Sinistra al caviale?
Non proprio…
Chiediamo scusa agli
amici che questa mattina attendevano un nostro post
sull’elezione di Napolitano e sui possibili sviluppi. Affronteremo l’argomento
nei prossimi giorni.
Oggi invece
preferiamo segnalare e commentare una (apparentemente) soprendente
dichiarazione di Lidia Ravera, colta al volo in
un’intervista rilasciata a “Nuovo Paese Sera” dalla “ titolare della cultura
dell’era Zingaretti” (http://www.paesesera.it/Politica/Cultura-la-neo-assessora-Ravera-Basta-con-i-carrozzoni-Il-festival-del-cinema-Si-pensi-a-una-fase-transitoria ):
Ho rinunciato alla
mia libertà e alla mia vita da privilegiata per impegnarmi alla Regione Lazio,
perché per 5 anni voglio provarci. Bisogna invertire questa tendenza
vergognosa. Il mio è un grande sacrificio: il primo maggio di ogni anno parto
per Stromboli e ci rimango fino alla fine di ottobre, da dove produco reddito
seduta sul mio terrazzo. Se ho rinunciato a tutto questo deve valerne la pena.
Sarebbe facile,
piegandosi al mainstream
dei piagnoni anticasta di destra, ironizzare sulla sinistra
intelllettuale al caviale che pretende di sacrificarsi rinunciando a un
bel tramonto sul mare di Stromboli, mentre digita
l’ennesimo ego-romanzetto, sul cui effettivo ritorno
economico nutriamo qualche dubbio.
In realtà,
la stupefacente affermazione della Ravera, almeno agli
occhi del sociologo, non è poi così sorprendente. Perché rinvia a un fattore
sociologicamente costitutivo: quello professionale. Ci spieghiamo
meglio.
L’intellettuale,
soprattutto se letterato in senso stretto - e non importa se di destra o
sinistra - vive da intellettuale… immerso se non del tutto
perduto tra le idee, confrontandosi esclusivamente con altri
intellettuali solo e sempre sul valore delle idee…
Insomma, la professione, anche se la conclusione può
apparire banale, plasma l'uomo. Certo, in "natura
sociale", esistono le eccezioni. Che tuttavia,
come si usa dire, fanno la regola.
Un avvocato,
conoscendo per "mestiere" di quale pasta sono
fatti gli uomini, osserverà la realtà in maniera disincantata, sapendo
perfettamente che il mare sulle pance vuote non può esercitare alcun fascino.
Un pescatore, abituato a lottare con le forze
della natura, guarderà, in modo altrettanto distaccato,
ai pericoli celati negli abissi. Un intellettuale
che invece vive in un mondo tutto suo, incantato e
irreale, tenderà ad apprezzare i colori, le sfumature,
i profumi di un paesaggio marino...
Cosa vogliamo dire?
Che gli intellettuali, soprattutto se scrittori puri, devono tenersi lontani
dalla politica, rifutando incarichi di qualsiasi genere.
Perché di politica pratica ( quella,
semplificando, del famigerato sangue e m...) non potranno mai
capire nulla. Si accontentino perciò di romanzare la realtà
politica, talvolta bene, come Verga, che pure fu nominato senatore,
Melville, Conrad, talaltra male come l' "assessora"
Lidia Ravera. Ma non di praticarla, rischiando di dire e fare
stupidaggini: la descrizione della realtà filtrata dalla
scrittura ( che può essere ripetiamo, di buona o cattiva qualità) non è la
realtà così com'è, ma come viene immaginata e
reinventata da uomini - gli intellettuali - che pretendono di
parlare al mondo senza essere del mondo. Ovviamente, può
esserci ricaduta politica delle idee racchiuse in un romanzo.
Ma resta, per l'appunto, una ricaduta: l' effetto
indiretto del lavoro letterario. Per contro, un
successo editoriale e politico, intenzionalmente perseguito,
non significa affatto che nello zaino
di ogni scrittore si nasconda il bastone di
maresciallo. Insomma, la capacità immaginativa -
come la conoscenza - non fa virtù ( né morale né
politica). Figurarsi nel caso di una mediocre scrittrice.
Gli avvocati e i pescatori possono fare politica? Certamente. E non perché non possano fare danni... Diciamo però che "per professione" sono vocati a commettere meno errori.
Gli avvocati e i pescatori possono fare politica? Certamente. E non perché non possano fare danni... Diciamo però che "per professione" sono vocati a commettere meno errori.
Carlo Gambescia
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