“Let Them All Talk” (“Lasciali parlare”), passato ieri sera come una meteora su Rai 3, è una pellicola diretta da Steven Soderbergh che, come ogni buon film, fa pensare, anche dopo che si sono accese le luci in sala (o nel più borghese salotto).
Al di là della trama ( la scrittrice famosa, in crisi, che ha perso, amici, ispirazione, affetti), fa riflettere su due aspetti: il rapporto tra scrittura e vita (non solo personale), e tra letteratura e scienze sociali.
Primo aspetto. Lo scrittore o è un “divo” da milioni di copie, e quindi vive secondo la categoria “star”, o non è un divo, e pur vivendo del “mestiere” ( antico come l’altro ma meno remunerativo), ha problemi a rapportarsi con gli altri. A causa della famosa parola in più. Che sconcerta la naturale mediocrità delle persone comuni. Che non sapendo come replicare, sviluppano strategie difensive (“Chi è questo, che vuole, non l’ho mai visto in Tv”, solo per indicarne una). Si è giudicati, anche dopo una sola battuta. Fine del discorso.
Sotto il profilo del riconoscimento sociale (lo si chiami pure "successo") la vita della non star è difficile. Perché mentre si pende dalle labbra dello scrittore-star, non si accetta che lo “sconosciuto” ne sappia di più della gente comune. Quindi la vita personale degli scrittori non star è complicata. Perché c’è un problema di frustrata deferenza sociale, che non può non pesare sull’equilibrio interiore. Non facile da conservare sotto il peso del disconoscimento sociale.
Insomma per scrivere occorre una motivazione fortissima. Soprattutto nel senso di scrivere per se stessi, senza pensare troppo alla ricaduta sociale in termini di fama e ricchezza. Serve una volontà di ferro. Si chiama anche autodisciplina. Inoltre non tutti riescono ad accettare l'aspra vita eremitica della scrittura. Se poi invece di romanzi si scrivono saggi il perseguimento dell' equilibrio interiore, se non si hanno salde motivazioni, rischia di allontanarsi ancora di più. Il saggista è una specie di minatore in cerca di vene d'oro che raramente si trovano.
L’altro aspetto è quello del rapporto tra romanzo e scienze sociali. Durante una conferenza, l’impeccabile Meryl Streep, soprattutto nel rendere l’apparente stitichezza sentimentale della protagonista (la scrittrice Alice Hughes), evoca una sconosciuta letterata inglese dell’Ottocento, che però a suo avviso, pur pubblicando un solo romanzo, “riuscì a parlare all’anima del lettore” (così almeno ricordiamo).
L’anima è qualcosa di impercettibile, di profondo, di sconosciuto, che dal punto vista dello studioso di scienze sociali, rimanda a una imperfezione sociologicamente costitutiva: il non concedersi mai del tutto agli altri, e prima ancora a se stessi.
Si accetta il vivere sociale ma sempre con una riserva psicologica e morale. L’uomo non è mai del tutto sociale, ma neppure del tutto individuo separato dagli altri. E questo spazio interstiziale tra individuo e società è occupato dall’anima.
Per fare un esempio: essere padri – un preciso status e ruolo – e al tempo stesso rifiutare di esserlo. Un sentirsi diviso, dilaniato, dimidiato (per dirla coltamente) che riguarda tutti gli status (“cosa si è”) e i ruoli sociali ( “cosa si aspettano gli altri da noi”): un contrasto che ritroviamo nel professore, nel politico, nello scienziato, nell’artista. Ma anche nel maestro, nell’impiegato, nel prete, nello studente, e così via.
L’esperienza individuale del tormento fa delle persone ciò che sono. E soprattutto ciò che dicono: due fatti socialmente rilevanti. Per se stessi e per gli altri. Di conseguenza, come recita il titolo del film: “Lasciali parlare”. Per poi scrivere di loro. Dei loro errori, mai però tralasciando i propri.
E quando la letteratura, come dice la Streep-Hughes, riesce a far questo, cioè a parlare “all’anima del lettore”, va a colmare, magari solo per un momento, questo spazio sociologico, sospeso, interstiziale, che, ripetiamo, non è altro che l’anima delle persone.
Grazie alla buona letteratura le persone si riconoscono per quello che sono. Non sempre lo scrittore riesce e il lettore capisce. Ma vale la pena di tentare. Lezione valida anche per il sociologo e lo studioso di metapolitica.
Un buon film. Forse i lettori, dopo averlo visto, penseranno che Gambescia si è inventato a sua volta un’ altra pellicola. Forse. Perché, ripetiamo, un buon film, nella sua essenza (cioè in quel che vi è dentro e che non muta, anche a prescindere dalla trama), offre sempre degli eccellenti punti partenza per riflettere, magari andando oltre le stesse intenzioni del regista e degli autori.
Carlo Gambescia
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