Il libro
della settimana: Giovanni Borgognone e Martino Mazzonis, Tea Party. La rivolta
populista e la destra americana, I libri di Reset, Marsilio 2012, pp. 160, euro
12,00.
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Negli Stati Uniti, ma non solo, il termine populismo ha un significato
negativo, spesso teratologico. Si veda per tutti, ad vocem, l'accreditato Urban
Dictionary ( http://www.urbandictionary.com/define.php?term=populism
). Eppure, il richiamo al popolo sovrano è parte integrante di tutte le
costituzioni moderne, compresa quella americana. Per stabilire una distinzione,
diciamo che per il liberal il popolo è chiamato a decidere (scegliere) chi
dovrà decidere (di qui, la democrazia rappresentativa), per il populist è il
popolo stesso che deve decidere (di qui, la democrazia diretta). Ovviamente,
parliamo di differenze, come dire, filosofiche, di massima. Tuttavia, al
populismo americano, come evidenziano le tuttora citatissime ricerche di
Richard Hofstadter, si rimprovera uno stile politico patologico, una specie di
peccato originale: niente mediazioni, niente tolleranza, niente raffinatezze
culturali. Il populista sarebbe un uomo-contro che scorge continuamente
complotti e nemici, in particolare a Washington e nei consigli di
amministrazione delle grandi società per azioni. Insomma, un isolazionista, un
razzista e, culturalmente parlando, un becero.
Siamo davanti a una caricatura? In effetti, Hofstadter, da buon avversario del
romanticismo politico, non ha mai apprezzato gli estremismi politici ( o quelli
che per lui erano tali). Di qui la sua voglia di intingere la penna
nell'inchiostro del ridicolo. Per contro, studiosi, meno politicamente
corretti, come ad esempio Paul Piccone, hanno presentato il populismo, partendo
dagli studi di Lasch e di altri storici, sotto una luce diversa: non come
malattia infettiva e contagiosa, ma quale movimento politico giustamente
attento alla questione dell’autogoverno locale e della democrazia diretta.
Secondo Piccone, il populista, pur essendo nemico di Washington e Wall Street,
resta un uomo-per la democrazia, che vuole difendere dai suoi nemici: i
burocrati federali e gli affaristi delle grandi corporations .
Ovviamente, abbiamo semplificato, sorvolando sulle sfumature storiche che hanno
contraddistinto il populismo americano dall' Ottocento ad oggi. E per una
semplice ragione. La dicotomia interpretativa, sulla quale ci siamo dilungati
(forse troppo), permette di collocare, magari all'ingrosso, Giovanni Borgognone
e Martino Mazzonis, autori di Tea Party. La rivolta populista e la destra
americana ( I libri di Reset- Marsilio), tra i seguaci di Hofstadter e
dell'approccio teratologico. Il che non significa che il libro non sia degno di
lettura. Tra l'altro, di Borgognone, studioso di storia americana, ricordiamo
un ottimo volume su Burnham. Tuttavia, il lettore simpatizzante dei tea
partiers, come dire, non gioca in casa. E quindi rischia di non trovarsi a suo
agio. Piccola citazione, per chiarire lo Zeitgeist del libro: «Nella nuova
versione del populismo statunitense rappresentata dal Tea Party, in ultima
analisi, la questione centrale era il rifiuto del sistema economico e politico
vigente. Il fattore chiave che determinava questa situazione era la percezione
che le grandi istituzioni, tanto quella governative quanto quelle private, si
fossero oramai rivelate fallimentari nel tentativo di affrontare le nuove
sfide, che fosse peraltro in corso una fase di declino dell’egemonia economica
americana a livello internazionale e che fosse ancora più in declino la
posizione del cittadino comune statunitense di fronte al governo del proprio
paese.». I Padri Fondatori, continuano Borgognone e Mazzonis, tentando di
calarsi, certo da par loro, nella mentalità dei tea partiers, « avevano
insegnato che ogni forma di oligarchia politica ed economica era contraria allo
spirito americano: in quanto aristocrazia “artificiale”, infatti, rappresentava
la minaccia di un’influenza maligna dell’Europa da cui si sarebbe dovuta
preservare la vita del nuovo continente. Nel Vecchio Mondo vigeva il “governo
dei lupi sugli agnelli”, mentre un tratto essenziale dell’ “eccezionalità”
americana era l’autogoverno del popolo, inteso quale fondamentale pilastro in
difesa della libertà dall’ingiustizia e dal privilegio. Questo ovviamente era
per i tea partiers un insegnamento prezioso e irrinunciabile» (pp. 68-69).
