là degli alti e bassi dell’ultimo decennio, l’odio di Trump verso la “Crippled America”.

Riteniamo che Bannon abbia giocato (e giochi) un ruolo più significativo di un saltimbanco come Musk, sopraggiunto negli ultimi tempi, che Trump sicuramente trattiene presso di sé per l’immensa ricchezza che il padrone di Tesla possiede. Altro interessante segno del realismo trumpiano. Ovviamente fino a quando reputerà Musk funzionale ai suoi disegni. Perché l’ altra caratteristica del decisionismo di Trump è di liberarsi immediatamente dei collaboratori inutili o scomodi, come del resto capitò a Bannon.

Quali sono i disegni di Trump? Per oggi limitiamoci alla politica estera.

Un passo indietro: la logica di potenza, come volontà di espandersi, senza dover rendere conto a nessuno, è difficile da spiegare, soprattutto nei dettagli, in quanto si articola attraverso mezzi, i più vari, piegati a un fine. Quale? Espandersi. Mezzi che quindi possono cambiare in continuazione.

Comunque sia Trump sta rafforzando le frontiere esterne più immediate (Groenlandia. Canada, eccetera) e i dazi protettivi sono una specie di assaggio dall'alto valore simbolico. Dopo di che girerà in modo definitivo le spalle all’Europa (i dazi, ripetiamo, sono un aperitivo). Uscirà dalla Nato (l’occasione potrebbe essere rappresentata dall’invasione americana della Groenlandia), per puntare su Pacifico e Cina.

Probabilmente Trump (che, nonostante l’età, già pensa a un terzo mandato, quindi otto anni in tutto) lavora  a una manovra a tenaglia che punta a colpire su due fianchi la Cina, in cooperazione con la Russia. La tempistica è difficile da quantificare. Trump, per dirla con Lasswell, è un decisionista “agitatore”, quindi imprevedibile nelle mosse, benché sappia bene ciò che vuole.

Trump, come provano i suoi libri politici, ha sempre considerato la Cina un infido nemico, da ridurre ai miti consigli di un terra di conquista.

Certo, messa così la nostra analisi del decisionismo trumpiano può sembrare roba da Bar Sport… E non a torto: perché definire in anticipo una politica, e per giunta passo dopo passo, può apparire frutto di improvvisazione o nella migliore delle ipotesi di fervida immaginazione. Può darsi. Nessuno è perfetto.

Tuttavia, e al di là dei particolari sui quali si può concordare o meno, riteniamo che gli Stati Uniti a differenza di quel che credono alcuni analisti, puntino a espandersi, non a ritirarsi, e in direzione della Cina.

Concludendo,  c’è poco da ridere. Bisogna prendere Trump sul serio. 

Una risata di sicuro non lo seppellirà.

Carlo Gambescia

giovedì 3 aprile 2025

Dazi. Donald Trump o dell’inesistenza dell’ uomo economico

 


Ieri abbiamo affrontato i dazi dal punto di vista metapolitico, oggi vorremmo discutere la questione sotto l’aspetto economico, in particolare quello dell’ inflazione.

In linea generale l’inflazione non è mai cosa positiva, soprattutto perché all’ incertezza connaturata ai mercati ( come risponderà il consumatore?) aggiunge l’incertezza dei prezzi (di quanto saliranno?). Ovviamente esistono indici e previsioni. Tuttavia, per una legge sociologica, che insegna che se un uomo ritiene un fenomeno reale allora lo diventa per davvero, l’inflazione può autoalimentarsi, per via psicologica, fino a provocare imprevedibili e rilevanti danni socio-economici.

Si pensi a una asticella dei prezzi, come nel salto in lungo, che viene alzata continuamente, senza però avvisare l’atleta produttore-consumatore che si prepara al salto. Non si sa mai cosa si troverà davanti al momento di spiccare il salto. Di qui i crescenti margini di incertezza di cui sopra.

Perciò, come nel caso di Trump, giocare con l’asticella dei prezzi, è un comportamento autodistruttivo. Trump, pur avendo un passato da uomo economico, una specie di Paperon de’ Paperoni, non ha saputo resistire al richiamo forestale della politica, che ha nel protezionismo una specie di antidiluviana clava che spesso i politici si danno sui piedi. Purtroppo, l’istinto politico, se non ben addomesticato, come saggiamente impone la ricetta liberale, finisce sempre per avere la meglio sulla ragione economica.

