Il libro
della settimana: Alessandro Orsini, Gramsci e Turati. Le due sinistre,
Rubbettino 2012, pp. 148, Euro 12.00.
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A chiunque sia rimasto sorpreso dalla foto che ritrae Oliviero
Diliberto, leader dei Comunisti italiani, sorridere beato, accanto a una
manifestante che indossa la maglietta con la scritta “La Fornero al cimitero”,
consigliamo la lettura di quest’ultima fatica di Alessandro Orsini, Gramsci e
Turati. Le due sinistre (Rubbettino). Perché si tratta di un libro importante
su un tema, di regola, rimosso dalla sinistra, e non solo radicale: quello del
riformismo. Che c’entra il riformismo con una maglietta?. C’entra, c’entra…
Perché, ad esempio, Gramsci, sul quale si fa tuttora molta confusione
definendolo un riformista, se oggi fosse ancora tra noi, plaudirebbe alla
maglietta contro la Fornero...
Qual è la tesi del libro? Scrive Alessandro Orsini, professore di sociologia
politica e dell’educazione: « Attraverso l’analisi comparata della cultura
politica di riformisti e dei rivoluzionari fino all’avvento del fascismo
(1898-1921) sostengo che Turati è stato il protagonista di una tenacissima
battaglia culturale consapevolmente intesa a portare un argine pedagogico
all’ascesa dei totalitarismi di destra e sinistra. L’azione educativa di Turati
mirò conciliare la cultura socialista con quella liberale nel tentativo di
educare le masse al rispetto del gioco democratico. Sotto il profilo
pedagogico, Turati è stato il difensore dei principi che sono oggi a fondamento
della cultura politica dei socialisti liberali. Il più importante dei quali è
ciò che propongo di chiamare “diritto all’eresia” » ( p. 10). Per contro, l’azione
educativa di Gramsci, prosegue Orsini, si poneva agli antipodi di quella
turatiana: secondo il pensatore sardo « la libertà poteva essere raggiunta
soltanto attraverso la disciplina e la sottomissione al Partito. I giovani
ribelli a tale disciplina erano “esseri inutili e dannosi” (…). A suo dire un
buon socialista doveva rimanere il più lontano possibile da coloro che erano
estranei al Partito (…). Coloro che militavano nel fronte avversario erano
corrotti nello spirito. Erano tutti venduti e al servizio del padrone. Il vero
socialista è un uomo che legge soltanto la stampa di partito. Egli non deve
sfogliare né parlare di libri o di riviste che esprimono un punto di vista
diverso da quello del Partito. [Mentre] Turati affermava che il Partito socialista
aveva il dovere di educare al rispetto degli avversari politici e alla libertà
di critica. Gramsci educava a rifiutare ogni confronto con le idee degli
avversari» (p. 70). In sintesi: « Turati e Gramsci sono stati i rappresentati
di due sinistre in irriducibile contrasto culturale. I loro valori furono
inconciliabili. Turati condannava la violenza, l’intolleranza, l’insulto degli
avversari l’ortodossia, la sottomissione al partito. Gramsci esaltava la
dittatura, l’intolleranza, il disprezzo del nemico, la violenza, la parolaccia,
la soppressione del dissenso e della libertà di critica» (p. 101).
Quindi altro che riformismo... Gramsci fu un leninista puro, come del resto
Orsini documenta egregiamente. Insomma, esiste un filo rosso che va dal
gramsciano «il nemico è un porco» al Diliberto che sorride accanto a chi invoca
la morte dell’avversario politico. Salvo poi scusarsi in modo infantile…
Però, se oggi Diliberto sta a Gramsci, chi sta a Turati? E qui, purtroppo, se
pensiamo al fenomeno dell’antiberlusconismo viscerale che ha animato l’intera
sinistra nel demonizzare il Cavaliere, resta molto difficile fare nomi.
Probabilmente si dovrebbe risalire a Craxi, che, pur sganciatosi meritoriamente
dal berlinguerismo (forma senile del comunismo italiano), commise errori di
altro genere, che con l’aiutino dei giudici portarono alla dissoluzione di un
Psi, ormai su posizioni pienamente riformiste.