Di qui però, la convinzione che «il populismo dei tea partiers discende da
quello di analoghi movimenti novecenteschi di destra, in particolare
dall’opposizione al New Deal rooseveltiano». Anche se, proseguono gli autori, «
le sue radici sono ancora più profonde e possono essere fatte risalire ad
Andrew Jackson (settimo presidente degli Stati Uniti e per molti versi padre
del moderno Partito Democratico), il quale ostentò pubblicamente il proprio
essere allineato con l’ “uomo comune” contro le oligarchie; alla successiva
parabola del People’s Party di fine Ottocento, che, in difesa degli agricoltori
del Sud e dell’Ovest, denunciava la corruzione delle élite politiche
finanziarie e il pericolo di un generale decadimento morale (…); a Woodrow
Wilson, abilissimo nel ricorso a una retorica americanista e localista (contro
la burocrazia e l’establishment), anche se nei fatti egli fu il presidente
artefice di quell’ampliamento dei grandi apparati federali che pose per certi
versi le premesse del New Deal di Franklin Roosevelt». Ciò significa che « i
più evidenti antecedenti della rivolta dei tea partiers, come si è detto sono
comunque rintracciabili nella variante “di destra” del populismo sorta negli
anni della Grande Depressione, quando si diffuse l’ostilità nei confronti delle
iniziative per fronteggiare la crisi economica da parte del governo federale,
ritenuto colpevole di introdurre il socialismo in America» (p. 111). Le stesse
accuse che oggi i tea partiers rivolgono a Obama, usando gli epiteti più
coloriti.
Insomma, gli autori escludono, come per gli altri populismi, che il movimento
possa giocare in futuro un ruolo positivo nella vita politica americana. Ecco
le conclusioni: « Non sembra (…) adeguata quale autentica “risorsa coesiva” la
molla anti-politica dei tea partiers. Significativa come si è visto, delle
frustrazioni della middle class nazionale ma, proprio in quanto incentrata
primariamente intorno a paure derivate dal senso di precarietà dello status
socioeconomico, incapace di andare veramente oltre un generico risentimento nei
confronti della politica tradizionale, facilmente manipolabile dai poteri
organizzati». Viene mostrata grande sfiducia anche sul nesso fra il movimento
del Tea Party e i nuovi media: questi ultimi « non sembrano in grado di
incidere significativamente su un reale potere decisionale da parte del popolo,
autentico senso della nozione di “democrazia” che pare tuttavia confinato nella
sfera degli ideali» (p. 149). A dire il vero, si tratta di un giudizio, che
Borgognone e Mazzonis estendono anche a Obama e al network politico, culturale
e mediatico che ruota ai Democratici, poco attento a «ridare un senso di
dignità alle persone».
Ma non è ciò che si propone il movimento del Tea Party? Di raccogliere la
protesta dell'ordinary citzen americano, come avvenne nel 1773, contro le
vessazioni stataliste? Certo, ora si tratta di Washington e non di Londra. Ma
non è la prima volta che nella storia americana ci si appella ad "uso
interno" all'episodio del Boston Tea Party. Da ultima, la sinistra
studentesca negli anni Sessanta del Novecento contro la guerra del Vietnam (si
vedano le belle pagine in argomento scritte da Bairati, americanista troppo
presto dimenticato ne Gli orfani delle ragione. Illuminismo e nuova sinistra in
America, Sansoni, 1975, pp 65-70). Certo, nel caso del Tea Party il senso di
dignità rinvia alla quadricromia, non propriamente progressista,
Costituzione-Dio-Famiglia-Proprietà. Ma che c’è di male? Parliamo di una
nazione ideocratica in cui Bibbia e Carta costituzionale si intrecciano
continuamente. Si pensi ai dotti lavori di Berman, dove si prova l’impatto
delle riforme protestanti sulla tradizione giuridica occidentale e quindi anche
americana. Anzi, il movimento del Tea Party, per certi aspetti, è fin troppo
laico. Il “populista” è un patriota costituzionale, ma in chiave isolazionista.
E isolazionismo per molti negli Usa non è una ingiuria… Il
"populista" accetta lo stato, ma respinge lo statalismo... Certo,
crede nella Costituzione perché i Padri Fondatori, profondamente credenti, vi
scorsero trasposti e sublimati i valori cui abbiamo accennato. E, di
conseguenza, qualunque violazione o attacco ai "sacri principi" non
può non colpire la sua dignità di cittadino-americano, credente, genitore, proprietario-lavoratore.
Provocando reazioni. Certo, spesso brusche, forse troppo. Ma la politica è solo
di questione di stile?
Carlo Gambescia
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