Perché non si deve mai giocare con l’inflazione? Per la semplice ragione che i dazi sono una tassa e perciò fanno crescere i prezzi. Per capirsi: se si impone una tassa su un bene, da chi verrà pagata? Dal consumatore. Perché il costo del dazio viene scaricato sul consumatore. Se un certo bene costa 20 dollari e su questo bene viene imposto un dazio che, come nel caso delle misure varate da Trump, parte dal 10 per cento (per giungere al 50 per cento), il prezzo finale salirà a 22 dollari (fino a 30 nel caso di dazi al 50 per cento).

Il che implica una inevitabile ascesa dei prezzi che non premia il produttore “nazionale”, che se godrà di un incremento, lo perderà a causa dall’inflazione. Mentre il consumatore sarà costretto ad acquistare prodotti interni comunque costosi, pagando pegno due volte:  sia a causa dell'inflazione, sia per  l' assenza di una concorrenza estera. 

Quanto alla tesi di Trump (“Il mondo ci sfrutta”), rivolta a giustificare i dazi, sorge una seria questione interpretativa. Si rifletta sui seguenti punti: 

1) Se finora alcuni paesi hanno imposto tariffe più alte su determinati prodotti, gli Stati Uniti, a loro volta, hanno applicato dazi elevati su altre specie di beni. Per capirsi se l’Unione Europea ha storicamente imposto dazi più alti su automobili americane, gli USA ne hanno imposti di elevati sui prodotti agricoli europei; 

2) In alcuni paesi come come la Cina si sono applicate tariffe elevate proprio in risposta ai dazi imposti da Trump, come accaduto durante il primo mandato, nel corso della guerra commerciale 2018-2019, con conseguenze negative per tutti; 

3) In base ai dati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), le tariffe medie imposte dagli Stati Uniti sui beni importati sono relativamente basse rispetto alla media globale, ma ci sono eccezioni in settori specifici, come ad esempio i prodotti agricoli. Ma anche per acciaio e alluminio. Per dire una banalità, l’odiatissimo Canada imponeva alte tariffe sui latticini americani, ma gli USA, per la serie scagli la prima pietra, facevano la stessa cosa su alcuni prodotti canadesi; 

4) Infine le  nuove  tariffe sono state calcolate in base al modo in cui ogni paese tassa i beni americani. La Casa Bianca ha calcolato quel che altri paesi hanno addebitato sulle merci statunitensi utilizzando non solo  i dazi, ma anche “barriere non monetarie e altre forme di imbroglio”, che in realtà  rinviano a necessari regolamenti  di tipo sanitario o di altro genere, quindi si tratta misure indirette.  E non è corretto da parte di Trump includerle nel computo generale (*).

Si dirà che l'Europa, ad esempio, potrebbe rispondere azzerando i propri  dazi. Diciamo porgendo l'altra guancia. Spingendo così gli Stati Uniti a fare altrettanto. Purtroppo, l'altra guancia - come per l'idea pacifista di abolire la guerra  -  non viene mai porta da tutti e soprattutto alla stessa ora.  La mamma dei prepotenti, come quella degli imbecilli, è sempre incinta.  Insomma,  non c'è alcuna certezza che Trump rinunci a sua  volta a usare la pistola dei dazi.  Chi rinuncia spontaneamente al potere?  In 5000 anni vi ha rinunciato  un solo "Signore" nato a Betlemme.  Quindi si  eviti di dire stupidaggini anarco-libertarie.

Il quadro insomma non è quello della congiura contro gli Stati Uniti, dipinto da Trump. Il magnate drammatizza per implementare una politica protezionistica, frutto venefico di una visione ideologica che sul piano economico ha molti punti in comune con la politica autarchica dei fascismi.

Tutto questo, come detto, farà più male che bene al mercato mondiale, e, cosa più grave, ne farà di più grande ancora all’economia americana, perché penalizzerà soprattutto i consumatori.

Se la cosa non fosse così grave, la politica protezionista di Trump, potrebbe rappresentare un ottimo caso di studio per stabilire una volta per sempre che purtroppo la politica, se si vuole le passioni, hanno sempre la meglio sull’economia, gli interessi.

