La
politica è teatro o il teatro è politica? La domanda è alla Marzullo, ma in
effetti, a scavare bene, il problema esiste... E va oltre la questione dei
generi politici e teatrali. Perché? Dove non c’è politico, nel senso
schmittiano del termine (della decisione e del conflitto amico-nemico), non c’è
il tragico (in senso teatrale, per non dire del resto…), ma non c’è neppure il
comico. Di conseguenza, l’attore si trasforma in servo non tanto del potere
(che non c’è…), quanto di se stesso (ben presente al mondo), rischiando così di
sprofondare nelle più nera malinconia… O se si preferisce nell' impoliticità...
Ecco, almeno a nostro avviso, il “succo metapolitico" del gustoso post
scritto dall’ amico Roberto Buffagni . Buona lettura! Anzi, buon appetito!
Perché, come scoprirete, la sua polpa è ancora più saporita. (C.G.)
Com’è triste, il comico italiano!
Da venticinque anni faccio regolari immersioni nel mondo sommerso del Varietà e
dell’Avanspettacolo, frequentandone piani nobili e chambres de bonne ormai
eguagliati dalla morte, “ ‘a livella”, nella formula dell’ultimo Imperatore di
questa Atlantide italiana, principe Antonio de Curtis. E’ solenne e
ammonitorio, un quarto di secolo: vediamo di ricavarne qualcosa…non so, un
giudizio, una conclusione, una morale…Ed eccola qua la morale, in esclusiva per
Carlo Gambescia e i suoi lettori (ora, anche un po' miei...): com’è bello e
com’è triste, il comico italiano! Che sia bello, non ci vogliono venticinque
anni per arrivarci. Guardatevi qualche vecchio spezzone di varietà in
televisione, e ci arrivate in cinque minuti. La tristezza, invece, sta più in
profondo, e per arrivarci ci vuole lo scafandro di un po’ di pazienza e di
pensiero.Le prime bucce di questa cipolla di tristezza sono quelle
universalmente note dei lustrini che si sfaldano come forfora dall’abito di
luce delle soubrette, del lusso in scena con fame nel backstage, dei denti del
capocomico che in scena lampeggiano di sorrisi e in camerino addentano le
ballerinette, del pubblico che in teatro sogna i grandi amori e all’uscita
degli artisti allunga le mani e sbava, etc., etc. Per esser triste è triste, ma
qui restiamo nell’ Allgemeine Menschliche: lo scettico cafard apres la fête, il
dialettico nesso maschera/volto, il melodrammatico cuore che sanguina mentre il
carnevale impazza (“Ridi, pagliaccio!”), e volendo, anche lo scolastico sabato
del villaggio. Insomma, restiamo sul generico, e non c’era bisogno di un quarto
di secolo di pensierini della sera per arrivarci. C’è invece un nocciolo di
tristezza, nel Varietà e nell’Avanspettacolo italiani (e appena avvertibile col
senno di poi nella grande forma drammatica da cui discendono entrambi, la Commedia dell’Arte) che è
loro proprio: un nocciolo di tristezza italiana. Non faccio il misterioso e ve
lo dico subito. Il Varietà italiano è triste perché è solo: ed è solo, solo
come un cane in chiesa, solo come un uomo in punto di morte, solo come un
orfano, perché gli manca la tragedia. Il posto del comico (come genere
drammatico e come attore) è il posto del servo. “Tieni fame? Tieni freddo?
Tieni paura? Allora puoi fare il comico.” sentenziava Totò, ed è così dai tempi
di Aristofane e di Plauto. Il cibo, il calore e il coraggio li ha il signore: e
infatti, è a lui che spetta il tragico. Avendo il cibo assicurato, il calore di
una casa avita e il coraggio ereditario, al signore, al tragico signore spetta
un altro monopolio, che sul piano drammatico conta ancor di più: il monopolio
del senso, della creazione di una storia con un principio, un mezzo e una fine;
insomma, la sovranità sull’ordine. Al servo, al comico servo cosa resta? Gli
avanzi. Gli avanzi del cibo, del calore, del coraggio, e dell’ordine: la fame,
il freddo, la paura; e la sovranità sul disordine, il frammento, il carnevale:
insomma, la fantasia comica. Il Varietà si chiama così perché è composto da una
varietà, una molteplicità slegata di frammenti drammatici, con giudiziosa
modestia chiamati “scenette”.
