Gli storici delle idee fanno risalire la critica al liberalismo, e in particolare ai suoi presunti contenuti dittatoriali, al pensiero controrivoluzionario dell’Ottocento, fiorito durante e dopo la Rivoluzione francese. Allora i termini totalitario e totalitarismo ancora non erano conosciuti sul piano politico.
Augusto Del Noce, acutissimo filosofo, sostenne, in modo documentato, che molte delle critiche del pensiero reazionario, critiche che vagheggiavano il ritorno all’ antico regime, furono recepite pari pari dal pensiero rivoluzionario, in particolare da Marx e in seguito da alcuni epigoni, sviatisi, come Sorel.
Se per Joseph de Maistre, il liberalismo era frutto del cupo demonio libertino, per Marx era figlio del geniale satana borghese. Semplifichiamo. Ovviamente per aiutare il lettore a capire meglio.
In realtà, il liberalismo, mescolandosi sempre più alla democrazia, apportò progresso, benessere, pace, grazie anche allo sviluppo della società di mercato (“capitalistica”, per i suoi nemici).
Nonostante ciò, i suoi nemici, a destra e sinistra, continuarono a proclamare la totale falsità delle libertà borghesi, politiche, economiche e civili.
Negli anni Cinquanta (ma in parte anche prima), dopo la Seconda guerra mondiale che aveva sancito, almeno sul campo, la sconfitta dei nemici a destra del liberalismo (fascisti e nazionalsocialisti), si diffuse, in particolare a sinistra (ma non solo, Del Noce parlò in seguito, questa volta a sproposito del consumismo come di una fase profana del totalitarismo), l’idea che fascismo e liberalismo non fossero che i due volti del totalitarismo borghese. Quindi alla prossima fermata dell’autobus della storia si doveva scaraventare fuori il passeggero liberale.
Di conseguenza, durante e dopo il Sessantotto, grande momento di trasformazione culturale che però accanto al lato libertario ne affiancò un altro decisamente rivoluzionario e terroristico, si contestarono, anche in modo violento, le inutili e pericolose libertà borghesi. Era una menzogna, ma in pochi ( e inascoltati) se ne accorsero.
Già prima del Sessantotto erano fioriti sul piano intellettuale numerosi studi ( si pensi, ovviamente a un livello molto alto, alla Scuola di Francoforte), che dottamente o meno, sottolineavano i presunti aspetti totalitari della società occidentale, che, prigioniera del consumismo e di un falso benessere, opprimeva gli uomini, tramutandoli in automi economici.
Nei decenni successivi, sulla scia dell’antieconomicismo, si saldò di nuovo un’alleanza, ovviamente non di tipo politico diretto, tra la critica di destra e di sinistra alla società liberal-democratica. In Francia e in Italia, si pensi al ruolo di Toni Negri, ma anche alla aperture di Alain de Benoist nei riguardi di Costanzo Preve (e viceversa), la sinistra anticapitalista ritornava all’irrazionalismo moralistico di Georges Sorel, pensatore dei primi del Novecento, che alimentò, con i suoi scritti – Mussolini per primo ne riconobbe il debito – quel catastrofico marasma intellettuale che fu il fascismo.
Insomma, alla base di questo comune e rinnovato attacco al liberalismo, si può ritrovare una specie di anticapitalismo etico, anzi moralistico, giustizialista. Si tratta di una pericolosa eredità oggi raccolta dai movimenti ecologisti. Sotto questo profilo il cammino politico di un Serge Latouche, dal comunismo all’ecologia profonda, resta esemplare. L’ecologismo, in particolare nelle sue forme più estreme, tra l’altro oggi abbastanza diffuse, rappresenta una specie di continuazione dell’antiliberalismo ottocentesco, in nome non più del ritorno alla società di antico regime o del trionfo del comunismo, ma della salvezza della Terra.
Non va dimenticato che accanto all’anticapitalismo si è sviluppato un robusto statalismo, frutto di un atto di fede nel ruolo dello stato come grande giustiziere antiborghese, antiliberale, anticapitalista. Lo stesso liberalismo, cedendo ai suoi nemici e ammettendo colpe inesistenti, si è adeguato favorendo l’edificazione nel XX secolo dello stato assistenziale. Sotto questo profilo il welfare state non è altro che il frutto velenoso di un gigantesco e immotivato senso di colpa.
L’aspetto inquietante è che coloro che accusano il liberalismo di essere totalitario, poi si affidano all’opera allo stato, che invece nei suoi sviluppi totalitario lo è davvero. Per non parlare dell’ inevitabile e odiosa simpatia dei nemici del liberalismo per le dittature nemiche dell’Occidente.
Insomma, oggi, si assiste al paradosso di una società che gode di una meravigliosa libertà priva di precedenti storici, costretta ad arrancare sulla difensiva dai nemici della libertà che la accusano di essere totalitaria.
Si tratta di una vera e propria dinamica autodistruttiva: più la società liberale cede alla critiche, più si affida al welfare state, più rischia di tramutarsi in una società totalitaria, dando così ragione ai suoi nemici.
In realtà il welfarismo non è un prodotto del liberalismo, ma di un inutile mea culpa che dà vilmente ragione alle correnti politiche, a destra e sinistra, che criticano il totalitarismo di una società che invece non è totalitaria.
La casa brucia. E noi assistiamo impotenti a un rogo sempre più devastante.
Una tragedia politica.
Carlo Gambescia
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