Come scrivevano ieri, magari esistesse veramente l’Homo oeconomicus, il mondo funzionerebbe come un orologio.

Ma non è così.

Carlo Gambescia 

 

(*) Sul punto specifico qui: https://www.investopedia.com/how-much-reciprocal-tariff-will-be-for-each-country-trump-trade-11708072?utm_source=chatgpt.com

mercoledì 2 aprile 2025

Dazi. L’altra faccia della guerra

 


Cosa pensano i pacifisti dei dazi? Per ora tacciono. Eppure i famigerati dazi di Trump, annunciati per oggi, sono l’altra faccia della guerra. Dimenticavamo, adesso si parla di “tariffe”. Ma se non è zuppa è pan bagnato.

Il giro del nostro ragionamento è lungo. Ma merita.

Intanto va sottolineato che negli ultimi ottant’anni, dopo trent’anni di guerre e frontiere chiuse, si è fatto il possibile, riuscendovi in larga parte, per favorire la libera circolazione di uomini e merci. Fino all’inizio degli anni Dieci del nostro secolo, grazie all’illuminato pensiero di Obama, si è perseguita la grande idea di creare un’area di libero scambio, transatlantica, tra Europa e Stati Uniti (*).

Dopo di che, con il primo mandato di Trump e i tentennamenti di Biden, l’idea è finita in soffitta. Di più: il magnate americano, una volta tornato al potere, ha addirittura dichiarato guerra economica all’Europa.

E qui veniamo a un punto particolarmente interessante, spesso ignorato: il protezionismo non è l’altra faccia del capitalismo, ma il suo nemico principale. Il protezionismo, come vedremo, è l’altra faccia della guerra.

Intanto va sottolineato un aspetto importante. Che dal punto di vista della mentalità culturale la chiusura delle frontiere, o comunque la limitazione delle merci estere, elimina il rischio imprenditoriale che è fonte di profitti.

Cioè parliamo di un rischio capace di generare un flusso di redditi che – lo ammettiamo – può essere incostante. Però senza profitti, se si vuole senza alti e bassi, il capitalismo vegeta, protetto in una specie di serra calda ma dall’aria viziata.

Il capitalismo si fa parassitario perché si lega alle rendite, cioè a un flusso di reddito costante, assicurato però da prezzi artificialmente tenuti alti dalle barriere economiche all’ingresso. Di conseguenza, a perdere la “guerra” economica è il consumatore penalizzato da prezzi più alti per acquistare beni di mediocre qualità, perchè non c’è reale concorrenza economica. A vincere invece sono i produttori nazionali protetti dallo stato, che, al riparo dalle merci straniere, non rischiano assolutamente nulla.

Ci limitiamo, tra i tanti, solo a questi due aspetti economici perché quel che desideriamo sottolineare è il cambio di mentalità culturale legato alla sostituzione dell’imprenditore che rischia con l’ imprenditore parassita.

Sembra incredibile. Si scatena una guerra economica, frutto di un meccanismo a spirale (ai dazi si risponde con altri dazi e così via), che non aumenta la qualità della vita. Anzi la peggiora. Il colmo dell’imbecillità.

Un meccanismo che come prova la storia della prima metà del Novecento favorisce conflitti e guerre. Si badi bene: dietro il protezionismo si nasconde il nazionalismo: il pessimo e stupido gusto di piantare bandierine, a prescindere dal ritorno economico. Cosa molto diversa dall’ottocentesco spirito di nazionalità, oggi difeso in Ucraina dagli artigli dell’imperialismo russo in antieconomico stile  "Terza Roma". Che dire? Magari esistesse veramente il cosiddetto Homo oeconomicus.

La questione dell’imperialismo riporta alla domanda iniziale. Per quale ragione i pacifisti non protestano contro la guerra economica? Perché di regola sono anticapitalisti, in blocco diciamo, e non distinguono tra capitalismo buono (profitti) e capitalismo cattivo (rendite). E soprattutto non intuiscono il nesso tra capitalismo cattivo e guerre. Detto altrimenti: il famigerato imperialismo che avvelenò la vita politica internazionale dalla fine dell’Ottocento fu il prodotto di un velenoso combinato disposto tra nazionalismo e protezionismo.