E qui, dobbiamo però muovere un rilievo, pur prendendo atto del notevole lavoro
di scavo e concettualizzazione di Orsini. Il quale utilizza, e con grande
eleganza applicativa, le teorie culturaliste di Geertz e Alexander, basate sul
potere autonomo della cultura e delle norme di controllo sociale. Proprio per
spiegare, e molto bene, come la cultura politica possa, interagendo con le
scelte individuali, riequilibrare le dissonanze cognitive tra norme e fatti, o
se si preferisce, semplificando, tra tra il dire e il fare. E come? Talvolta
favorendo l’integrazione dell’avversario, talaltra la sua eliminazione, persino
fisica. Insomma, Orsini è abilissimo nel indagare il peso di una pedagogia
politica, capace di influire sulla formazione del singolo individuo, seguendo
differenti direttrici: quella di Turati (riformismo) e quella di Gramsci
(rivoluzione). Lavoro eccellente.
Nonostante ciò, Orsini sembra non scorgere la debolezza di fondo del riformismo
turatiano, estesasi in seguito alle forze potenzialmente riformiste, in
particolare le socialiste, soprattutto fra il secondo dopoguerra e l’avvento di
Craxi. Ci spieghiamo meglio: è vero che Turati resta l’artefice di una salutare
pedagogia riformista. Ma attenzione: il suo riformismo - apprezzabilissimo, per
carità - era pur sempre da lui considerato un mezzo non un fine. Una modalità,
se si vuole, per giungere, comunque, alla società socialista. In questo senso
le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, pur se giustificate
sotto l’aspetto della contingente attività parlamentare, venivano giudicate,
come superabili nella futura società socialista, certo, da costruire per gradi,
attraverso le riforme e il rispetto dell’avversario.
Insomma, la debolezza costitutiva del riformismo turatiano è nella mancata
accettazione della democrazia parlamentare e della società capitalista come
fini e non come mezzi. Una mancata accettazione che caratterizzerà, in modo più
o meno spiccato, il partito socialista fino all’arrivo di Craxi. Probabilmente,
pur integrando Turati, il raffronto interno con Gramsci, andava perciò
allargato al riformismo "finalistico" di matrice bernsteiniana, personificato
in Italia, per fare due nomi illustri, da Bonomi e Bissolati. Per inciso: Die
Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie di Eduard
Bernstein, bibbia del socialismo riformista, uscita nel 1899 verrà tradotto in
Italia nel 1945, e in edizione integrale solo nel 1968… Un ritardo, che da
solo, meriterebbe uno studio approfondito…
Comunque sia, Bonomi e Bissolati, riuscirono, e con largo anticipo, a superare
ciò che lo storico Massimo Salvadori ha definito “sindrome dissociativa” di una
sinistra dominata da un antiriformismo mai diventato azione rivoluzionaria. E
in che modo? Accordando il proprio consenso riformista allo stato
liberaldemocratico e al capitalismo, puntando sul miglioramento progressivo
delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Certo, furono purtroppo
generali senza esercito... E sulla ragione della maggiore
"appetibilità" politica e sociale delle proposte massimaliste e,
diciamo così, rivoluzionariste rispetto a quelle riformiste, va presa in
considerazione un'altra questione, sempre di tipo pedagogico, ma più ampia.
Probabilmente, alle origini dell'opzione antiriformista, rimane una
particolarità italiana, che non riguarda solo la sinistra, e che risale alla
fine dell’Ottocento: quella dell’antiparlamentarismo. Parliamo di una scelta
fondata sull’ idea di una mitica democrazia senza parlamento e partiti. Detto
altrimenti: di una democrazia organica o proletaria, tristemente capace di
mettere a frutto l’odio verso le istituzioni politiche “borghesi”, come poi
predicarono i teorici dello stato corporativo e della democrazia progressiva o
proletaria. E come oggi continuano a sostenere gli apostoli dell’antipolitica e
i grigi adepti del potere tecnocratico, ovviamente in compagnia dei pallidi
adoratori della mano invisibile, per i quali, in ultima istanza, sono i mercati
a votare e non i parlamenti.
Ecco, il problema italiano non sembra essere mutato: quello di una maturità
liberale, tuttora latitante, come capacità di un’intera classe dirigente, sia a
destra che a sinistra, di accettare istituzioni liberali per eccellenza, dal
parlamento ai partiti. Insomma, di dare una risposta chiara all’antico quesito
pre-liberale del ballots or bullets? Schede elettorali o pallottole? La
risposta sembra facile: ballots, schede. Eppure…
Comunque sia, libri come Gramsci e Turati non possono non contribuire, e
grandemente, alla qualità del dibattito. E soprattutto all’auspicabile sviluppo
di una sincera pedagogia liberale delle istituzioni politiche.
Carlo Gambescia
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