Di rado gli osservatori discutono seriamente
del governo "tecnico" targato professor Monti (nella foto
al suo completo). E soprattutto dal punto di vista della scienza
politica: ci si perde, come capita di leggere,
nell’analisi puramente giornalistica di dettagli privi di
valore, o peggio di particolari, magari reinventati alla luce
di fantasie cospirative.
Consigliamo perciò ai nostri lettori, anche
per scoprire le ragioni del suo flop, di approfittare
del post di oggi, scritto con la consueta verve
analitica dall’amico Teodoro Klitsche de la Grange .
Buona lettura. (C.G.)
.
Il flop del governo tecnico: colpa di Monti o di una
classe dirigente in declino?
di Teodoro Klitsche de la Grange
Diciamo la verità: per aumentare le tasse sulla casa e la
benzina bastava un qualsiasi governo doroteo e non certo l’osannato (dalla
stampa) governo di geni (e tali perché tecnici). Il fatto pone tuttavia una
serie di quesiti, su quali è bene tornare ancora volta e in termini di sapere
storico e politico; quesiti che giriamo al lettore.
Primo: il governo Monti ha evidenti sponsor esteri, da cui
(e verso cui) manifesta dipendenza. Ma questa è una distinzione quantitativa
(rispetto ai governi della Repubblica) più che qualitativa: nel senso che tutti
i governi italiani l’hanno avuta, dal 1944 in poi. E che avvertiva Orlando (Vittorio
Emanuele) quando alla Costituente tacciava di “cupidigia di servilità” (verso
lo straniero) il governo (e la classe politica) di allora. Quello di Monti ne
dipende (dall’estero) ancora di più e non lo nasconde anzi, a tratti, lo
rivendica e sembra farne merito e motivo d’orgoglio. Ma la causa non ne è forse
la recente storia del dopoguerra, la costituzione vigente e una classe politica
consapevole di avere avuto il potere dai vincitori del secondo conflitto
mondiale? E quindi il prof. Monti è solo l’effetto ultimo ed evidente di una
“sovranità limitata” imposta da (quasi) settant’anni per cui è difficile
criticare (solo) l’ultimo arrivato.
Secondo: le “trovate” del governo, (tipo aumento delle
accise, IMU, ecc. ecc.) rivelano meno fantasia che coraggio. Ma anche qua,
siamo proprio sicuri che abbiamo soltanto una classe politica di basso profilo,
dedita più alla carriera che al servizio dell’interesse generale? O la menda va
rivolta all’intera classe dirigente, cioè a tutti coloro che detengono una
“posizione di potere sociale” (pubblica o privata che sia)?
Anni fa in un libro di buon successo
si additava come “casta” la classe politica. Che molto di vero ci fosse,
è chiaro: perché di caste in Italia ve ne sono tante. Ovvero tante
“oligarchie”, poco (o punto) accessibili e quindi chiuse, autoreferenziali e
riproducentesi per cooptazione. Il che, a giudizio di Pareto, tende a limitare
la circolazione delle élites e quindi a farle decadere (e con loro
la società). Che nell’università italiana non si trovino da decenni i Gentile,
i Fermi, i Santi Romano; che nell’industria la razza dei Giovanni Agnelli
(senior, s’intende) e dei Valletta, dei Mattei sia rimasta senza eredi (almeno
di quel livello) è evidente. E così si potrebbe continuare per il sindacato, le
istituzioni finanziarie (pubbliche e private), la letteratura e lo spettacolo.
Non mi ricordo che nessuno abbia notato, come, negli ultimi anni, i più
prestigiosi premi internazionali conferiti ad italiani erano a due attori
comici, il che significa che ciò in cui eccellono gli italiani contemporanei è,
secondo l’opinione degli stranieri, la comicità. Non per nulla un altro comico
si è candidato, per ora a fare il capo dell’opposizione, subito dopo il
Presidente della Repubblica.
Non si può pretendere che da una classe dirigente in
declino, Monti traesse altro che quello che ha; piuttosto credere che trovasse
qualcosa di meglio è una delle aspettative coltivate da una stampa prona e
incensante, il cui contraccolpo il governo sta subendo.
La realtà è che il merito ascritto a Monti & Co. è
proprio quello che, agli occhi di ogni democratico, sincero e smaliziato, è il
difetto più evidente: di non essere stato eletto e legittimato (e quindi
influenzato) dal popolo; che è pregio agli occhi dei “poteri forti”. Tant’è
che, quando Berlusconi era tornato al governo, i mezzi d’informazione da quelli
condizionati (quasi tutti) hanno cominciato a interrogarsi, indagare,
demonizzare il “populismo”. In realtà sotto quel termine nascondevano il loro
timore per il popolo e un governo da questo plebiscitato. Hanno fatto tesoro di
parte del giudizio di Montesquieu che il popolo ha centomila braccia (e
potrebbe usarle per prendere a bastonate i governanti); e dimenticato subito il
seguito (del pensiero di Montesquieu) che il popolo ha grande capacità di
scelta di coloro cui affida parte della propria autorità.
Ma non è dato vedere come possa esserci una democrazia senza
popolo e senza scelte di questo: credere a ciò è come ritenere possibile una
teocrazia senza preti, o un’aristocrazia senza nobili. Un bisticcio di parole
per occultare la realtà. Ma a lungo andare un governo “tecnico” in uno Stato
democratico è debole perché gli manca una parte essenziale del circuito
politico (capo-seguito, ovvero comando-obbedienza).
In uno Stato la forza di un governo è data – almeno per metà
– dal consenso del popolo, e in uno democratico ancora di più, onde alla fine
un governo non legittimato finisce per essere quello che poi è: privo del
(principale) elemento di forza, è un governo debole, anche se avesse i pregi
ascrittigli dagli organi d’informazione. Proprio quello che vogliono i “poteri
forti”. Poteri, secondo le ultime dichiarazioni
del professor Monti, che ora però sarebbero sul punto
di affondarlo... Ma questa è un’altra storia.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura
politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo
specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001),
L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove
va lo Stato? (2009).
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