Il pacifista è contro le guerre ma anche contro il capitalismo, che condanna in blocco come guerrafondaio e imperialista. Il che però spiega l’incongruenza, tipica di certo pacifismo, soprattutto di sinistra (ma anche "rossobruno"), che definisce Trump un liberista selvaggio, glissando, più o meno consapevolmente, sul suo protezionismo.

Trump, in realtà, per parafrasare una vecchia formula marxista, è per il liberismo in un solo paese. Nel senso che, senza tanti complimenti, mette insieme tre fattori: capitalismo parassitario, meno stato all’interno e più stato all’esterno.

Di conseguenza il capitalismo trumpiano è un capitalismo assistito che vuole vivere di rendita e che teme il confronto esterno su un piano di parità, tipico invece del libero scambio. Ma non teme, visto che ne ha i mezzi, il confronto sul piano militare. Trump non dichiara forse ai quattro venti di essere sempre "pronto a  tutto"?  

E qui torniamo al disgraziato imperialismo di fine Ottocento: un venefico mix di nazionalismo e protezionismo che portò a due guerre rovinose.

Dopo di che, come detto, tornarono la pace e il capitalismo del rischio e dei profitti. Per ottant’anni.

E ora un imbecille, votato da altri imbecilli, che ne pagheranno le conseguenze, vuole ricominciare da capo.

Così è.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2014/05/il-libro-della-settimana-italico.html .

martedì 1 aprile 2025

Trump e Le Pen. La neolingua della destra

 


L’impressione è che non ci sia più nulla da fare. La destra dilaga. Erompe nei cervelli. La neolingua, per dirla con Orwell, è un fiume in piena.

Esageriamo? Si rifletta.

Come non essere pessimisti quando negli Stati Uniti il giorno dell’introduzione dei famigerati dazi viene celebrato da Trump come “Giorno della liberazione”? Quando invece è cosa acclarata, almeno da alcuni secoli, che il protezionismo ingabbia e impoverisce i popoli? E nessuno contesta? O comunque non fino a punto di denunciare Trump come una specie di Grande Fratello orwelliano? (*) .

Come non essere pessimisti quando la sacrosanta condanna per appropriazione indebita di Marine Le Pen viene dipinta come un complotto? (*). E rischia di tramutarsi in una specie di medaglia da appuntarsi sul petto? Perché nessuno ha il coraggio di dire che è pienamente meritata? O peggio ancora si beatifica Marine Le Pen, quasi una nuova Giovanna D’Arco, secondo il dettato di una neolingua morale dal sapore orwelliano?

E potremmo continuare a lungo. Perché, come in 1984, nel corrotto neo-mondo della destra «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza»…

Quando l’indistinzione tra verità e menzogna, come insegna la Arendt, e prima di lei George Orwell, diventa la regola, opporsi ai mentitori sistematici diventa difficile se non impossibile.

Dal punto di vista metapolitico della transizione da un regime politico all’altro ci troviamo nel preciso momento in cui la neolingua della destra si va consolidando, grazie a una propaganda che fa presa su un elettorato, impoverito mentalmente dai social e dal declino della cultura del libro. Parliamo di individui che a fatica riescono a concentrarsi per più di un minuto su un concetto o un’idea.

Se ci si passa la battuta, forse poco in sintonia con la gravità della situazione, viviamo nel tempo del cretino dalla risposta veloce.

Del resto come spiegare che una destra, dal torbido passato politico, come in Italia, Francia, Germania, mente sapendo di mentire? Si gioca sul risentimento, sull’odio politico, sul colpo su colpo, sul tanto peggio tanto meglio. Non si assisteva a uno spettacolo del genere dagli anni Venti e Trenta del Novecento: gli anni della guerra civile europea per dirla con Nolte.

Ieri, proprio qui a Roma, un incendio ha distrutto 17 veicoli Tesla presso una concessionaria. Elon Musk ha subito dipinto l’incidente come un atto di terrorismo. Il fatto, a dire il vero, si inserisce in un contesto più largo di atti vandalici e incendi contro Tesla in Europa e negli Stati Uniti.