E’ una distribuzione di ruoli classica, che in conformità
all’atteggiamento classico “preferisce l’ingiustizia al disordine” (Goethe). Il
comico servo potrà raggirare e imbrogliare il tragico signore, e anche
deriderlo quando non è all’altezza del suo ruolo; ma sarà sempre il signore a
decidere l’ordine della storia e della vicenda drammatica. Ma – e qui veniamo
al dunque, al dunque italiano – se il signore non c’è? Se non c’è il tragico,
il comico che fa? Come va a finire? In Italia, infatti, e basta consultare le
storie della letteratura e del teatro, il tragico non si può fare. Quando lo si
fa, come lo si è fatto per esempio nel Seicento, è una esercitazione letteraria
di corte, e non ci crede sul serio nessuno, né chi lo fa né chi vi assiste; e
Alfieri è un grande uomo che parla da solo, dialogando con le ombre dei morti
eroi: meglio delle figurine Panini, ma purtroppo i morti eroi riprendono vita
sulla scena solo quando il pubblico sente l’impellente bisogno di avere degli
eroi vivi. Non è che qui manchino le capacità letterarie: a scrivere tragedie
ci ha provato anche Manzoni, non proprio l’ultimo venuto, e ha saputo fare solo
la tragedia della rinuncia all’azione (l’Adelchi). E’, molto semplicemente, che
per fare tragedia bisogna rappresentare credibilmente la sovrana libertà del
signore alle prese con decisioni di vita e di morte che riguardino lui, e con
lui tutta la comunità; per farla corta e semplificare, le decisioni politiche
prese in stato d’emergenza, le decisioni che fondano la legge quando la legge
scritta non c’è o non parla più.
Prova a contrario uno: l’unico genere drammatico che si
avvicini alla tragedia, in Italia, sono le storie di mafia et similia. Dove
l’eroe, in effetti, prende sovrane decisioni di vita e di morte che riguardano
lui e tutta la sua comunità; peccato che la sua comunità di masnadieri non
possa proporsi come comunità di tutto il popolo. Prova a contrario due: ne Il
mestiere delle armi, un film di grande accuratezza scenografica sulla morte di
Giovanni dalle Bande Nere, un regista niente affatto spregevole o bugiardo come
Ermanno Olmi miracolosamente non si accorge di quanto tutti i contemporanei
alla vicenda capirono e scrissero a chiare lettere: che la morte di Giovanni
era una tragedia politica, la morte delle ultime speranze d’indipendenza
italiana.E dunque, se il tragico e il signore non ci sono, il comico e il servo
restano soli. Restano soli e sono tristi, perché si sentono pesare addosso l’
ingiusta responsabilità di creare un ordine, una storia, un senso, e non lo
possono né lo vogliono fare. E però bisogna pur vivere, e the show must go on.
Il servo comico si carica anche il peso del signore assente, e stronfiando e
bestemmiando tira la sua e nostra carretta. La “commedia all’italiana”
cinematografica, ultimo atto della tradizione che nasce con la Commedia dell’Arte e
ultimo genere drammatico autenticamente nazionale, questo lo ha capito molto
bene. Guardate Vittorio Gassman, fastidioso trombone finché si limitò a fare
l’attore tragico, profondo interprete da quando lasciò che due metà, la comica
e la tragica, gli combattessero dentro: forse non sarà ricordato per i suoi
Amleti, Gassman, ma per il suo Brancaleone certo sì.
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Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in
tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di
Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli.
Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del
Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage....
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