Però, ecco il punto, si glissa sul pubblico sostegno di Musk ai movimenti politici razzisti, all’ uso di un linguaggio violento, addirittura al saluto fascista, che però, come si legge, non sarebbe tale, perché il mignolino della mano di Musk era rivolto verso il basso… Ridicolo, eppure…

Cioè qual è la questione? Che questa destra, che si dice perseguitata quando invece ad esempio  è al potere negli Stati Uniti e in Italia, riesce a tirare fuori il peggio dagli avversari, alimentando, la destra per prima, una spirale di odio che distrugge il discorso pubblico liberale. Detta alla buona: hanno cominciato “loro”. E chi semina vento raccoglie tempesta.

Il problema però è che la tempesta porta voti. Come contrastare questa destra, che per dirla alla buona, lancia il sasso per nascondere subito la mano? In Italia ne sappiamo qualcosa, perché Giorgia Meloni conosce questa tecnica a memoria. Si atteggia a vittima, poi però gli avversari politici sono spiati dai servizi segreti (***).

Non è facile, forse addirittura impossibile, replicare al subdolo vittimismo politico, perché, l’argomento liberal-democratico, ad esempio la libertà di pensiero, viene usato contro la liberal-democrazia. Cioè lo si impiega per demolirla. Perché, come prova quando sta accadendo negli Stati Uniti, la liberal-democrazia è sotto attacco. La si vuole smantellare. Il fiume in piena di una neoverità politica tentata dal fascismo sta travolgendo ogni cosa.

Ecco perché la condanna di Marine Le Pen, nemica della democrazia, viene dipinta dalla neolingua come un attentato alla democrazia. E purtroppo, come dicevamo,  un elettore che non riesce a concentrarsi per più di un minuto vi crede.

Una tragedia politica. Anzi metapolitica.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://edition.cnn.com/2025/03/31/business/liberation-day-announcement-trump/index.html .

(**) Qui: https://www.lefigaro.fr/actualite-france/proces-du-fn-marine-le-pen-condamnee-a-une-peine-d-ineligibilite-avec-execution-immediate-20250331 .

(***) Qui: https://www.lastampa.it/politica/2025/03/20/news/il_report_su_paragon_in_italia_si_spiano_i_nemici_del_governo-15062223/ .

lunedì 31 marzo 2025

Riarmo. L’Europa deve fare da sola. E in fretta

 


Diceva Julien Freund che nelle alleanze il nemico è sempre indicato dall’alleato più forte. Il che spiega perché questa mattina i titoli dei giornali, non solo italiani, sono appesi al filo, per così dire, del “sono molto arrabbiato con Putin” di Trump.

Si spera che il magnate, che usa comportarsi come un gangster politico, torni fra noi e ci difenda da Mosca. Che invece, per dirne una, non perde di tempo: è di ieri la “visita” di un drone russo sul Lago Maggiore, sede di un centro hight tech, in previsione di futuri scenari di guerra: leggasi, bombardamenti a tappeto.

Quest’ultima notizia è stata prontamente occultata nelle sue catastrofiche conseguenze militari a quel 94 per cento di italiani che, come riferisce un sondaggio, non vuol sentir parlare di guerra. Si demanda agli Stati Uniti. Molto più comodo. Ieri sera la tv di stato ha spiegato che si tratta di normalissimo spionaggio industriale. Cose che capitano. Magari.

Invece Trump, sì che farà da solo. Non ha alcuna voglia di indicare il nemico all’Europa e all’Italia perché già si ritiene fuori dalla Nato. Ha altri impegni e motivazioni. Deve concentrarsi militarmente sulla Groenlandia. Un’operazione militare che una volta condotta a termine sarà presentata al  suo paranoico  elettorato come un grande successo Maga. Dopo di che toccherà al Canada.

Tra l’altro, come da noi previsto, Trump ha iniziato a parlare di un terzo mandato (*). Non si sorrida ma i repubblicani Stati Uniti rischiano l’ascesa di una monarchia dinastica in scala Trump. E di un conseguente sommovimento generale non meno serio di quello che portò alla guerra di secessione. Ma di questo parleremo un’altra volta.

Pertanto, dazi o meno (poi, perché parlare di dazi, quando basterebbe appesantire le vigenti sanzioni economiche ?), Trump troverà un accordo con Putin sulla pelle dell’Ucraina. Ripetiamo, i suoi obiettivi immediati sono altri. Ne possiamo individuare almeno due: a) rafforzamendo dei confini per il momento a Nord (Canada e Groenlandia); b) progressiva instaurazione di un’ egemonia politica, economica e militare, in associazione con Israele e monarchia Saudita, sul Medio Oriente. Prossimo obiettivo: Iran.

Il simile va al simile. Dispiace dirlo ma l’Israele di Netanyahu, ora collocato all'estrema destra e dal bombardamento facile, sembra aver trovato negli Stati Uniti di Trump, altrettanto estremisti e dalla pistola  facile, il gemello separato alla nascita.

L’Europa, non è nei programmi di Trump. È sola. Di qui la necessità di quel rafforzamento militare, indispensabile, per evitare di finire nelle fauci della Russia. Espertissina in strategie di logoramento e di guerre convenzionali (al di là della minacce, puramente teoriche, sull'uso di armamenti non convenzionali). Per inciso, intorno ai caduti in Russia si erge un apparato simbolico-assistenziale di un'importanza pari a quello nazista e fascista. Sicché le famiglie dei caduti si stringono ancora di più intorno al regime.

La Russia è  animata da una specie di brutale protervia. I suoi obiettivi principali,  dopo aver recuperato l’Ucraina, restano, di passo ferrato in passo ferrato, Baltico, Adriatico e tutto ciò che potrà prendersi. Sotto questo aspetto vediamo possibili frizioni con Trump sull’Iran. Ma non è detto.

In questo contesto gli unici a vedere lungo sono Starmer e Macron. E forse i tedeschi, nonché tutti gli stati come Svezia, Finlandia, Polonia, Romania a portata di artiglio russo. Costretti a fare di necessità virtù.

Chi non ama la pace? Il riarmo significa fare di necessità virtù: lo si spieghi a quel 94 per certo. Capiranno? Ne dubitiamo. Però un giorno ringrazieranno.

Quanto alla questione cinese, l’Europa libera deve contare non tanto sull’alleanza con Pechino , quanto sulla storica diffidenza cinese verso le potenze straniere fattore centrifugo nella storia moderna cinese. Di più non può pretendere.

Del resto non potendo impegnarsi su due fronti, proprio per favorire la sua stabilità centripeta, la Cina continuerà a non sbilanciarsi. Il che è bene per l’Europa. Tuttavia la neutralità, cinese (con qualche aiuto sotto banco alla Russia), rischia di favorire l’allargamento di Mosca verso Occidente. Il che è male.

Quale può essere la risposta europea al neutralismo cinese? Una sola: riarmarsi.

Infine le destre nazionaliste che evocano la pace e deridono Macron, Starmer e l’Europa del “vorrei ma non posso” hanno un brutto precedente. Si comportano – quando si dice il caso – come i “collabo”, non solo francesi, che da ultranazionalisti si tramutarono in viscidi servitori di Hitler. Con una differenza che a Trump dell’Europa non importa nulla. Pertanto Fratelli d’Italia rischia di trasformarsi in Fratelli di Russia.

L’Europa deve fare da sola. Ne ha la forza economica. E in fretta.

Un’ ultima cosa, un’ anima bella si interrogava su come spiegare oggi a un ragazzo di vent’anni, cresciuto a pane e pacifismo, che qualche volta si deve fare la guerra.

La domanda è posta in modo sbagliato. Perché qui non si tratta di spiegare ma di sopravvivere.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/03/trump-e-i-nazisti-dellillinois.html. E qui: https://edition.cnn.com/2025/03/30/politics/trump-third-term-methods/index.html .

domenica 30 marzo 2025

“L’unità dell’Occidente” secondo Giorgia Meloni

 


Come battutista Giorgia Meloni è brava. Però al tempo stesso è abilissima nell’alterare il significato delle parole. Anche qui è prima della classe.

Due esempi, proprio di ieri.

La battuta. La sinistra auspica “che l’Europa diventi una grande comunità hippie demilitarizzata che spera nella buona fede delle altre potenze straniere”.

Alterazione di significato. “Qualcuno ha detto ‘è scandaloso’, che voglio stare con Trump. Non so cosa abbiano letto ma io ho detto una cosa diversa, che sto sempre con l’Italia, che sta con l’Europa, e che il ruolo dell’Italia deve essere quello di lavorare per rafforzare e difendere l’unità dell’Occidente, un bene molto prezioso” (*).

Uno. Che la sinistra pacifista proietti i suoi desideri su una realtà che è tutto eccetto che pacifista è verissimo. La battuta coglie nel segno. La sinistra è così. Non tutta magari. Diciamo in larga parte.

Due, e qui Giorgia Meloni mistifica. L’ idea di Occidente di Trump non è quella di Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, i due Bush, Clinton, Obama, Biden. Attenzione, presi in blocco. C'è la svolta.

Infatti per  Trump non esiste alcun Occidente, né come comunità liberale e inclusiva, né come comunità transatlantica, e neppure come comunità d'affari. Trump vede solo nemici  e sottoposti.  Va addirittura oltre il tradizionale isolazionismo. Rispetta, se gli conviene, solo le canaglie come lui (trattamento Musk docet). Chi non obbedisce ai suoi ordini non è degno neppure di essere ricevuto e ascoltato ( trattamento  Zelensky docet).  Pertanto dichiarare di voler rafforzare l’Occidente lavorando con Trump è come dichiarare di voler lavorare con Hitler per combattere l’antisemitismo.

Ma “quale bene prezioso”… Il “nome”, Occidente, è quello, ma la “cosa”, calpestata da Trump, è un’altra. In questo modo però Giorgia Meloni può allinearsi, zitta zitta per così dire, alla brutale politica di Trump: una specie di boss, tra il politico e il criminale, che capisce solo l’uso della forza e dei “contratti” con la pistola puntata alla testa, tipo “proposta” che non si può rifutare.

Giorgia Meloni mistifica e in modo sfrontato. Eppure le credono. A cominciare dalla Von der Leyen. Che, in questo modo, spera di poter cooptare la Meloni nel risiko politico europeo. Un gioco di società in cui il vecchio centro del partito popolare si prepara ad aprire alla destra, ma non in tutte le sue espressioni. Si vuole “usare” Fratelli d’Italia, e di rimbalzo ECR, come scudo per contenere la destra più pericolosa, si dice, dei “Patrioti per l’Europa”. In realtà l’unica reale differenza tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni è il quoziente di intelligenza: decisamente più alto quello della leader di Fratelli d’Italia.

Il vero problema è l’assegno in bianco politico emesso in suo favore. I moderati, o presunti tali (si pensi alla malinconica ma meritata fine di Forza Italia), anche questa volta sono caduti nell’inganno di poter recuperare al sistema liberale destre, come quella meloniana, che liberali non sono
 

In Italia c’è addirittura chi confida nella capacità melonina, largamente sopravvalutata, di ammansire Trump.

Ci si fida di una mistificatrice politica. Grave errore. Che può costare carissimo all’Italia e all’Europa. Perché Trump, per carattere (brutale e prepotente), temperamento (agitatorio), forza (militare e politica), ascolta solo se stesso. Il potere di Giorgia Meloni è pari a zero. 

Al massimo può fare la figura del classico parente povero, invitato, per errore,  alla festa organizzata dal parente ricco: si guarda intorno, ride continuamente, dice sempre di sì, felice del suo mezzo minuto di gloria alla tavola dei ricchi. Per una serie, non televisiva, che però i fascisti italiani da perfette canaglie conoscono molto bene, “Deboli con i forti, forti con i deboli”. Quindi meglio stare con i più forti. Per comandare almeno un po'.

Chi non ricorda il  "Che alleato forte ci siamo  scelti", a proposito di Hitler, del marito fascista della Loren, in "Una giornata particolare"?  Non sono mai cambiati.

In questi giorni si cita molto Hannah Arendt, grandissima pensatrice, che ogni tanto si tira fuori dalla naftalina dell’accademia. L’ultima volta quando impazzava Berlusconi. La si cita anche giustamente a proposito del rapporto tra verità e menzogna. Soprattutto in relazione alla politica gridata delle fake news. La Arendt, scomparsa nel 1975, sostiene che un popolo che confonde verità e menzogna, rischia la libertà. Scorge un processo di progressivo estraniamento dell’individuo da se stesso e dalla realtà che può condurre addirittura al totalitarismo.

Se le cose stanno così, diciamo pure che Giorgia Meloni non aiuta.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/meloni-congresso-azione-calenda-difesa-ue-dazi-cosa-ha-detto_3X8E8s20hual3tJSdBgVmB .